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Cinema, arte, spettacolo e filosofia spicciola.

  • La vera storia del meme “Let him cook” – Lasciatelo cucinare

    La vera storia del meme “Let him cook” – Lasciatelo cucinare

    Lasciatelo cucinare. È questo il messaggio dietro il meme “Let him cook“, nonchè la sua traduzione letterale dall’inglese. Ma cosa significa e cosa indica questo meme?

    Let Him Cook, noto anche come Let That Boy Cook o Let him cook Toy Story, è un termine gergale e uno slogan usato come richiamo per dare a qualcuno lo spazio per pianificare, elaborare strategie o affinare la propria arte.In molti casi viene riferito scherzosamente a flirt in corso, specialmente sui social, ovviamente in ottica predatoria o maschilista e spesso all’insaputa dei partecipanti al flirt stesso.

    Lo spezzone originale è tratto dal film Toy Story 3.

    Spiegazione del meme

    Il meme “Let him cook” è diventato popolare sui social media come espressione di fiducia in qualcuno che sta per fare qualcosa di potenzialmente sorprendente o straordinario. La frase viene utilizzata per incoraggiare qualcuno a continuare con quello che sta facendo, suggerendo che potrebbe avere un piano o un’idea che porterà a risultati impressionanti. In Italia il meme è diventato “lasciatelo cucinare” ed è spesso riferito all’attuale allenatore dell’Inter Simone Inzaghi, il “Demone” di Piacenza, secondo la pagina Aggiornamenti quotidiani sul demone di Piacenza.

    Utilizzo sui social media

    Sui social media, la frase è stata adottata in modo più ampio e viene spesso utilizzata in modo ironico o umoristico. Ad esempio:

    • Situazioni comiche: Se qualcuno sta facendo qualcosa di strano o divertente, si può usare “let him cook” per suggerire che potrebbe esserci un senso nascosto dietro le sue azioni.
    • Creatività e ingegno: Quando qualcuno sta lavorando su un progetto creativo o sta ideando qualcosa di nuovo, la frase può essere usata per mostrare fiducia nelle sue capacità.
    • Video e meme: È comune vedere questa frase accompagnata da immagini o video di persone che sembrano completamente immerse in quello che stanno facendo, spesso con risultati inaspettati o comici.

    Esempio visivo

    Un esempio classico potrebbe essere un video di qualcuno che prepara un piatto in modo non convenzionale o inventa un nuovo modo di fare qualcosa. Qualcuno potrebbe commentare “let him cook” per suggerire che, nonostante l’approccio strano, il risultato potrebbe essere sorprendente.

  • 12 cortometraggi gratuiti da riscoprire

    12 cortometraggi gratuiti da riscoprire

    Stasera vi proponiamo una piccola selezione di cortometraggi di vario genere, tutti gratuitamente reperibili e che potete gustarvi direttamente dal nostro sito. Abbiamo alternato perle dimenticate del passato con film più recenti, in nome di un’amalgama che raccoglie più feeling: distopia, puro gusto per la narrazione, nichilismo ma anche rilassatezza e gusto per la grafica 3D.

    Buona visione!

    Skywatch

    Spring

    La città nel cielo

    recensione

    FIRE (POZAR)

    Un corto di David Lynch che potrebbe esservi sfuggito, pubblicato sul suo canale Youtube.

    Alone

    I’m going out for cigarettes

    Un corto suggestivo e dai tratti grotteschi, con riferimenti al mondo della psicologia e del complesso edipico.

    OLTRELUOMO

    Un picconiere e un caruso rimangono intrappolati in miniera, a causa di un’esplosione di gas grisou. Non c’è via di uscita. Un corto profondo e filosofico sulla condizione sociale dei protagonisti.

    Take me please

    Cittadino modello

    Un cortometraggio del 2020 di David James Armsby, che rielabora l’eterno tema della distopia.

    Coda

    Purl

     

    Love is mute

    Una simpatica storia su come un accenno di magia porta Mike, il protagonista di questo corto realizzato da Pranav Pujara, a superare la paura di esprimersi.

  • I corsi di seduzione online non servono a niente (e lo dice la statistica)

    I corsi di seduzione online non servono a niente (e lo dice la statistica)

    In una mia precedente vita lavorativa mi venne proposto di frequentare un corso di seduzione in presenza, su “raccomandazione” di un collega che affermava pomposamente di conoscere un coach a cui voleva introdurmi. Trovavo molesto il modo di approcciare alla questione, soprattutto perchè stavamo andando a pranzo e non ricordo come eravamo arrivati a parlare dell’argomento (la dinamica non doveva essere diversa dall’equazione becera identificare un single + additarlo come sfigato, in effetti). Lo lasciai parlare per un po’, in omaggio alla dialettica lacaniana per cui il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno: per questo soggetto significava molto dirmi quelle cose, dato l’ardore e la falsa empatia con cui me lo comunicava, e anche perchè (credo) avrebbe incassato una potenziale commissione sul mio futuro acquisto del corso. Alla fine non se ne fece nulla. Dopo neanche un anno da questo episodio, nemmeno lavoravo più lì.

    Mi ritrovo a ripensarci quasi quattro anni dopo.

    Su Google si trovano 2 milioni e 190 mila risultati annessi alla ricerca corso di seduzione, nelle differenti varianti di pluralità (corsi di seduzione), di genere (corsi di seduzione per uomini, soprattutto, ma ce ne sono pure per donne) oltre che su base geografica (corsi di seduzione bologna, strangolagalli, roma, palermo, milano, pocapaglia, cosenza, capracotta e via dicendo). Molti si presentano tra i risultati come coach della seduzione, ed è impossibile non osservare che scrivono addirittura di essere psicologi, in alcuni casi. Il corso di seduzione ovviamente è un presumibile percorso in cui uno impara come sedurre l’altro, sfruttando specifiche tecniche e supponendo, ovviamente, che esista una tecnica (o più di una) per farlo. Mindset, 10 modi per copulare, come guardarla dritta negli occhi, come andare direttamente al punto (che era l’ossessione primaria e il mood dominante del libretto rosso del lupo di Wall Street)

    Un corso di seduzione dovrebbe essere un tipo di programma di formazione o istruzione che mira ad insegnare agli individui come attrarre romanticamente o sessualmente potenziali partner. Questi corsi hanno la pretesa di insegnare abilità sociali, comunicazione efficace e strategie di approccio per aumentare le probabilità di successo nelle relazioni romantiche o sessuali. Alcuni di essi promuovono l’empatia, la comunicazione autentica e il rispetto reciproco come fondamentali per costruire relazioni sane (si spera), mentre altri possono concentrarsi su tattiche più maliziose o manipolative per cercare di “sedurre” qualcuno. Alcuni corsi hanno spesso sollevato preoccupazioni etiche qualora possano promuovere un comportamento coercitivo, ingannevole o (alla meglio) poco rispettoso.

    In molti contesti i corsi di seduzione sono stati oggetto di controversie e critiche, in particolare per il modo in cui possono influenzare le dinamiche di genere e la percezione delle relazioni. Tutte le volte che ho parlato dell’esistenza di questi corsi con qualcuno (a parte il soggettone di cui sopra, ovviamente) il parere unanime era che non fossero efficaci (o peggio), ma la cosa che ho trovato sempre molto curiosa è che la discussione finiva lì: forse si erano imbarazzati e pensavano ne avessi fatto uno, forse (più probabilmente) nessuno avrebbe saputo dire per quale motivo non erano efficaci.

    In alcuni casi, ad esempio, questi corsi provano a proporre elementi di linguaggio del corpo, ma anche una serie di frasi precostituite che un uomo X potrebbe dire ad una donna Y (o viceversa). In altri (mi baso sui video promozionali che ho visto, oltre che post su Twitter e Facebook) vengono promosse (soft?) skill del tipo come farti rincorrere dalla ragazza che ti piace (…rubandole la borsetta, verrebbe da ironizzare), al limite di instaurano preconcetti inconsci – tipo l’uomo è una bestia o è la puttana della donna, mutuando più o meno malamente dalla psicologia e dal mondo della leadership aziendale un po’ di terminologia, a volte prevedendo il futuro per generalizzazione (scoprirai cosa vogliono davvero le donne), senza dimenticare l’immarcescibile conquista del mindset da vero seduttore/seduttrice.

    Non è raro che il corso sia condotto da donne per uomini, da uomini per uomini e via dicendo, in tutte le combinazioni possibili (e non è da escludere che possano riguardare anche i generi non binari), e se in alcuni casi sono autentici scappati di casa, in altri sono professionisti del settore a vari livelli (terapeuti, psicologi). In alcuni casi i corsi avvengono pure in pubblica piazza, con il coach che opera dal vivo e spiega all’allievo come esercitare l’arte di seduzione sulla gente che passa in quel momento per strada.

    Nel libro Pensieri lenti, pensieri veloci dello psicologo Daniel Kahneman si trattano tematiche essenzialmente legate al mondo degli eventi statistici, con un taglio rigoroso quanto discorsivo e senza il piglio (e la supponenza) da scienza dura, rimanendo sempre ancorati ai fatti. Uno dei passaggi meno intuitivi del libro, peraltro, descrive quella che l’autore chiama scienza del “senno di poi” in questi termini, con un esempietto discorsivo:

    Sta imparando troppo da questa storia di successo, che ha un po’ troppe cose giuste al posto giusto. Si è lasciato catturare dalla fallacia della narrazione.

    E poi, poco dopo, si scrive:

    Non ho prove per sostenere che quell’azienda è gestita male. L’unica cosa che so, è che le azioni sono calate. È un bias del risultato, fatto in parte del senno di poi, in parte dell’effetto alone.

    Le affermazioni sono veritiere e verificabili quanto, in apparenza, poco logiche: come si fa a dire che uno stia “imparando troppo” da una case history di successo, ad esempio? Perchè mai non dovrei dare peso al fatto che le azioni sono calate ed hanno causato cattiva gestione? In realtà potrebbe essere un caso  di inversione causa ed effetto: potrebbe essere capitato, in altri termini, che la cattiva gestione di cui il manager era a conoscenza lo abbia depresso e indotto a comportarsi male, e non (al contrario) che il suo cattivo comportamento abbia causato cattiva gestione.

    In effetti non sembra neanche un azzardo prefigurare che un corso di seduzione specifico (non ci riferiamo a nessuno in particolare, tra quelli esistenti, tanto per sgombrare il campo da eventuali risentimenti o peggio: ne parliamo in generale) riporti una certa case history positiva, per dirla con l’autore un po’ troppe cose giuste al posto giusto. È opportuno specificare che quando le situazioni sono troppo “pulite” e prive di imprevisti sono proporzionalmente difficili da mettere in pratica, per lo stesso motivo per cui si studia nella scuola guida e poi difficilmente ti ritroverai degli incroci stradali nell’ordine in cui te li hanno presentati nel manuale. Non per altro, ma anche se uno mi fornisse un algoritmo esatto per sedurre non sono sicuro che potrei applicarlo facilmente: in gioco non ci sono singolarità, bottoni ON/OFF da accendere o spegnere. Semmai, direi, sono in ballo quelli che Deleuze e Lacan chiamano con­ca­te­na­menti di significato, contesti, persone con annesse storie ed esperienze, occasioni uniche nel loro genere, situazioni su cui spesso non sappiamo nulla a priori (possiamo avere tutta la formazione del mondo, per intenderci, ma non potremo mai evitare che il nostro crush sia già impegnato, ad esempio).

    Kahneman dedica un paragrafetto del suo monumentale libro sul funzionamento del cervello umano (distinto da pensieri lenti elaborativi vs. pensieri veloci istintivi quanto fallaci) alle famigerate ricette del successo: la statistica potrebbe essere effettivamente uno strumento utile per misurare il tasso di “acchiappo”, del resto – semplificazione becera e degna dell’argomento del giorno. Se mi si presentano tre occasioni e le fallisco tutte, ad esempio, invece di dannarmi l’anima a capire cosa ho sbagliato potrei pensare di allargare il campione e porre N=100 o N=1000 tentativi, anche perchè il corretto calcolo della probabilità evidenzia la necessità di una adeguata numerosità del campione. Anche se non incontrerò mai 1000 super modelle o sosia di Jason Mamoa, per intenderci, nel lungo periodo mi ritroverò all’incirca una metà di casi potenzialmente favorevoli (e se consideriamo che molte esclusioni comportano che siamo noi a dire di no, ogni tanto, rilevarlo è quantomeno consolatorio). Non serviva un manuale per capirlo, a pensarci, che non fosse al limite uno di statistica e probabilità. Sui piccoli numeri, al contrario, non concludiamo quasi mai nulla: è quando si arriva a numerosi tentativi che le cose diventano interessanti, e non vale solo nella seduzione (qualsiasi cosa si voglia intendere con questa parola, in effetti).

    Kahneman parla anche dell’illusione di aver capito il passato come ingrediente (tossico e fuorviante) per cui ci convinciamo, senza motivo, di aver “imparato la lezione” per il futuro, controllandolo. Come se in futuro si ripeteranno le stesse circostanze, come se il futuro diventasse nostro solo perchè abbiamo attribuito un senso all’esperienza. Sono illusioni confortanti, se non altro, a volte servono a ridurre l’ansia per l’incertezza, ma in generale sarebbe molto più utile imparare a gestire l’ansia un po’ per volta (magari mediante psicoterapia, mi permetto di sottolineare per esperienza diretta). L’autore fa poi l’esempio di blasonati quanto ingannevoli libri di management che mostrano le 10 aziende che hanno avuto successo, invitando i CEO a prendere esempio e replicandolo. 10 aziende scelte perchè hanno avuto successo e che quindi per forza ne avranno, magari dopo averne scartate altre 990 che tanto di successo non erano.

    Del resto il vituperato principio di imitazione – nello specifico l’idea libertaria o liberale che un pinco pallino qualsiasi possa avere successo imitando beceramente la gente che è considerata cool – sulle prime sembra che non presenti nulla di anomalo, anzi. Se ha funzionato per te, perchè non dovrebbe funzionare per me? Provate ad applicarlo quando vedete il palleggio virtuoso di un giocatore di serie A e capiterete cosa intendo. Statisticamente parlando, insomma, ci sono vari errori e bias cognitivi in ballo se decidiamo di seguire questo approccio: chiaro, è evidente che esiste un’influenza tra le scelte del CEO ed il fatturato aziendale, così come le nostre azioni quotidiane condizionano il fatto di rimanere single per X anni o al contrario innamorarci della collega del piano terra. Ma non possiamo controllare tutto e non abbiamo tutto questo potere in mano, alla fine. Al netto del contesto (che è un bel mattoncino da considerare nella sua interezza, e che si potrebbe riassumere nella massima sbrigativa non possiamo controllare tutto, e prima lo accettiamo meglio sarà), entra pure in ballo la  fallacia della narrazione, un ulteriore livello di randomicità che molti scienziati e saggisti hanno evocato per riferire la falsa attribuzione di cause agli eventi, l’illusione di aver capito qualcosa, l’idea che una narrazione accattivante sia pure realistica, l’idea che A provoca B quando in realtà le correlazioni sono quasi sempre randomiche, non causali (esiste una correlazione spuria totalmente insignificante tra il numero di morti per annegamento ed il numero di film girati da Nicholas Cage).

    Consultare o seguire metodi di seduzione facendone uso in senso propositivo può sembrare sulle prime un’idea creativa, quasi divertente, ed è anche fuori di dubbio che esistano almeno un po’ di casi di successo in tal senso. Il problema è che sono comunque affetti dal bias del risultato: significa che tendiamo a considerarli validi perchè hanno prodotto un risultato favorevole, ma questo non vuol dire affatto che sia stata una buona idea farne uso a monte. Molte relazioni iniziano malamente e finiscono peggio anche per questo motivo, ed è comune che uno possa pentirsi di aver preso quel maledetto caffè quel giorno, per poi ritrovarsi con un partner geloso e indisponente al seguito. Senza contare che il tutto si somma ad un potenziale effetto alone, che si esplica nel percepire un tratto basandosi su un parametro errato che non c’entra niente: giudicare l’intelligenza in base all’aspetto fisico, ad esempio, oppure la seduttività mediante il numero di ore giornaliere connessi online.

    La positività e negatività di un approccio di seduzione qualsiasi, in altri termini, è soggetto alla valutazione ed al coinvolgiment di fattori non misurabili (su tutti, il benessere dei soggetti coinvolti) e non andrebbe pertanto affidato a nostro avviso a considerazioni troppo semplicistiche o biased. Questo discorso potrebbe non aver convinto il lettore reduce dal centoquattordicesimo due di picche consecutivo, ma (anche qui) è plausibile che ci sia un bias di campionamento di mezzo: il motivo dei continui fallimenti potrebbe essere legato all’aver escluso (magari inconsciamente) tutte le situazioni favorevoli, limitandosi a considerare quelle negative, assaporando (si fa per dire, ovviamente) la pluri-citata profezia che si autoavvera.

    Non se ne esce facilmente, insomma: l’unica cosa che sappiamo scientificamente è che allargando il campione le probabilità favorevoli prima o poi arrivano, anche perchè esiste il fenomeno di regressione alla media che tende a distribuire  il numero di lanci della moneta tra testa e croce in modo globalmente uniforme (senza che ciò implichi che i casi si “bilanciano”, perchè altrimenti si scivolerebbe nella fallacia del giocatore). Prima o poi, insomma, su lungo periodo qualcosa di buono arriva. Se ci mettiamo a manipolare il campione come io stesso ho fatto per anni, ovviamente, i tempi possono diluirsi un po’ (si spera non troppo).

    L’amore è legato alla fortuna, in fondo: si tratta di un tabù che la società tecnologica e accelerata come quella in cui viviamo non riesce a riconoscere senza diventare isterica, o tende addirittura a negare o ad attribuire ad una “mancata formazione” in ambito seduttivo o allo scarso uso di app di dating. Dubito che la persona che mi propose quel corso con quel modo viscido o passivo-aggressivo fosse troppo esperto della materia, peraltro: a suo stesso dire, a ripensarci, aveva sposato una vicina di casa da ragazzino, e non dava comunque, di per sè, esattamente l’idea di essere l’uomo di mondo che non deve chiedere mai.

    L’ingiustamente vituperata fortuna, del resto, sembra ancora un retaggio odioso e ripugnante, e quanto è antipatico Gastone e quanto è simpatico Paperino, ma andrebbe probabilmente rivalutata nell’ottica di Richard Wiseman,  psicologo sociale orientato (anche qui) sulla statistica, che nel suo libro di auto-aiuto Fattore fortuna suggerisce come, per certi versi, per essere più fortunati nella vita basti (si fa per dire) provarci un po’ di più, in molti casi. Ovviamente bisogna considerare anche ciò che significa per noi soggetti, senza mai sentirci cavie di un progetto malefico: oppure, se preferite, senza mai sottovalutare il nostro vero stato d’animo.

    Una cosa che si impara esclusivamente a proprie spese, del resto.

    Foto di Thomas Bormans su Unsplash

  • Per l’amor di Dio: la vera storia di “Se lo vuoi fare, fallo”

    Per l’amor di Dio: la vera storia di “Se lo vuoi fare, fallo”

    Per l’amor di dio, fai! Se pensi di non poterti fermare, fallo. E fallo. Pensaci n’attimo, pero’ se vuoi fallo. Potresti anche non farlo, vedi? Mi apro… pero’, se lo vuoi fare…

    È il protagonista di uno dei meme più citati su internet, e la sua fama è ormai universale: sono usciti articoli sui giornali che parlano del prof Tamburello: a 78 anni (al momento in cui scriviamo) Antonino Tamburello è il fondatore e direttore dell’Istituto Skinner e della Facoltà di Psicologia dell’Università UER di Roma. Nei suoi spettacoli teatrali ama approfondire il tema della «mente nuova».

    Se pensi di non poterti fermare è il meme che invita all’azione, all’agentività, all’idea di provare a sentirsi operativi nel fare un qualcosa che ci perplime o ci crea qualche dubbio, ansia intollerabile. Il discorso di tamburello esprime – a nostro avviso, s’intende –  un conflitto interno tra impulso e riflessione, azione e esitazione. È un invito a confrontarsi con la propria libertà di scelta, un’esplorazione del desiderio e della possibilità di agire o trattenersi.

    Il discorso “Fallo! Ma pensaci. Oppure no, fallo davvero” rappresenta un nodo fondamentale della condizione umana: il confronto con la libertà e il peso della scelta. Apparentemente semplice, questo invito a decidere esplora il conflitto tra il desiderio di agire e il dubbio che accompagna ogni decisione. Esso tocca corde profonde che attraversano filosofia, psicologia, esoterismo e persino la politica della volontà.

    Il tono è sempre oscillante e possibilista, rivelando la tensione tra il voler fare qualcosa e il dubbio che accompagna l’azione. Ed è diventato un meme che non coglie pienamente il senso di un cambiamento interiore, ma – come dire – non ci sentiamo di affidare ad internet un compito così arduo. Diffonde una cultura dell’agentività, e tanto basta.

    In chiave interpretativa:

    1. Impulsività e razionalità: L’atto è continuamente incoraggiato (“Fallo!”) e poi rimesso in discussione (“Pensaci un attimo”). Questo riflette la dialettica tra il desiderio immediato e la necessità di ponderazione.
    2. Libertà e indecisione: Si sottolinea che l’azione è una scelta personale e non obbligata (“Potresti anche non farlo, vedi?”). È un’esortazione a riconoscere il proprio potere decisionale.
    3. Apertura emotiva: “Mi apro…” segnala una vulnerabilità, quasi a dire che il dialogo non è solo razionale ma anche emotivo. L’atto non riguarda solo il fare, ma il modo in cui ci si relaziona con se stessi e con l’altro.

    In definitiva, il discorso rappresenta il tumulto dell’interiorità quando ci si trova di fronte a una scelta significativa, oscillando tra azione e riflessione, desiderio e dubbio.

    Esercizio di stile: come l’avrebbe detto…

    Per l’amor di dio, fai! Se pensi di non poterti fermare, fallo. E fallo. Pensaci n’attimo, pero’ se vuoi fallo. Potresti anche non farlo, vedi? Mi apro… pero’, se lo vuoi fare…

    La seguente parte è stata generata e rielaborata grazie ad un’intelligenza artificiale generativa.

    Aleister Crowley

    Aleister Crowley, con il suo stile esoterico e provocatorio, avrebbe enfatizzato il concetto di Thelema (Volontà) come espressione del vero Sé, invitando a un’azione consapevole, libera e in armonia con la propria natura spirituale e probabilmente avrebbe riformulato così:

    “Fallo, perché il tuo vero volere non conosce catene! Se pensi di non poterti fermare, è perché l’energia della tua volontà arde nel profondo. Ma rifletti, se credi sia necessario: il vero volere non teme il silenzio prima dell’atto. E se non lo fai, allora sappi che hai scelto, e ogni scelta è sacra. Apriti al tuo desiderio più autentico, perché solo così conoscerai la legge: Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge. Ma bada, ‘volere’ non è capriccio: è scoprire il tuo destino e seguirlo senza timore.”

    Di Arnold Genthe – The Equinox 3.1 (Detroit: Universal Publishing Company, 1919), facing page 197., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68027246

    Jacques Lacan

    “L’atto, una volta eseguito, è un attraversamento del reale. Non è il desiderio che guida bensì il confronto con il vuoto, con quel punto impossibile che struttura il soggetto. Fallo, dunque, se vuoi incontrare il tuo desiderio, ma sappi che, una volta fatto, l’Altro non sarà più lo stesso. Sei pronto a sostenere lo scarto simbolico che ne deriverà?”

    Slavoj Žižek

    “Fallo o non farlo, ma sappi che entrambe le scelte sono intrappolate nell’ideologia. Pensare di avere una scelta è già un sintomo dell’illusione ideologica. Vuoi davvero farlo? O è il Grande Altro che ti spinge? L’unica via d’uscita è assumere il rischio e fare l’atto autentico: fallo, ma fallo davvero!”

    William Gibson

    “L’atto che contempli è come un codice che vuoi eseguire in uno spazio liminale. È la soglia tra l’uomo e il cyberspazio, una linea sottile tra fare e non fare. Fallo, per riscrivere te stesso nel sistema, ma ricorda che ogni azione lascia una traccia nel flusso dati. Sei pronto a vedere cosa succede quando premi invio?

    Karl Marx

    “La tua esitazione riflette l’alienazione dell’individuo nel capitalismo. Fallo, se ciò significa rompere le catene della passività e agire come soggetto storico. Ma ricordati: l’atto non è mai solo individuale. È nel fare che trasformi non solo te stesso, ma anche i rapporti di produzione che ti determinano.”

    Aleksandra Michajlovna Kollontaj

    “Se scegliere di fare è un atto che ti libera, allora fallo, ma fallo con coscienza collettiva. Il tuo desiderio deve essere intrecciato con quello degli altri, perché solo nell’armonia tra il personale e il politico può emergere una vera emancipazione. Fallo, se ciò significa avanzare verso una società in cui la scelta è un diritto condiviso, non un privilegio.”

  • ChatGPT comico per un giorno: riesce a farci ridere? (no)

    ChatGPT comico per un giorno: riesce a farci ridere? (no)

    Fare ridere con un’intelligenza artificiale generativa è difficile per vari motivi, molti dei quali sono legati alla teoria del riso di Henri Bergson, filosofo francese che, nel suo celebre saggio Il riso (1900), analizza le dinamiche che scatenano la risata. Secondo Bergson, il riso nasce dalla percezione di un comportamento umano che diventa meccanico o rigido in un contesto sociale, creando un contrasto tra l’automatismo e la naturale fluidità delle interazioni umane.

    Bergson suggerisce che il riso scaturisce quando una persona si comporta in modo che sembri un “automatismo”, come se il suo corpo o le sue azioni fossero pilotate da una macchina, senza il giusto adattamento alla situazione. Questo genere di umorismo dipende dalla capacità di cogliere l’imprevisto, il fuori luogo, il contrasto tra ciò che ci si aspetta e ciò che accade realmente. Questo deporrebbe in teoria a vantaggio dell’uso delle IA per creare battute comiche, ma alla prova dei fatti è facile rendersi conto – banalmente, usando ChatGPT – che le cose non stanno proprio così.

    Quando si cerca di fare ridere con un’intelligenza artificiale esistono infatti numerose difficoltà legate proprio ai meccanismi tipicamente umani di cui parlava l’autore:

    1. Mancanza di esperienza e contesto umano: Il riso spesso dipende dalle esperienze personali, dai riferimenti culturali e sociali condivisi, che un’IA non possiede. Un comico umano può attingere a una varietà di esperienze vissute, comprendendo appieno le dinamiche sociali e culturali che possono far scaturire una risata. Un’IA, invece, non vive esperienze e non ha un’intuizione diretta della realtà, ma solo dati e schemi linguistici da analizzare. La battuta comica di Bergson, che si basa sul “fuori luogo” o sull’errore in un comportamento, diventa difficile per un’IA, che non sa cogliere il contesto e le sfumature che rendono qualcosa inappropriato o sorprendente.
    2. Automatismo vs. creatività: l’umorismo implica spesso una rottura dell’automatismo, una sorta di imprevedibilità che scuote la nostra percezione. Le IA, però, lavorano proprio sulla base di schemi ripetitivi e calcoli algoritmici. Sebbene possano generare battute, queste risultano spesso “meccaniche” o prive di quella freschezza e improvvisazione che rendono il comico umano così efficace.
    3. Mancanza di comunicazione non verbale: Bergson mette in evidenza che una discreta parte del riso è alimentata da aspetti non verbali della comunicazione: i gesti, le espressioni facciali e il linguaggio del corpo. Questi elementi sono impossibili da riprodurre per un’intelligenza artificiale che funziona esclusivamente con il testo.
    4. Difficoltà nell’ironia e nelle contraddizioni:  l’ironia nasce dalla capacità di cogliere la distanza tra ciò che una persona dice e ciò che realmente intende. Le IA, non essendo dotate di una comprensione emotiva o culturale profonda, non sono in grado di afferrare l’arguzia o l’ambiguità con la stessa sottigliezza di un comico umano.

    Sebbene le intelligenze artificiali siano in grado di generare battute e risposte comiche, è difficile che riescano a suscitare una risata autentica come farebbe un comico. Questo perché il riso, secondo Bergson, dipende da un’interazione complessa tra la realtà e il suo contrasto, un contrasto che emerge dalla nostra capacità di percepire la vita come un flusso imprevedibile e sorprendente. L’intelligenza artificiale, pur eccellendo nell’analisi dei dati e nella produzione di contenuti, manca dell’esperienza umana, della capacità di improvvisare e del senso del contesto che sono alla base della comicità più profonda e spontanea.

    Ci abbiamo provato qui, e queste sono le prime battute che sono “venute in mente” a ChatGPT il 24 dicembre 2024.

    “Perché il computer non va mai in vacanza? Perché ha paura dei virus!”

    “Perché gli astronauti portano sempre una matita nello spazio? Per scrivere nelle stelle!”

    “Perché il pomodoro non riesce mai a prendere un treno? Perché perde sempre il sugo!”

    Invitando ChatGPT a fare qualcosa di più mirato esce fuori qualcosa di migliore, anche se si evidenzia fin da subito come sia meglio farne uso come strumento assistivo e non automatico al 100%:

    “Ho chiesto a ChatGPT di scrivere una barzelletta… mi ha risposto: ‘Errore 404, senso dell’umorismo non trovato!’”

    e funziona discretamente anche se modelliamo sullo stesso esempio altre battute (o presunte tali):

    “Ci ho provato con una, mi ha detto di no. Risultato: errore 403, accesso al cuore negato!”

    “Ci ho provato con una, mi ha detto di no. Errore 503: servizio amore non disponibile!”

    Ho invitato a questo punto il chatbot a ispirarsi a Billy Hicks, e a cambiare argomento: ha tirato fuori

    “Cercavo la felicità su Google… ma mi ha reindirizzato su Amazon con uno sconto del 10%!”

    A questo punto ho fatto generare un po’ di battute a raffica, ed ho selezionato quelle che reputavo migliori. Quelle vagamente divertenti potrebbero essere:

    “Ho cercato la pace interiore… ma l’unica cosa che ho trovato è stato un Wi-Fi gratuito.”

    “La gente parla sempre di ‘essere te stesso’, ma se fossi davvero me stesso, starei sul divano a mangiare patatine e insultare il mondo intero.”

    “La gente mi dice di ‘guardare il lato positivo’. Io guardo il lato positivo e vedo solo una fila di cose che non voglio fare.”

    “Mi hanno detto che la verità ti rende libero, ma poi ho scoperto che la verità è solo un’altra scusa per non dire quello che davvero pensi.”

    “L’unico posto dove mi sento in pace è quando chiudo gli occhi e immagino che il mondo sia stato cancellato da un bug di sistema.”

    “C’è sempre qualcuno che ti dice che ‘la felicità è una scelta’. A me sembra più una di quelle cose che ti vendono nei negozi di alimentari quando non hai più voglia di cucinare.”

    Quelle con meno senso o più fiacche, comunque, rimangono la maggioranza:

    “Voglio credere nel karma, ma sinceramente, se mi devo fare un’idea del karma, sembra più un disastro organizzato.”

    “Sono andato in palestra per un mese… e l’unica cosa che ho sollevato è stato il morale dei miei amici.”

    “Mi hanno detto che l’amore è cieco, ma forse è solo mio il problema, perché non vedo un futuro con quella persona!”

    “Mi hanno detto che l’intelligenza artificiale sta cambiando il mondo… Ma io ancora non so come far partire la stampante.”

    “La mia dieta è come una relazione: comincia bene, poi finisce sempre con il dolce.”

    “Ho deciso di essere positivo… e ho iniziato a ignorare le bollette.”

    “Mi hanno detto che l’importante è non arrendersi, ma non mi hanno spiegato che fine fanno i sogni quando finisce la batteria del telefono.”

    “I social sono come le feste: all’inizio sembra divertente, poi ti rendi conto che nessuno ha voglia di parlare davvero.”

    “Cercavo una soluzione ai miei problemi… ma poi ho trovato un’app che mi dice quando devo bere acqua. Problema risolto!”

    “Sono andato in un ristorante vegano… Ho scoperto che la vera ‘carne’ era il conto.”

    “Non capisco perché si parlino di diritti umani, quando nessuno ti dà nemmeno il diritto di non rispondere a una chiamata con l’ID sconosciuto.”

    “La religione è come un abito elegante: lo metti per impressionare, ma alla fine ti fa sentire scomodo e fuori posto.”

    “Tutti vogliono essere felici, ma nessuno ha mai chiesto a me se sono pronto per farlo. Ho un sacco di cose da fare, tipo non capire cosa sta succedendo nel mondo.”

    “Mi hanno detto di ‘vivere nel presente’, ma sono ancora bloccato a guardare il passato mentre il futuro mi sta urlando dalla finestra.”

    “La politica? È come un gioco di società: tutti si stanno mettendo in fila per vincere, ma nessuno sa davvero le regole e, alla fine, chi vince perde comunque.”

    “Ho chiesto al mio terapeuta come affrontare le mie paure. Mi ha risposto: ‘Non preoccuparti, è il tuo lavoro farle entrare nella stanza.’”

    “Il problema della vita? Stai cercando sempre di sistemare le cose, ma le cose, mio caro amico, non sono fatte per essere sistemate.”

    “Ci sono quelli che dicono ‘tutto succede per una ragione’, ma io non credo che la mia faccia sia stata progettata per essere vista da qualcuno.”

    “La gente è ossessionata dal ‘cercare il senso della vita’. Io sono più preoccupato di non trovare il mio portafoglio quando ne ho davvero bisogno.”

    Le difficoltà nell’ottenere risate genuine da un’intelligenza artificiale generativa si radicano nelle teorie psicologiche e filosofiche sul riso, a partire da Henri Bergson. La sua riflessione sul riso come reazione all’automatismo e alla rigidità dei comportamenti umani ci offre un quadro utile per comprendere perché l’IA fatica a emulare la comicità autentica. Bergson suggerisce che la risata nasce da una sorta di meccanismo che interrompe la fluidità naturale del comportamento, creando una dissonanza che il pubblico riconosce come comica. Tuttavia, l’IA, pur basandosi su algoritmi avanzati, non ha accesso a quella “fluidità” esperienziale che è essenziale per cogliere e generare quella rottura del naturale che provoca il riso. La sua risata è infatti più sterile, derivante dall’elaborazione logica e schematica dei dati piuttosto che da un’autentica comprensione del contesto sociale, emotivo e culturale.

    Le IA possono riconoscere e replicare schemi linguistici comici, ma non sembrano riuscire a “sentire” e a interpretare le sottili sfumature del linguaggio che vanno oltre le parole, come il sarcasmo o l’ironia. Studi più recenti, come quelli di Robin Dunbar sulla connessione sociale attraverso l’umorismo, suggeriscono che la risata ha anche una funzione sociale fondamentale, promuovendo il legame tra gli individui. Dunbar sottolinea che il riso è un’azione umana profonda, legata alla condivisione e alla comunicazione non verbale, e che una “battuta” diventa veramente comica quando è situata in un contesto condiviso. Le risate collettive, osservate in contesti di gruppo, creano connessioni tra le persone, un aspetto che l’IA non è in grado di replicare (e che probabilmente mai riuscirà ad emulare). Studi più specifici sul machine learning e sull’IA emotiva, come quelli condotti da Rosalind Picard del MIT, evidenziano che – sebbene le AI possano riconoscere alcune emozioni nei testi o nelle espressioni facciali – la loro capacità di generare umorismo autentico rimane limitata proprio perché non hanno una comprensione profonda di ciò che rende divertente un comportamento, un atteggiamento o una situazione.