Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Seguito di Hostel molto efficace sempre dello stesso regista, offre nuove suggestive e violentissime visioni, oltre a qualche sprazzo di caratterizzazione dei personaggi ed il sano revival da revengemovie anni 70-80.

    Il film si apre con un misterioso individuo che brucia all’interno di un forno documenti, fotografie, vestiti ed oggetti personali dei ragazzi massacrati – evidentemente – nel primo episodio: tiene per sè stesso soltanto il denaro. Nel frattempo i titoli di testa annunciano che si tratta di un film di Eli Roth, con la partecipazione tra gli altri di due volti ben noti del cinema italiano: Luc Merenda ed Edwige Fenech.

    Ci parli un po’ di questo posto in Slovacchia

    E’ un vecchio fabbricato… in cui delle persone molto ricche pagano per uccidere dei ragazzi

    Paxton – sopravvissuto al precedente episodio – sente su di sè una comprensibile apprensione che lo porta ad avere incubi tremendi: nel primo di questi, splendidamente disegnato dal regista, viene interrogato da un inquietante ambasciatore slovacco che prima insinua il suo coinvolgimento nell’omicidio del suo precedente aguzzino, e poi lo pugnala senza pietà. Neanche il tempo di capacitarsi della terribile visione notturna che finisce decapitato dalla Confraternita, al cui capo (Sasha) viene consegnata la testa del ragazzo all’interno di una scatola.

    Seppur mantenendo dinamiche da classico b-movie – le studentesse a caccia di avventure, lo stereotipo di nerd al femminile, il presunto maniaco che esce fuori immancabile dopo qualche minuto, i bravi ragazzi che non sono tali – sviluppa in modo molto originale il tema, inserendo spunti abbastanza imprevedibili. Eli Roth è, da buon seguace di Tarantino, affetto da una inguaribile mania citazionista: tanto per citare le prime tre, inserisce la Fenech – protagonista di gialli ed erotici italiani a cui il film si ispira – nei panni della rassicurante insegnante di belle arti; successivamente delinea il clima di paranoia claustrofobica all’interno del treno (citazione quasi letterale da “L’ultimo treno della notte di Aldo Lado“), e come se non bastasse mostra due avvenenti fanciulle che guardano Pulp Fiction dentro l’ostello. Come sempre, come non mai, l’oggetto dell’orrore è la crudeltà e l’avidità umana: siamo noi, nel nostro lato peggiore e più morboso.

    “Che cosa farai lì dentro?”

    “Non vorresti saperlo”

    Non dimentichiamo che si tratta di un sequel, ad ogni modo: la tensione impalpabile del primo episodio è in parte smarrita, visto che il pubblico sa già dove si andrà a parare anche se, a conti fatti, è una buona scusa per ricalcare ed approfondire con una certa verve sarcastica quello che è il messaggio del film. I ragazzi dell’ostello sono venduti letteralmente all’asta, mentre i ricchi di tutto il mondo giocano al rialzo (chi col palmare, chi con il PC, chi con un cellulare) mediante una sorta di mercato online della morte che potrebbe ricollegarsi alla presunta dinamica degli snuff-movie.

    La Confraternita prevede che i ricchi killer vengano tatuati: ma “un tatuaggio non è facile da spiegare” afferma candidamente il padre di famiglia Stuart (apoteosi di humor nero: evidentemente pagare per uccidere qualcuno è più semplice!). Del resto, come avrebbe giustificato l’orrido disegno sulla pelle agli occhi della moglie che, a suo dire, “non ha una mente molto elastica“?

    Il personaggio contraddittorio di Stuart, peraltro, è quello che da’ una certa svolta ad “Hostel 2” rispetto al suo predecessore: c’è tempo per accorgersi che l’uomo sta visibilmente male, che non sa affrontare i propri problemi e che sembra praticamente un perfetto incapace, impedito anche nel torturare la povera Beth. Il pubblico non fa in tempo a tentare di identificarsi in lui che, all’improvviso, rivela la propria anima nera come la pece: esattamente il contrario accade con il suo amico Todd, odioso ed arrogante fin dall’inizio, ma tutto il male fisico che riuscirà ad infliggere sarà dato praticamente per caso, fino alla sua morte.

    (Beth rivolta ad Axelle) “Allora tu e Sasha state…”

    “Oh no, santo cielo, potrebbe essere mio padre!”

    Nulla è casuale in questo film, tutto è sadicamente e millimetricamente misurato: come la suggestiva scena della novella contessa Bathory – che uccide a colpi di falce e fa sanguinarsi addosso, stando completamente nuda, la povera Lorna. Oppure l’immancabile baby-gang  castigata ferocemente da Sasha con un colpo in testa per aver osato tentare di aggredire una delle preziose ragazze, pagate ognuna decina di migliaia di euro. Del resto il clou del film sta proprio nel modo in cui Beth si trova a salvarsi: dopo aver sedotto il proprio aggressore, esalta la tradizione del revenge-movie, prima trafiggendo un orecchio del suo carnefice e poi, neanche a dirlo, castrandolo con una cesoia. Guarda caso anche qui la donna bella e aggressiva è un ulteriore stereotipo preso in prestito da Quentin Tarantino, ma saranno esclusivamente le sue doti monetarie ad avere la meglio e a concederle di non violare comunque il contratto: il gioco prevede comunque la morte, per cui Stuart – con il quale sembrava quasi avere feeling, all’inizio – dovrà semplicemente morire dissanguato. Nessuna speranza e solo morte che ritorna, dunque, con la macabra decapitazione finale di Axelle da parte di Beth, e la cui testa diventerà un vero e proprio pallone da calcio per la baby-gang (collegamento, forse inconscio, con i tifosi che infastidivano le ragazze in treno all’inizio).

    A mio avviso se non fosse per la poco incisiva “storia” tra la saggia e cinica Beth ed il frustrato Stuart, staremmo davvero a parlare di un incredibile capolavoro di Roth, che comunque merita di essere visto ed è, senza dubbio, per pubblico dallo stomaco d’acciaio.

  • Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Beverly e Elliot Mantle (Jeremy Irons) sono due gemelli che condividono, oltre ad un’insana passione per la chirurgia, letteralmente tutti gli aspetti della propria vita, compresi quelli legati al sesso; il film racconta il processo di distacco da parte di uno dei due e la rovina che travolgerà entrambi…

    In due parole. Cronenberg mette in cascina l’horror puro per concentrarsi sugli aspetti più oscuri della personalità, in particolare sul senso di solitudine (mostrato come meccanismo fondamentalmente auto-indotto) e sulla dipendenza interpersonale che sfocia, come da copione, in tragedia. Il tutto con la freddezza e la determinazione di un chirurgo di fronte ad un tavolo operatorio.

    “Il dolore provoca distorsione del carattere… semplicemente, non è necessario”

    Ispirandosi alla storia vera dei gemelli Marcus (1975), David Cronenberg sviluppa il tema del doppio innestando nell’intreccio svariati dettagli medico-ginecologici. Essi simboleggiano, con più forza rispetto al passato, le mutazioni della personalità degli individui, e fanno assumere all’interiorità delle persone una valenza letteralmente organica. La ricerca del grande regista canadese prosegue così nelle consuete direzioni, ed il romanzo “Gemelli” di Wood e Geasland offre un’opportunità  ulteriore per approfondire le più amate tematiche: la mutazione della carne che si riflette sulla personalità, il desiderio e la paura della maternità oltre, ovviamente, all’incubo della separazione di ciò che ha vissuto sempre in simbiosi. Nonostante la storia dei due protagonisti – un Jeremy Irons indimenticabile – proceda inizialmente di pari passo, uno dei due fratelli (quello “buono”, Beverly) svilupperà progressivamente una forma di schizofrenia che si ripercuoterà anche sull’altro.

    Questo distacco viene simboleggiato in modo eccellente dalla scena dell’incubo di Beverly, che vede Claire – la donna che hanno condiviso a sua insaputa – strappare il cordone ombelicale che li unisce con un morso (auto-citazione di Brood). Il film si incentra di fatto sulla definizione di tre personaggi: Beverly, fragile e sensibile, Elliot, cinico e calcolatore e Claire, donna “mutante” poichè dall’utero triforcuto (la quale diventerà presto causa della forte depressione del primo). L’unica debolezza di Elliot è proprio legata al destino del fratello, il quale si mostra talmente convinto e fedele alla propria scienza (La mosca) da idolatrare la tecnologia (Videodrome) e realizzare degli strumenti chirurgici ex-novo, che si possano adattare per l’appunto ai corpi di mutanti.

    Il tutto fino alla poetica, paurosa e romantica scena finale, nella quale il processo di simbiosi finalmente si materializza. Uno dei Cronenberg meno scontati, più lunghi e più complessi in assoluto, non tutto il pubblico riuscirà a seguire ogni dettaglio, ma ne vale davvero la pena.

  • Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Da sempre attento alle evoluzioni delle nuove tecnologie, agli effetti della macchina sull’uomo e sul suo comportamento sociale, in molti suoi film David Cronenberg ha analizzato (secondo i canoni dell’estetica cyber-punk, per quello che riguarda la prima produzione) il rapporto tra scienza e umanità.

    Un rapporto ancora oggi attualissimo, è destinato a modificare i nostri modelli di comportamento, sopprimendo ogni istinto primordiale a vantaggio di un’esistenza regolamentata da tempi di produzione, scadenziari elettronici, in definitiva: un copione prestabilito. Ed il punto cruciale sta proprio in questo: il regista si guarda bene dal demonizzare la tecnologia, piuttosto mostra di volerla conoscere a fondo, mentre l’incubo di un condizionamento totale nell’agire quotidiano aleggia su di lui. E, alla lunga, dal 1983 (anno di uscita del film) su di noi.

    Io penso che noi crediamo che la nostra vita sia fisicamente relativamente stabile, ma non lo è. Il nostro corpo è un uragano: muta costantemente, è solo un’illusione che si tratti dello stesso corpo da un momento all’altro. Per questo diventa ancora più urgente la questione dell’identità. (D. Cronenberg, intervista con Enrico Ghezzi, 1988)

    Se c’è una cosa che è vitale in Cronenberg, del resto, e che testimonia il suo non-essere tecnofobo, è l’atteggiamento è l’ossessione per il corpo umano. Sullo schermo, mentre il film va avanti, vediamo un orrore certamente schizofrenico ed allucinatorio, ma al tempo stesso tangibile, intrinseco nella carne umana. Un orrore che potrebbe stare a metà tra la della rivolta dei cadaveri di Romero e la fusione uomo-macchina di Tetsuo. Videodrome rappresenta probabilmente la massima espressione della poetica del regista canadese.

    La tecnologia, simbolo stereotipato del progresso e dell’evoluzione umana, arriva a fondersi nella pelle, diventa tutt’uno con l’intero uomo e le sue illusorie certezze di conoscenza assoluta. Il direttore della stazione televisiva Canale 83 (Max Renn, aka James Woods) è un uomo cinico e convinto di sapere dove sta andando. Le sue certezze, le sue convinzioni, il suo stesso scetticismo verso il tubo catodico (afferma più volte di non credere a ciò che vede sullo schermo) viene smontato dal peggiore degli incubi. In esso non esiste più umanità, non esiste alcun contatto fisico e corporale, esiste soltanto una realtà virtuale che ci lobotomizza e ci riduce a numeri per il grande schermo.

    Quello spettacolo di morte, quello “snuff” realizzato con pochissimi mezzi, quella rappresentazione pura di violenza non è altro che una metafora della sua stessa vita. Pessimisticamente, della vita di un numero crescente di noi. La stessa sessualità, prima vissuta da Max con gelida indifferenza, diventa uno strumento di dipendenza e di morte progressiva, scandita dall’illuminazione di un tubo catodico.

    Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion)

    Il professor O’ Blivion (nomen omen dichiaratamente riferito alla condizione di essere completamente dimenticato, ovvero spersonalizzato) dichiara apertamente, a circa metà del film, il manifesto di Videodrome: il potere di controllo delle menti si esplica nel momento in cui la televisione impone la propria realtà. Se il tubo catodico mostra violenza, non fa che pubblicizzare un lato oscuro dell’animo umano, ovvero quello puramente distruttivo represso da un’apparente civilizzazione. Per cui non è colpa della televisione se viviamo nella violenza: semmai è un mezzo che mostra e ci ricorda le nostre ossessioni primordiali. Con risultati spesso devastanti.

    Ultimo punto fondamentale è il disorientamento in cui vive il protagonista dopo la prima visione dello snuff-movie: la portata delle immagini è talmente pesante che invece di esserne turbato e cercare qualcosa di edulcorato, si abbandona a fantasie erotiche sado-masochistiche, immagina di fare sesso nella stanza delle torture appena vista, ivi sogna di somministrare dolore fisico alla propria compagna. Più semplicemente, non riesce più a distinguere il sogno dalla realtà, il pensiero dall’azione. E poi, di quale realtà si parla se non quella percepita dai sensi? Quella realtà tremendamente soggettiva che egli riconosce fin troppo bene, ma che (tragicamente) non sempre gli altri sembrano disposti a comprendere. Da qui nasce un paradosso che vede da una parte l’alienazione totale dell’individuo, che vive isolato e, per riprendere un’immagine cara ad una certa sci-fi, con dei televisori al posto della testa.

    Nell’epoca del Grande Fratello, scimmiottato periodicamente in terrificanti programmi televisivi in cui “persino” dei personaggi di spettacolo mostrano la propria corporeità, la poetica di Cronenberg suona ancora attuale. La stessa idea di socialità, di sessualità, il modello comportamente imposto alla massa è oggi scandito dalla televisione e dalle mostruosità che rivela giorno dopo giorno. E si tratta di uno spettacolo che dovrebbe essere vicino alla vita di tutti noi, in cui ognuno di noi dovrebbe (secondo la volontà dei produttori) riconoscersi. Un modello di omologazione culturale che distrugge mentalmente ogni individuo e soffoca la sua stessa sessualità in agglomerati illusori di pixel.

    Avviso: da qui in poi contiene parti rivelatrici (o spoiler) del film.

    Cronenberg è stato ospite al Festival di Roma (ottobre 2008), dichiarando:

    noi esseri umani siamo solo animali che si immaginano e hanno il desiderio di diventare diversi da quello che sono. Per far sì che ciò si realizzi ricorriamo alla religione, alla cultura. Mi interessa moltissimo questa forma di trascendenza, questo desiderio dell’essere umano di andare al di là di se stesso. Pur non programmandolo, finisco per parlarne in tutti i miei film“.

    Le sue parole contengono, a mio avviso, molte verità su Videodrome. La fragilità di Max Reinn appare nella sua completezza: cinico e spietato all’inizio, fragile e insicuro della sua realtà a causa di un segnale televisivo che lo aggredisce mentalmente. Tale “aggressione mentale” intesa come manipolazione è anche alla base di uno dei primi lavori del regista, Scanners.

    Il discorso su Videodrome visto in precedenza merita così di essere continuato. Perchè credo che sia necessario premettere, oltre che puntualizzare (per chi non avesse mai visto l’opera), cosa non è Videodrome. Questo film non è semplice exploitation per attrarre pubblico morboso e curioso, nè si limita ad usare lo splatter (presente per la verità in piccole dosi) come forma artistica che mostra

    la debolezza del corpo umano soprattutto in un momento storico, gli anni ottanta, in cui la perfezione fisica e l’edonismo erano considerati simboli di scalata sociale” (R. Nepoti, Lo splatter (il montaggio) e l’imago del corpo in frammenti).

    Videodrome non si limita a mostrare la debolezza di chi ricorre alla violenza estrema per soddisfare le proprie inibizioni e frustrazioni. Anche se il discorso, come già ne “Il demone sotto la pelle“, è di natura sessuale e tocca un tabù di oggi, peraltro, come la sessuofobìa. Per quanto verità inconfessabile, infatti, tantissima gente è attratta e spaventata dal sesso, per via della paura dell’altro, dell’incertezza, del timore di rimanerne feriti o coinvolti in un’altalena emotiva che diventa logorante per alcuni di noi. Viene in mente il feticcio ballardiano del successivo film Crash, in cui sono le automobili (simbolo della rivoluzione industriale) a diventare l’unico mezzo per eccitarsi.

    Videodrome del resto vuole mettere in crisi il modello comunicativo imposto dai mass-media, mette a nudo i pericoli insiti nell’utilizzo del tubo catodico che rischia di diventare una vera e propria arma di manipolazione di massa. Un rischio che potrebbe (teoricamente) essere evitato affidandoci ad un senso critico che deriva direttamente dai nostri organi, ma che il cupo pessimismo del regista rende utopico. Il tutto, pero’, senza degenerare in una paranoia immotivata verso la tecnologia.

    Cronenberg sa bene di cosa parla nei suoi film: ed è grande la sua capacità di inventare “tecnologia che si ibrida” col corpo umano in modo tanto credibile da spaventare di per sè senza mostrare nient’altro. Questo grazie al suo piglio diretto, sistematico nella sua follìa, ma soprattutto razionalista, correttamente informato su tubo catodico, emissione di segnali audio/video e, in futuro, pod da collegare direttamente al cervello (“eXistenZ“).

    Max Renn non diventa altro che un videoregistratore programmabile, che viene letteralmente inseminato da Videodrome attraverso l’orefizio vaginale del suo ventre e programmato come “video-parola fatta carne”. Nel finale proclama con freddezza “gloria e vita alla nuova carne” e si suicida dopo aver visto sè stesso farlo in TV: un’atto di emulazione che ricorda il paradosso di O’Blivion citato all’inizio: la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione.

  • Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

    Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

    Si parte dal riconoscimento in un obitorio del cadavere di un uomo da parte della famiglia. Il responso è inequivocabile: commozione cerebrale in seguito ad incidente stradale. Se i presupposti sono inquietanti – e fanno presupporre un thriller lugubre e sinistro, basta poco per accorgersi del contrario: il tono generale è velatamente ironico, non ovvio, lontano dalla stereotipìa. Le allusioni al mondo della sessualità sono implicite ma presenti: i due protagonisti sono una coppia appena formata, rapita da un desiderio narcisistico di indagare per conto proprio su un delitto e, naturalmente, in misura equivalente da un desiderio sessuale.

    Siamo nel 1967, al cospetto del primo Tinto Brass, che non è ancora quello esplicito che avremmo conosciuto in seguito ma che, senza troppe remore, non lesina sulle allusioni sexy con il consueto stile leggero e scanzonato. Quello di qualche anno dopo Il disco volante e Chi lavora è perduto, quando la svolta propriament erotica (che ha reso il regista celebre a livello internazionale) doveva ancora arrivare, ci si divertiva a sperimentare con il giallo all’italiana, a quanto risulta. Sì, perchè Col cuore in gola è fondamentalmente un giallo thriller con finale a sorpresa (forse, neanche tanto a sorpresa: ma sembra dipendente esclusivamente dal soggetto, che non è probabilmente il top in questa dimensione). Questo film è anche l’unico esperimento di Brass nell’ambito, sulla falsariga delle miriadi che ne sarebbero usciti negli anni settanta, con il vanto di essere addirittura uno dei primi, sebbene diverso dalla norma (che ereditava il mood più dal morboso che da altro) e con una singolare ispirazione di natura pop art.

    Col cuore in gola fa anche pensare ad un film hitchcockiano puro (cosa nemmeno propriamente errata, dato che i protagonisti appaiono perennemente in fuga dal proprio fato, e lo humour sotteso è tipicamente english), ma è anche un film coloratissimo, dai toni altalenanti, in grado di rappresentare uno spettro di emozioni ambivalenti e tipicamente umane: l’empatia, l’amore, l’entusiasmo per una nuova relazione, la simpatia innata dei personaggi, le caratterizzazioni. Un giallo all’italiana privo, in altri termini, della tipica seriosità ostentata dal genere, e con momenti tipicamente brassiani (o addirittura felliniani, verrebbe da scrivere) in cui i personaggi si lasciano andare a manifestazioni dionisiache di vario ordine e grado.

    La storia è quella di un uomo che incontra una giovane donna che ha appena perso il padre, la quale vive con la matrigna ed un fratellastro. La morte del padre non sembra l’incidente che viene annunciato all’inizio, e le indagini personali dei due personaggi cozzeranno con gli interessi di una pericolosa banda di criminali. Ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, edito dai Gialli Mondadori nel 1956 (numero 373), Brass si impegna in una regia ricercata, ironica, a tratti d’essai, ricchissima di primi piani, proto-settantiana nei tempi e nei modi, amante dei primi piani e dei dettagli e che sarebbe facilmente riconoscibile tra mille altre regie. Al netto di qualche piccola ingenuità nella trama (che non rimane particolarmente impressa, di per sè, e non è certo memorabile) il film si regge perfettamente in piedi, per quanto non sorprenda che non abbia avuto successo al tempo della sua uscita.

    Anche senza troppa immaginazione è possibile cogliere dentro Con il cuore in gola almeno un paio di situazioni che richiamano certi gialli argentiani, a cominciare dal protagonista che si improvvisa detective accompagnato da una giovanissima co-protagonista (Ewa Aulin aveva appena 16 anni all’epoca, anche se il suo personaggio afferma di averne 17). L’erotismo è sempre dirompente (e a volte appare vagamente fuori contesto), per quanto non sia ancora quello del Brass che conosceremo da La chiave in poi. Si vive di accenni, brevissime nudità assortite, citazioni di Antonioni en passant, schermi fotografici che diventano lenzuola di un letto, giochi di sguardi dei passanti che seguono una litigata tra due amanti, per poi sorridere e rilassarsi una volta che è tutto finito. La regia è magistrale soprattutto in queste sequenze, e più in generale nella sua straordinaria sintesi tra sperimentazione e pop, un cinema (pseudo)impegnativo che non si sforza snobisticamente di spaccare la testa allo spettatore (in senso figurato, s’intende). Una regia figlia prematura di un Sessantotto che avrebbe di lì a poco lasciato il segno, del quale vediamo le assonanze e le anticipazioni – ad esempio: la sequenza di un dialogo tra i due amanti, che sarebbe fondamentale comprendere, ma viene resa confusa o poco comprensibile dal volume elevato del cinegiornale, il quale racconta conformisticamente della guerra in Vietnam.

    E poi vorrei essere differente, ma non faccio niente per esserlo.

    Col cuore in gola è un adattamento libero dell’opera originale, che Brass ha adeguato alla figura del protagonista (Jean-Louis Trintignant, che recita alcune battute in francese per caratterizzarsi, e che interpreta un ruolo sostanzialmente serioso quanto auto-ironico) mediante due successive revisioni dello script. La location si trova a Londra (nel libro era Roma), nel pieno della rivoluzione culturale, nonché scelta emblematica della libertà artistica (e delle idee politiche) del regista milanese. A detta del Brass dell’epoca, il film è l’equivalente di una sequenza di ideogrammi cinesi, in cui il dettaglio inquadrato vuole rappresentare un concetto più ampio, una raffica di figure retoriche assimilabili alla sineddoche per le quali ci si affida ad una regia veloce, espressiva e multi-dimensionale (multi-dimensionale ad esempio nella sequenza dell’inquadratura da più angolature del protagonista).

    Londra rappresentava ciò che aveva rappresentato in precedenza Parigi: il luogo della trasgressione, della libertà. Stavano succedendo molte cose, in quegli anni. I Beatles erano solo uno di queste. Era il centro urbano più vivace d’Europa (T. Brass)

    Tra case di artisti popolate di quadri, personaggi svampiti o insospettabili, un soggetto sostanzialmente fumettistico (le storyboard che hanno ispirato le riprese sono state realizzate da Guido Crepax: visto oggi, un film del genere potrebbe appellarsi dell’etichetta “cine-fumetto” senza pensare ad un vero e proprio azzardo, almeno quanto lo è stato Lo chiamavano Jeeg Robot), cambi di tonalità di colore, gangster stereotipati, rapimenti, colpi di scena (quello finale è notevole, quanto palesemente annunciato dal dettaglio di un cartello), ambientazione metropolitana, primi piani a gente comune, passioni e intrighi di ogni genere. Sorprende per certi versi come un film del genere sia passato in sordina, così come tutti i lavori sperimentali e pre-erotici del regista. Se non siamo al cospetto di uno dei migliori lavori del suo primo periodo, del resto, poco ci manca.

    Col cuore in gola arriva nelle sale italiane nel 1967, ma non riscuote troppo successo commerciale. Noto anche come  Le cœur aux lèvres e En cinquième vitesse in Francia, dove arrivò due anni dopo, e negli USA, dove venne distribuito con il titolo I Am What I Am e Deadly Sweet.

  • M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    Ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, Cronenberg racconta la relazione semi-clandestina tra un diplomatico francese ed un cantante dell’opera…

    In due parole. Uno dei film meno noti di David Cronenberg: per la prima volta tanto lontano dall’estetica horror/sci-fi quanto intenso. Non cambia la poetica della mutazione (che in questo frangente è di natura prettamente sessuale) e si mostra la trasformazione umana e psichica di un protagonista: in parte, quella che il regista stesso stava attraversando.

    Il drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film in questione) scrive la pièce teatrale M. Butterfly ispirandosi ad un singolare fatto di cronaca: un diplomatico francese venne accusato di spionaggio per via del rapporto con un’attrice dell’Opera di Pechino, la quale in sede giudiziaria si rivelò essere un uomo. Cosa ancora più singolare, l’uomo si convinse dell’impossibile, ovvero di avere avuto un figlio dalla compagna/compagno con immaginabili conseguenze sul piano mentale e psicologico: un terreno particolarmente fertile per un regista come David Cronenberg, che già in “Inseparabili” aveva giocato sul confronto tra due gemelli identici ma interiormente differenti, e che aveva a suo tempo sviscerato le proprie ossessioni in termini mentali (Scanners), medico-chirurgici (Rabid sete di sangue, Il demone sotto la pelle), ginecologici e sessuali. Un cinema improntato ad una fortissima passionalità di fondo, dunque, che in questo film mostra un’ennesima debolezza umana: noi siamo conquistati prima ancora dall’idea dell’amore e dell’amata che dalla sua concreta materialità.

    Un tema profondo che ha trovato sfogo, ad esempio, nella concettualizzazione della donna ideale da parte dell’impiegato Sam di Brazil (che immagina essere un angelo dai capelli biondi) e la sua materializzazione (una mascolina e rude camionista): in “M. Butterfly” la donna amata, che ha procurato piacere fisico e mentale al protagonista René Gallimard, si rivela essere un uomo. Questo scatena una crisi ulteriore nel personaggio, in bilico tra il dover riconoscere l’abbaglio e la fuoriuscita di una omosessualità probabilmente repressa. Del resto la visione del sesso nei film del regista canadese, almeno fino a quel punto, era improntata a mostrarne dilemmi, virtualizzazioni (Videodrome) e contraddizioni, e questo ad esempio nell’ottica della maternità, comunemente considerata l’aspetto più rassicurante del mondo femminile che assume invece parvenza da incubo (vedi il finale di Brood).  In questa sede il focus sembra spostarsi sull’uomo, sul suo dramma interiore e su un amore impossibile che si risolve nello splendido monologo finale di Jeremy Irons (che vale forse da solo l’intera visione del film).

    Non credo di scrivere eresìe se premetto, a questo punto, che probabilmente “M Butterfly” è uno dei meno immediati film, in termini di intenti, mai girati da David Cronenberg (senza parlare di vera e propria complessità). Quello che intendo prescinde da un discorso prettamente visivo o allucinatorio tipico del cinema del regista canadese (e che qui manca del tutto): l’intensità della storia, un dramma che si sviluppa inesorabile con i punti interrogativi che assillano lo spettatore fino alle ultime sequenze, rendono questo film in qualche modo un unicum. Non è la prima volta che Cronenberg si rifà a modelli letterari pre-esistenti, ma è probabilmente il primo caso in cui l’orrore non viene “esploso” brutalmente sullo schermo ma rimane splendidamente interiore. Del resto la storia ruota su un evento che cambierà per sempre la vita del protagonista, spazzandone via illusioni, equilibrio mentale e identità: una dinamica che ricorda la progressiva demolizione dei personaggi di una tragedia classica (oltre che di altri capolavori del regista, su tutti “La mosca”), e che non lascerà indifferente lo spettatore.

    Un film giocato sulle consuete ambiguità cronenberghiane, a cominciare dal titolo “M Butterfly” che sembra rimanere volutamente sospeso tra “Madame” e “Monsieur”, e che esprime senza retorica o virtuosismi inutili il dramma di un uomo (o di una donna) e di un amore impossibile.