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  • Quando il buio si avvicina, c’è Kathryn Bigelow di mezzo

    Quando il buio si avvicina, c’è Kathryn Bigelow di mezzo

    Un giovane della provincia americana conosce una vampira ed il suo gruppo di compagni…

    In breve. Storia di vampiri mix di road-movie, horror e western, in una delle prime riedizioni modernizzate (cioè private di ambientazione ed elementi classici) mai viste sullo schermo (non la prima in assoluto, come scritto da qualche parte sul web); le idee ci sono, lo stile pure ed il risultato è senza dubbio considerevole, soprattutto considerando il periodo. Resta la considerazione che si tratta di un film che cerca una propria dimensione ma che riesce, di fatto, a convincere solo in parte.

    Anni prima di Rodriguez (Dal tramonto all’alba) e Carpenter (Vampires) Kathryn Bigelow – nota anche per Point Break e Strange days, qui al suo esordio alla regia (se si esclude The loveless del 1982) – confeziona una variazione sul tema vampiri in chiave western: decide di ambientarla nella provincia americana, con gli immancabili hillbilly, bettole malfamate e oscuri individui che si aggirano in essa a caccia di nuove vittime. Sarebbe l’ennesima banalità su un tema, ad oggi, forse troppo abusato, oltre che con poche pellicole davvero degne di attenzione: eppure le idee qui ci sono, molto prima dei ben più noti epigoni anche dello stesso, succitato, John Carpenter, che pure – a dirla tutta – non era esente da difetti. Tra le curiosità del film, il fatto che la parola “vampiro” non venga mai pronunciata da nessun personaggio,

    Sul fronte puramente storico, si tratta di una trasfigurazione del mito del vampiro in chiave moderna – se per moderna, ovviamente, intendiamo l’America degli anni ’80: collocando la storia nella provincia, e dando l’incipit all’intreccio sulla base del flirt tra il giovane Caleb e l’affascinante Mae, vampira che contamina il ragazzo e lo introduce forzatamente nel suo gruppo. Emblema dell’americano d’epoca – con un chiaro riferimento all’eroe stereotipato alla John Wayne, che diffida dal vampiro/”diverso” e si fa trovare pronto a trarre in salvo le  proprie donne – “Il buio si avvicina” è un multi-genere ben scritto, ben recitato (si racconta ad esempio che Lance Henriksen girovagasse in zona, nelle pause delle riprese, rimanendo calato nel suo personaggio, rischiando quasi di essere arrestato da un poliziotto che lo aveva fermato) ed altrettanto ben diretto, innovatore e senza timori di violare le “regole del gioco” (sulla pistola di uno dei vampiri è presente una croce, come a simboleggiare che certe regole sono cambiate per sempre) ma con un unico difetto di fondo, legato ad un piano narrativo a tratti scontato e prevedibile. La stessa mitologia del vampiro resta volutamente vaga, tanto che non riusciamo mai a vedere se ad esempio possano riflettersi nello specchio, o essere danneggiati da una croce: abbiamo solo testimonianza che sono difficili da uccidere, che temono la luce e che naturalmente cercano sangue.

    Il film si sviluppa secondo le tecniche narrative e visuali tipiche del western, una componente di road-movie (i vampiri sono dipinti come una specie di reietti, perennemente in fuga), una discreta componente horror ed una storia che si fa preferire nella prima che non nella seconda porzione. Potrebbe sembrare un aspetto positivo in termini di originalità, ma il climax di tensione e l’esasperazione del conflitto vampiri-umani viene brutalmente tramortito dall’happy end che la regista ha imposto alla storia, il che tende – a mio parere, s’intende – a disinnescare l’opera, nonostante tutti gli aspetti positivi ed il contesto che sto cercando di considerare. Diversamente – con un tocco di nichilismo e disillusione in più, in un certo senso, “obbligatori” per una storia di vampiri –  sarebbe potuto essere per i film sui vampiri tranquillamente ciò che, ad esempio, Hardware – Metallo letale è stato per l’argomento cyberpunk nel cinema. Nella realtà delle cose, in questa sede resta la sensazione di aver visto qualcosa di parzialmente riuscito, che peraltro un regista come Tony Scott (nonostante la produzione si fosse intromessa nella realizzazione, imponendo di cambiare il finale) aveva meglio concretizzato anni prima col suo Miriam si sveglia a mezzanotte.

    Il film è basato a buoni personaggi – la triade di vampiri in copertina, uniti alla figura del giovanissimo Homer, è da manuale del genere – mostra una visione certamente originale sul tema, e focalizza soprattutto i tormenti di un “neofita” nel dover “andare a caccia” ed uccidere per poter sopravvivere. Finisce pero’, a conti fatti, per essere penalizzato dalla volontà di far finire la storia in maniera, se non altro, necessariamente rassicurante, quasi conformista: il vampirismo, dalla visione di Near dark, risulta essere una specie di malattia da cui è possibile (o addirittura indispensabile!) guarire.

    Nonostante tutto, siamo al cospetto di un cult del suo genere, e troviamo scene notevoli e sequenze epiche degne del miglior cinema dell’epoca, o se preferite una rilettura del genere più che apprezzabile, soprattutto a confronto di epigoni smielati e fuori luogo spopolati sugli schermi in anni recenti. Sul piano musicale la colonna sonora è impreziosita dai contributi dei Tangerine Dream.

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  • Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Una squadra specializzata in missioni speciali capitanata da Dutch (Schwarzie) viene inviata in America Centrale, nel bel mezzo di una giungla, per salvare un ministro ed il suo collaboratore rapiti dai ribelli. Scopriranno che le cose non sono esattamente come avrebbero creduto, e che la foresta è popolata da un feroce predatore extraterrestre…

    In breve. Ibrido horror-fantascientifico ambientato nella giungla, che vanta una delle migliori interpretazioni dell’attore austriaco Schwarznegger e si segnala per il debutto dello Yautja, il crudele cacciatore di prede umane: inizia come un film di guerra dai toni ordinari, per poi evolvere in uno dei più cruenti body-count mai visti al cinema. Un culto assoluto per il genere.

    Predator di McTiernan, nato da un’idea inizialmente scherzosa (far combattere Rocky contro E.T.) e presa maledettamente sul serio nello sviluppo dell’intreccio, rappresenta uno dei pochissimi action-horror che non risente dell’età che ha: prese spunto dai film di guerra più in voga all’epoca (Platoon, ad esempio), e rielaborò lo stereotipo dei militari solidali in lotta non contro un nemico umano bensì uno misterioso, extraterrestre, a tratti sovrannaturale. A Schwarznegger, per una volta, viene relegato un personaggio con un buon livello di spessore (ovviamente relativo al contesto di cui si parla), che sarà naturalmente l’eroe indiscusso dell’intera vicenda e del suo indimenticabile finale. La lotta tra umani ed alieno, di fatto, prende inizio da una storia di tutt’altro tipo – una sorta di complotto militare ordito dalla CIA – un intreccio secondario che viene poi letteralmente abbandonato sul posto: non c’è tempo, nè modo, di occuparsene, dato che Predator è già sulle tracce degli umani. Le epiche musiche di Alan Silvestri sono semplicemente perfette a scandire i vari momenti del film, che si alternano tra fasi di meditazione e preparazione alla guerra ed altre di autentica violenza, che in certi momenti esita qualche istante prima di esplodere e mantiene sempre un filo di tensione molto equilibrato e gradevole. Un film essenzialmente d’azione, quindi, nel quale non mancano elementi prettamente horror (i corpi scuoiati, le esecuzioni al limite dello splatter), frammisti ad altri di fantascienza, guerra e più in generale dinamiche da survival movie; del resto la sopravvivenza, il vero leitmotiv del film, è evidenziato splendidamente dalla sequenza in cui il protagonista umano si cosparge di fango per non farsi vedere dall’alieno, coronando uno dei capolavori del genere (quantomeno degli anni 80). Privo di momenti di calo e con personaggi ben caratterizzati, si fa ricordare – oltre che per l’innovativa vista ad infrarossi della creatura aliena – per la figura del rude pellerossa (Billy) – silenzioso, meditativo e molto più sensibile dei suoi commilitoni alle bizzarrie ed ai pericoli della natura. Il male assoluto, l’alieno ostile agli uomini – e con i quali “gioca” esattamente come farebbe un cacciatore con le proprie prede – “el diablo cazador de hombres” fa intuire di esigere il proprio tributo di sangue periodicamente, stilando così i presupposti per un’ennesima saga orrorifica ottantiana, non sempre riuscitissima nella sua evoluzione per quanto subentrata nell’immaginario collettivo da molti anni.

    Un vero masterpiece del genere (nonchè uno dei miei film preferiti in assoluto) che ogni spettatore dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita.

    « Ho paura, Poncho. Laggiù c’è qualcosa in agguato, e non è un uomo. Moriremo tutti.»

  • Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Ellison è uno scrittore in crisi: il suo libro “Kentucky Blood” è stato un best seller, ma attualmente vive nel dimenticatoio, e sta cercando l’ispirazione per un nuovo lavoro. Tacitamente memore del Jack Torrance di Shining, si stabilisce con la famiglia all’interno di una casa in cui, come vediamo dall’inizio, sono avvenuti degli orrendi omicidi. Il ritrovamento di una serie di filmini in formato Super 8 introduce ad un terrificante “filo” che sembra ricondursi ad un killer seriale.

    In breve. Horror a tinte sovrannaturali che affascina per via della possibile spiegazione razionale che lo accompagna: per quanto il ritmo possa latitare in certi momenti, certamente un buon film con finale neanche troppo “telefonato”.

    “Innegabilmente spaventoso”, “prevedibile”, “spaventoso ma artificioso”: queste alcune delle controverse reazioni della critica alla prima visione del film: un lavoro diretto e sceneggiato da Derrickson che non delude le aspettative.  Sviluppando uno degli archetipi più classici del cinema del terrore e thriller – una situazione parzialmente ordinaria che degenera, più una serie di segreti ben nascosti nella storia – il regista ci propone in particolare un Ethan Hawke in gran forma, credibile ed immedesimato nella parte. Chi ha girato il filmato della morte della famiglia? Per quale ragione non è stato ripreso uno dei componenti? Perchè è stato realizzato il tutto? Sono queste le domande che angosciano il protagonista, coadiuvato dalle interpretazioni intense e coinvolgenti dei propri familiari. Alla base di questo singolare thriller contaminatissimo con l’horror, vi è di fatto una situazione di conflitto legata alla tensione che trasmette il protagonista per via del lavoro che svolge (scrivere romanzi incentrati su fatti reali di cronaca nera).

    La figura di Bughuul, demone mangiatore di bambini (riferito nel film come Mr. Boogie, “l’uomo nero”), viaggia attraverso il tempo e lo spazio alla ricerca di giovani vittime di cui nutrirsi. Figura senza dubbio affascinante la sua, perchè rielabora curiosamente la figura del villain – come potrebbe esserlo Nightmare, Smiley o Jason – e ne arrichisce i connotati, inserendovi elementi di pseudo-tradizione babilonese. Questo è uno degli elementi di forza di una storia che, in “Sinister“, probabilmente qualcuno potrebbe trovare prevedibile ma che, di fatto, non lo è neanche troppo, specie se si considera il sulfureo (e nerissimo) finale. La quasi totalità dell’intreccio di “Sinister“, dal canto suo, si fonda sulla contrapposizione amore/odio instauratosi tra Ellison – che suggerisce una morbosa ricerca della verità, anche a costo di superare ogni limite – e Tracy, che invece simboleggia la coesione della famiglia, e più in generale l’importanza della sfera emotiva. Di fatto questo tipo di contrapposizione riesce, seppur con qualche piccola forzatura, a far emergere un film di buon ritmo e livello, capace di appassionare anche lo spettatore più smaliziato. Certamente non mancano riferimenti e citazioni più o meno spudorate: a parte un parziale parallelismo con Shining, svariati elementi di “Sinister” richiamano The ring, una certa tradizione horror nipponica legata ai demoni che tornano ciclicamente (Ringu, Noroi, Izo), le atmosfere di Them e, in buona parte, quelle snuff-orrorifiche di REC.

    Per questa ragione piacerà senza dubbio a chi è amante di questo genere di scenari, per quanto la struttura stessa del film riesca ad aprirsi ai gusti di più di un tipo di pubblico, anche quello meno avvezzo – come il sottoscritto – alle pellicole incentrate su eventi sovrannaturali.

  • Maniac Cop: la violenza poliziesca secondo Lusting

    Maniac Cop: la violenza poliziesca secondo Lusting

    Un poliziotto di stazza enorme uccide innocenti a casaccio: la polizia brancola nel buio, e sembra nascondere qualcosa…

    In breve. Un film probabilmente nell’oblio per i più, ma di grandissimo valore: intreccio tra poliziesco e horror-slasher, racconta la storia di un agente di polizia psicopatico che uccide apparentemente senza motivo. Cresce la diffidenza della popolazione verso le autorità, e lo spettatore è coinvolto in una storia senza respiro.

    Cult diretto dall’esordiente William Custig, ma realizzato (produzione e soggetto) da parte del Larry Cohen che ha diretto “Cellular“, “In linea con l’assassino” e il mitico “The stuff – Il gelato che uccide“: ritmo e storia da poliziesco, con linguaggio da horror ottantiano puro. Il poliziotto sadico massacra la popolazione, ed attenta alla vita di alcuni colleghi, mentre la storia riesce a coinvolgere lo spettatore fin dai primi istanti: notevoli i momenti di tensione, mentre la natura del bestione protagonista viene delineata da tratti oscuri.

    Splendido il personaggio di Tom Atkins, il poliziotto dal volto umano, eccellente anche Bruce Campbell (La casa) e di tutto rispetto il cast in generale; tipicamente ottantiane le musiche, tanto che nelle buie scene metropolitane sembra che l’ispettore Callaghan debba uscire fuori da un minuto all’altro. Piacerà agli amanti dell’horror e, probabilmente, anche a quelli del poliziesco esplicito anni 70. Un po’ confusa la storia dei titoli italiani: il primo episodio della saga è Maniac Cop – Poliziotto sadico, seguito da Maniac Cop – Il poliziotto maniaco (orig. Maniac cop II) e da Maniac Cop 3 – Il distintivo del silenzio. Un film da riscoprire.

    Come può la popolazione difendersi se non è informata sul fatto che uno degli agenti di questa città potrebbe essere uno psicopatico, il cui intento è di uccidere senza motivo delle vittime innocenti?

  • Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    1944: cinque soldati americani vengono condannati a morte per motivi diversi in un campo nei pressi delle Ardenne; durante il tragitto si buca uno pneumatico…

    In breve. Film di guerra italiano, motivo di grande interesse e decisamente originale, con qualche inevitabile pecca.

    La storia è quella di un gruppo di disertori, durante la seconda guerra mondiale, che si trovano in Francia per essere fucilati: durante il tragitto si creerà per loro una nuova storia, ricca di avventure ed imprevisti. Una lotta per la sopravvivenza che li dovrebbe portare, dopo l’assalto ad un treno, verso la salvezza, nel territorio neutro della Svizzera. Una battaglia contro tutto e tutti, visto che il gruppo si troverà perennemente tra due fuochi, e sarà esaltato il senso di fedeltà tra i commilitoni accomunati dai medesimi problemi, rispetto alla fedeltà alla nazione o a qualsiasi bandiera prestabilità. Un senso di anomala solidarietà tipico del western, di fatto, e di tutto un filone di cinema realistico e di vendetta, da Distretto 13 a I guerrieri della notte e moltissimi altri.

    Molta della fama di questo film si deve, almeno in parte, a Quentin Tarantino, amante del cinema di genere e (ri)scopritore di talenti nascosti (spesso e volentieri italiani) che ne ha citato lo spirito ed alcuni passaggi (ma non la trama) all’interno dei suo Inglorious Basterds. Quando in seguito avrebbe diretto il suo Bastardi senza gloria, un film dal titolo identico ma con storia completamente diversa, volle acquistare solo i diritti sul titolo, giusto per evocare questo cinema, questi tempi e questi ritmi. Nel suo caso non si è trattata pertanto di un’operazione di remake, bensì del suo consueto gioco di citazioni: l’opera di Castellari si ricollega ad un filone ben consolidato, da cui eredita una componente di azione ricca di momenti intensi e di siparietti ironici, motivo di interesse sostanziale per il film. La sceneggiatura è stata affidata a Sergio Grieco, autore di film semi-dimenticati di genere prevalentemente poliziesco, tra cui il misconosciuto ed introvabile I violenti di Roma bene: qui, cronologicamente, si tratto dell’ultimo film da lui scritto, in collaborazione con lo stesso regista.

    Un film che è forse lontano dal capolavoro di guerra, ma che diverte, avvince e si fa seguire con una sceneggiatura azzeccatissima e varie trovate originali, tra cui i siparietti del baffuto Michael Pergolani (che interpreta il soldato Nick Colasanti) che nella versione italiana è stato doppiato in siciliano. Insomma un cult a tutti gli effetti, con qualche difetto riscontrabile quasi esclusivamente in alcune trovate improbabili, come le mitologiche infermiere tedesche che ovviamente faranno il bagno più sexy possibile nel laghetto. Per il resto, Quel maledetto treno blindato rimane impresso con tutti i suoi protagonisti, tra cui la superba, direi, interpretazione di Bo Svenson, il tenente Yeager attorno al quale ruota l’intera storia.