Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Terrifier è un vero incubo

    Terrifier è un vero incubo

    Terrifier di Damien Leone vorrebbe richiamarsi alla gloriosa tradizione horror slasher anni Ottanta e Novanta, la stessa che annovera Halloween, Venerdì 13 e via dicendo. Un genere che non da’ molto respiro narrativo e che difficilmente si discosta dal canone (amicizie, amori, sessualità, villain che irrompe a simboleggiare i sensi di colpa di chiunque); un genere che imporrebbe, quasi ontologicamente, una qualche variazione sul tema, perchè proporre le cose come al solito lo farebbe decadere nella stereotipìa. Del resto non sarebbe cinema di genere se non proponesse situazioni già viste e riviste, cosa che questo primo episodio del regista classe 1982 Damien Leone (il primo di una saga che conta tre episodi, l’ultimo dei quali – Terrifier 3 – è uscito nel 2024) fa in maniera a suo modo encomiabile, per quanto il lavoro soffra di un’approssimazione ineludibile sulla trama.

    Terrifier inizia su un canale sintonizzato che intervista una ragazza in un canonico salotto TV, in cui scopriremo che la stessa è stata orrendamente sfigurata ed è sopravvissuta ad un serial killer. Neanche il tempo di familiarizzare col mood che vediamo subito l’assassino in azione, che sembra avvenire in una città qualsiasi, forse nel giorno di Halloween, in un quartiere di cui non sappiamo nulla e per cui intuiamo essere negli Statu Uniti.

    Se è vero che la trama articolata di uno slasher è un qualcosa che per i fan conta poco o nulla, non può a una critica poco più che grossolana perchè, di fatto, è proprio la narrazione di Terrifier a non funzionare. Al netto delle efferatezze mostrare, della fantasia nel proporle e della mancanza di scrupoli nel far vedere tutto da vicino allo spettatore, le cose accadono perchè è necessario che avvenga. Detta diversamente manca il contesto, manca lo scenario, per quanto non si lesini sul senso di colpa e sul non detto (come già in altri epigoni slasher, il clown che uccide simboleggia il senso di colpa delle vittime, ma anche l’oscurità d’animo di chi cova odio e violenza per motivi che la società non conosce, non può o non riesce a vedere). Non si tratta del resto di un horror sociologico perchè manca totalmente l’aspetto dialogico e narrativo, e gran parte dei personaggi risultano più che altro irritanti nelle proprie certezze. Impossibile non notare, ovviamente, le assonanze tra questo Art The Clown e Pennywise di IT, che colpiva solo i bambini e che almeno era arricchito dalla prosa ineguagliabile di King, qui del tutto assente – al punto che viene il sospetto che i clown killer abbiano un po’ stancato.

    Art the Clown, l’assassino protagonista uccide senza ritualistica e senza suggestione, spesso sfigurando le vittime, e viene presentato come assodato, pronto all’uso, pre-marketizzato: è il killer nascosto che tutti abbiamo già visto, cugino dei reali serial killer della storia, nipote di Freddy Krueger (dato che predilige vittime giovani), discendente di qualsiasi assassino misogino sia stato inventato dal cinema.

    I dialoghi di questo primo Terrifier sono banalotti, poco incisivi, scarsamente coinvolgenti, al netto di ciò che viene mostrato a livello di gore: ci sono sangue, assassinii che evocano grotteschi rituali, amputazioni e decapitazioni come tradizione splatter impone, per il resto poco altro. La trama appare telefonata, piatta, prevedibile, del tutto priva di una qualche introspezione, al punto di rappresentare personaggi monocordi, ossessionati dall’aspetto sessuale e in cui i personaggi femminili sono quasi esclusivamente frivoli, impeccabili e per forza sensuali. Il sottotesto ipotizzato da Carol J. Clover a inizio anni Novanta non è cambiato: questi film mantengono, forse non sempre volontariamente, una potenzile chiave di lettura femminista, che si esplica nella vittimizzazione dogmatica della donna, nella rappresentazione del villain che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo, senza una ragione che non sia ricondubile ad un universo lovecraftiano, irrazionale, o – se vogliamo leggerla con le lenti critiche di oggi – intriso di cultura maschilista, profondo legame nei confronti dei ruoli e quant’altro. Art the Clown avrebbe potuto essere il patriarca grottesco che uccide senza motivo e senza dover rendere conto di ciò che fa, ma Terrifier resta un prodotto per niente politico e poco avvezzo a letture del genere.

    Comunque stiano le cose – e sarà la sensibilità del pubblico a deciderlo – Terrifier è un onesto tentativo di rendere la realtà che viviamo più splatter e orribile di quanto non sia, e rimane lontano dallo status di cult e memorabilità che ha reso celebri i film di cui sopra. Al punto che si guarda a fatica, ci si distrae facilmente – al netto delle espressioni grottesche di Art the Clown, il cui interprete (David Howard Thornton) ha studiato mimo e da’ quasi la sensazione di potersi materializzare alle spalle dello spettatore, e rimane l’unico vero motivo per guardare il film almeno una volta nella vita.

    Cosa per cui l’horrorofilo navigato riporrà ogni speranza di vedere una svolta, un qualcosa che non si limiti a brutalizzare corpi, a mostrare sangue, a inventarsi l’ennesimo sadismo ostentato che, di suo, lascia poco o nulla. Paradossalmente i tre cortometraggi a cui si ispira il film – contenuti in All Hallows Eyes – riuscivano a rendere meglio l’idea, soprattutto per il taglio da mockumentary che li rendeva accattivanti, senza contare per quel tocco autoironico che caratterizzava il clown, in misura leggermente superiore a quanto avvenga in Terrifier.

    Un film che strizza l’occhio ai blockbuster dell’orrore, riuscendo solo in parte nell’impresa, a nostro avviso, e limitandosi a costruire una valanga di riferimenti al mondo dell’Altro che, alla lunga, rendono il film vuotamente enciclopedico, al netto del buon Art the Clown: un villain come se ne sono visti tanti, che probabilmente occuperà il proprio posto infernale nella storia del genere, che magari tra qualche anno sarà riesumato e riscoperto, ma che appare qui troppo ovattato e prevedibile per potersi ricordare.

  • Inglorious Basterds: il revenge movie di Tarantino in chiave anti-nazista

    Inglorious Basterds: il revenge movie di Tarantino in chiave anti-nazista

    L’ennesima opera di Quentino Tarantino dovrebbe essere vista da un pubblico che sa bene cosa aspettarsi da lui. Notare che la storpiatura della “e” di “bastErds” serve a distinguere il film dall’omonima opera di Castellari (con cui non c’entra assolutamente nulla, nonostante se ne sia parlato parecchio).

    In breve: Tarantino sempre in gran forma, e con la propensione alle opere costruite sui multi-episodi. Uno dei migliori film di genere che ha girato di recente, senza troppi dubbi.

    I soliti detrattori un po’ chic diranno che il film non ha attendibilità storiografica, che Hitler non finì certo come descritto dal film, che la ribellione anti-nazista è stata “gonfiata” col senno di poi, e che le figure dei “Bastards” sono fumettistiche ed irreali. Ebbene, per una volta possiamo scrivere “chi se ne frega“: questo è Cinema, se non vi piace, tornate pure a qualche tisana intellettualoide coi trentenni in crisi adolescenziale – chiusa parentesi.

    Vediamola ancora meglio: i “Bastards” sono i protagonisti incattiviti dal dolore, proprio come la bella Thurman in Kill Bill, o come le ragazze sadiche di Grindhouse, che deliziano i palati più esigenti proponendo un catalogo infinito di sevizie e crudeltà. A dirla tutta, un catalogo leggermente inferiore alla media cui ci ha abituato il regista. In questo film, nonostante tutto, il dialogo domina sull’azione, che invece viene dosata con una pacatezza che ha avuto per me dell’incredibile. Molti equivoci dell’intreccio nascono da una pronuncia errata delle parole da parte dei protagonisti, ed infatti molte parti non sono state affatto doppiate per mantenere questo effetto (a proposito, Brad Pitt che parla in siciliano “cazzu-mminchia-baciamo-le-mani” è da sentire ovviamente in originale!). Una finezza, questa, che farà la gioia di chi aspetta più di qualcosa da quest’opera. Ma non bisogna neanche preoccuparsene troppo, in fondo, dato che questo film non incentra il discorso su questo, offrendo una storia molto bella ed avvincente fregandosene della credibilità storica regalandoci un azzardo di quelli che non si vedevano da tempo. Una sorta di licenza poetica da vero “terrorista dei generi”, come sarebbe piaciuto al grande Lucio Fulci.

    Le descrizioni accuratissime ed estremamente crudeli di ogni personaggio. I fumetti (che sbucano fuori sullo schermo) per indicare o descrivere i protagonisti. Il caratterista di turno che impersona il male in toto (un immenso Cristoph Waltz nella parte del sadico SS Hans Land). Le bellezze femminili (soprattutto quella di classe dell’incazzatissima Mèlanie Laurent) sono dosate con criterio, e sono sempre funzionali alla storia, oltre ad essere obiettivamente dei bei personaggi.

    Non poteva mancare, in finale, il riferimento al feticismo plantare che ormai è un marcio-marchio di fabbrica tarantiniano. In effetti questo  – nel senso migliore del termine – incarna il cinema dove conta molto il linguaggio (la forma) a discapito della sostanza (il contenuto): eppure quelle incisioni nella carne viva della svastica su ogni nazista lasciato vivo, sembrano esprimere qualcosa di troppo. Il che, intendiamoci, non guasta affatto.

    È per voi, maledetti guardoni della Fenech, adoratori di Banfi, voi che avete le videocassette originali di Deodato e Fulci, che ancora conservate il poster della Cassini, di un film di Margheriti, che osannate Vitali “col fischio o senza“. E come dimenticare la Rizzoli, la Bouquet, la Guida, il primo Abatantuono. E su, non fate finta di non conoscerli o di non sapere che Quentin ha preso parecchio da loro: se non li conoscete, siete solo chiacchiere e distintivo hipster.

  • Paranoia: il thriller di Umberto Lenzi che convince solo in parte

    Paranoia: il thriller di Umberto Lenzi che convince solo in parte

    Thriller intricatissimo con parvenza di romanzetto di serie B, troppo poco brutale per essere definito pulp. Ma Lenzi ci ha talmente abituato a film di qualità che, in fondo, questa opera sembra decisamente godibile se affrontata senza eccessive pretese. A dispetto di quanto suggerisce il titolo non si tratta di un thriller giocato su perverse allucinazioni o su paranoie che nascondono un torbido passato: Paranoia racconta un po’ confusamente la noia borghese di un gruppo di persone propense all’ambiguità reciproca, e che agisce in un gioco di gelosie e sospetti globalmente poco convincenti. Il risultato finale, pur trascorrendo vari momenti di elevata intensità (le scene con l’auto in corsa a folle velocità sono tra queste, senza dubbio), difficilmente riesce a coinvolgere più di tanto, oggi. Tuttavia rimane costante e solida la regia del celebre regista italiano, che non si fa scappare questo ennesimo spunto per giocare con l’exploitation, con una punta di voyerismo e poco altro.

    Caroll Baker – attrice di culto per  il Lenzi di quel periodo, con la quale girerà anche Orgasmo e “Così dolce… così perversa” – regala qui una discreta interpretazione, impersonando la giovane Helen che si trova al centro di una sorta di macchinazione ordita allo scopo di ottenere un’eredità. Prevedibilmente, dopo mille giri e raggiri, le conseguenze finiranno per ritorcersi inevitabilmente contro i principali artefici, confezionando così una discreta opera ricca di allusioni sexy-morbose ma abbastanza lontane, se vogliamo, dai fasti a cui ci abituerà Lenzi nel corso degli anni. Da vedere per curiosità, ma senza eccessive aspettative.

  • Gatti rossi in un labirinto di vetro: il giallo lenziano sulla scia di Argento

    Gatti rossi in un labirinto di vetro: il giallo lenziano sulla scia di Argento

    Un gruppo di turisti in visita a Barcellona si trova coinvolto in una serie di omicidi da parte di un misterioso killer, che sembra averli presi di mira. Ad occuparsi del caso un commissario prossimo alla pensione, che riconosce lo stesso modus operandi: come “firma” di riconoscimento, infatto, l’assassino usa strappare un occhio alla vittima. I sospetti sono indirizzati, come nella tradizione giallistica classica, su qualcuno degli stessi turisti o sulla guida turistica stessa, ma senza che si riesca a focalizzare la situazione.

    Ultimo giallo di Lenzi, argentiano a cominciare dagli animali presenti nel titolo, ultimo di una quadrilogia thriller preceduta da Sette orchidee macchiate di rosso, Il coltello di ghiaccio e Spasmo – il tutto, poco prima della sua azzeccatissima svolta verso il poliziesco all’italiana.

    Nel frattempo si continuano a mietere vittime, tra colpevoli apparenti ed ambiguità varie ed eventuali: sullo sfondo una storia clandestina tra una segretaria (Paulette, interpretata da Martine Brochard) ed il responsabile di una grande azienda (Mark Burton, John Richardson), sul quale si concentrato indagini e sospetti. Come nella tradizione argentiana, alla fine, sarà un dettaglio a fare scoprire il mistero e a spiegare (tra l’altro) il vetro del titolo.

    “I loro occhi… non potevo sopportare i loro occhi”

    Tra le note curiose, circola una versione italiana che sembra essere stata depurata non delle parti efferate dei delitti quanto, ad esempio, nel momento in cui si evidenzia il rapporto lesbico tra il personaggio di Naiba ed un’altra donna, scena che, di fatto, non risulta essere doppiata. Le musiche incalzano perfettamente l’atmosfera di tensione che pervade il film dopo i primi spensierati minuti, e sono opera del grande Bruno Nicolai.

    Probabilmente uno dei migliori gialli di Lenzi, quantomeno uno di quelli che ho preferito come ritmo e suspance.

  • Cannibal Ferox: durissimo e insostenibile ancora oggi

    Cannibal Ferox: durissimo e insostenibile ancora oggi

    Per consolidare una tesi sul cannibalismo visto come “mito” imposto dall’uomo bianco, un’antropologa si reca in Amazzonia presso un’autentica tribù.

    In breve: film non per tutti, certe scene possono turbare i più sensibili. Il messaggio di fondo rimane sostanziale, ma il linguaggio utilizzato è decisamente crudo ed esplicito.

    L’intreccio è sostanzialmente composto da due storie, entrambe costituite da bianchi in cerca, dentro la regione amazzonica, quando di smeraldi (uno spacciatore) quando di gloria (la laureanda). Il primo è un cinico calcolatore, che assieme ad un amico si trova sul posto per recuperare quattrini dopo aver fregato una banda di spacciatori di New York. Giunto sul posto entra in contatto con un indio che sembra sapere dove si nascondono le pietre preziose: sotto l’effetto della cocaina, si auto-convince che lo stiano prendendo in giro, e massacra il suo intermediario senza pietà. Nel frattempo entra in contatto con il gruppo di ricercatori, con cui tenterà una disperata fuga da quella regione: il contatto coi selvaggi avrà ovviamente sapore di feroce vendetta, che non guarderà in faccia niente e nessuno.

    Il cannibalismo non esiste, è un semplice mito perpetuato dall’uomo bianco e dominatore, utilizzato come paravento per lo sfruttamento del selvaggio e combattere uno stereotipo suggestivo di cannibal ferox“.

    Questa, in sintesi, la tesi portata avanti dall’antropologa protagonista (Gloria Davis, interpretata dalla Lorraine De Selle già vista in “Quella villa in fondo al parco“), che si fa accompagnare dal fratello e da un’amica (Zora Kerowa) all’interno di una tribù amazzonica di selvaggi, al fine di procurarsi prove documentali di quello che sostiene. Inutile sottolineare che troverà testimonianze in verso esattamente contrario.

    Un film detestato e messo al bando da molti per via delle ultra-realistiche violenze contro gli animali: Lenzi, per dare l’idea della legge della giungla, mostra belve che si mangiano tra di loro oltre ad una testuggine ed un coccodrillo smembrati dai selvaggi. Se si trattava di trucchi, furono fin troppo realistici: se invece furono reali, come molti diedero per scontato, teoricamente dovrebbe trattarsi di testimonianze documentaristiche di ciò che quei popoli comunque usano effettuare lontano dalle telecamere.

    Al di là di qualsiasi congettura sulla veridicità o sul mito di determinate scene para-snuff, comunque, Cannibal Ferox – oltre a fare denuncia sociale dell’ipocrisia dell’uomo bianco (forse un po’ scontata, ad oggi), non sarebbe null’altro che un documento storico certamente molto controverso e discutibile, ma quantomeno reale (ovviamente solo per quanto riguarda la barbara esecuzione degli animali che viene mostrata). Sta di fatto che il film è entrato nel guinness dei primati (!) per essere stato bandito in ben 32 paesi del mondo, ma – paradossalmente – adesso gira una versione uncut a prezzo non certo economico, per cui rimane il fatto che un minimo di interessamento verso questi prodotti, che sia esso ottimisticamente documentaristico o più realisticamente morboso, è rimasto sempre costante.

    Forse, a tale riguardo, aveva ragione Joe D’Amato quando affermava che la violenza dei suoi film era semplicemente ciò che gli veniva richiesto dal pubblico.

    Lenzi confeziona un cannibalmovie estremo, molto violento e realistico, ricco di splatter ed in cui la trama può essere vista come una sorta di pretesto per confezionare sociologia (un po’ spicciola, secondo alcuni, oltre che visivamente molto esplicita). In effetti farei brutalmente questo tipo di discorso se non fosse per l’incredibile (e molto efficace) finale, nel quale l’unica sopravvissuta seppellisce tutte le crudeltà che ha visto, discute ugualmente la propria tesi di laurea sul “mito” del cannibalismo e fa assestare uno sonoro schiaffo poco politically-correct al mondo accademico, dipingendolo come eccessivamente miope rispetto alla realtà. Ovviamente si tratta di un parossismo che potremmo estendere all’umanità tutta, con tutte le conseguenze del caso.

    Si possono dunque obiettare una molteplicità di argomenti, ma – ammesso che l’argomento sia il “buon gusto” o l’opportunità di “travestire” uno snuff da film – resta il fatto che Cannibal Ferox è un film violentissimo, stomachevole, discretamente recitato e con una buona  trama, di quelle che non lasciano speranza ed evidenziano ripetutamente la crudeltà umana. Quest’ultimo viene dipinto da Lenzi come un valore assoluto, non relativo, che accomuna affaristi  senza scrupoli occidentali a selvaggi che sfregano pietre per ottenere il fuoco. Tra le scene più raccapriccianti del film: i terrificanti ganci nel seno di Zora Kerova, ma soprattutto l’evirazione (in primo piano!) e decapitazione dello spacciatore, scene che rendono “Cannibal Ferox” un prodotto non per tutti e che metterà alla prova più di uno stomaco.