CULT_ (123 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • giorni-contati-p-hyams-end-of-days-1999

    End of Days non è semplicemente un film d’azione o horror, ma una parabola sul desiderio collettivo e sull’illusione di controllo. Il mondo è alla vigilia del nuovo millennio, e Satan, incarnato come mostro umano, non cerca solo il corpo di una donna, ma la materializzazione di una volontà storica: la presa sul futuro stesso.

    Jericho Cane non è l’eroe convenzionale. È un uomo segnato dal trauma, dal vuoto di senso di chi ha affrontato la violenza quotidiana e ne porta i segni sul corpo e nello sguardo. Quando viene chiamato a proteggere Christine, il film smette di essere thriller per diventare analisi del desiderio: il potere di Satan non sta solo nella malvagità, ma nella capacità di trasformare il desiderio in arma, di sfruttare le inclinazioni più intime dell’umano per imporgli una legge apocalittica.

    Il New York urbano diventa un organismo malato: luci fredde, strade vuote, cieli lividi — non sono sfondo, ma estensione psichica dei protagonisti. La violenza, spesso grottesca e spettacolare, è la superficie di un conflitto più profondo: il corpo sociale che teme il passaggio al nuovo millennio, l’angoscia di un’epoca che si chiude mentre il futuro rimane ignoto.

    La psicoanalisi emerge nei gesti: Christine, scelta come veicolo del male, rappresenta l’oggetto del desiderio impossibile, la figura idealizzata che porta con sé la possibilità di una catastrofe o di una salvezza. Jericho diventa il soggetto chiamato a negoziare tra il proprio trauma e la responsabilità del mondo intero. La sua azione non è eroica in senso classico, è materialmente necessaria: la realtà lo costringe a incarnare la resistenza in un sistema che pretende la resa.

    Hyams dirige con mano controllata: non indulgendo nella spettacolarità pura, ma creando sequenze in cui il tempo e lo spazio si comprimono, dove ogni combattimento, ogni inseguimento, diventa una lezione sulla gestione della paura e sulla materialità del male. L’apocalisse promessa è sempre in ritardo, sempre anticipata, ma la tensione morale e fisica è totale.

    End of Days è, in ultima analisi, una riflessione sul controllo e sulla fragilità del soggetto davanti alle forze che lo circondano. Non serve una catarsi finale: l’osservatore è chiamato a percepire il peso della responsabilità e la materialità della volontà, a capire che il conflitto non è solo soprannaturale, ma innanzitutto umano.

  • the-war-game-p-watkins-1965

    The War Game (1965) di Peter Watkins è uno dei film più disturbanti e importanti della storia del cinema politico britannico. Realizzato per la BBC, doveva essere un documentario di finzione destinato alla televisione, ma fu censurato e vietato alla messa in onda per vent’anni, giudicato troppo realistico e devastante per il pubblico dell’epoca.

    Watkins costruisce una simulazione documentaria — girata con lo stile secco e impersonale dei reportage — che mostra le conseguenze di un attacco nucleare sulla città di Rochester, nel Kent. L’opera è composta da interviste simulate, voci narranti, immagini d’archivio, e ricostruzioni crudamente realistiche di incendi, evacuazioni, collassi psicologici e carestie successive all’esplosione.

    La struttura finge l’obiettività del documentario, ma la utilizza per un fine opposto: svelare la follia burocratica e morale della deterrenza nucleare. Le autorità britanniche, nel film, si rivelano impotenti e ridicole; la popolazione, docile e terrorizzata, si disgrega in un caos di fame, violenza e morte. Il linguaggio pseudo-giornalistico — domande, grafici, percentuali — diventa uno strumento di tortura semantica: il razionale applicato all’apocalisse.

    Il film colpisce per la sua precisione clinica e per la ferocia morale. Non c’è catastrofe spettacolare né eroi, solo macerie, ustioni e silenzi. Watkins rifiuta ogni estetizzazione della guerra: mostra la distruzione come puro processo amministrativo, un risultato matematico del potere politico. È un film marxista nel senso più crudo: non ci sono individui, ma funzioni sociali; non c’è dramma, ma struttura.

    Girato con attori non professionisti e mezzi ridotti, The War Game ottenne l’Oscar come miglior documentario nel 1967, pur essendo ufficialmente un film di finzione. Rimase invisibile per decenni — la BBC lo trasmise solo nel 1985 — ma nel frattempo diventò una leggenda sotterranea, studiato da registi come Kubrick e Watkins stesso lo considerava parte di un cinema “anti-narrativo”, capace di scardinare la passività dello spettatore.

    Oggi, rivedendolo, colpisce non solo per la potenza visiva ma per la disperata lucidità: non c’è retorica pacifista, solo la constatazione che ogni sistema costruito sul potere e sulla paura è già in stato di guerra, anche in tempo di pace.

  • The last house on dead end street

    The Last House on Dead End Street (1973) di Roger Watkins è una pellicola che sembra uscita da un incubo dimenticato in una cantina umida, girata con la furia di chi non ha più niente da perdere. Il film si presenta come exploitation, ma sotto la crosta di crudeltà e amatorialità ribolle qualcosa di più profondo: un rifiuto viscerale del mondo dello spettacolo, dell’arte come merce, del cinema stesso come istituzione borghese.

    La trama è scheletrica e disturbante: un ex detenuto, appena uscito di prigione, decide di girare un film pornografico estremo per vendicarsi della società che l’ha espulso. Recluta una manciata di complici e trasforma la produzione in un rituale di sadismo, violenza e autoannientamento. A ogni sequenza, la linea tra finzione e realtà si dissolve. Non si capisce più chi sta recitando e chi viene davvero torturato. Il film dentro il film divora quello esterno, e lo spettatore si ritrova intrappolato nella stessa trappola percettiva.

    Watkins gira come se odiasse la cinepresa. L’immagine è sporca, granulosa, saturata di ombre che inghiottono i volti. Non c’è alcun piacere estetico nella messa in scena: solo la sensazione che la macchina da presa sia uno strumento di punizione, una lama che registra il fallimento del soggetto. Ogni inquadratura sembra dire: “questo non è cinema, è la sua carcassa”.

    Il gesto di Watkins è radicalmente materiale. I personaggi non cercano catarsi o giustizia, ma visibilità: vogliono esistere almeno come immagine, anche se l’unico modo è farsi massacrare di fronte all’obiettivo. È la versione più sporca e disperata del rapporto tra produzione e sfruttamento: corpi che si offrono al consumo visivo per un pubblico che non vediamo mai, ma che sentiamo respirare dietro la pellicola, come un mostro affamato.

    Verso la fine, il film implode su se stesso: i protagonisti vengono uccisi nella stessa performance che stanno filmando, e la macchina continua a girare, indifferente. È lì che The Last House on Dead End Street si trasforma da exploitation a elegia del nulla. Non c’è catarsi, solo un loop di riprese, una serie di gesti ripetuti finché tutto perde senso.

    È un film marcio, deforme, ma autentico nella sua brutalità. Non ti invita a guardare — ti costringe. E quando finisce, resta quella sensazione sgradevole di aver assistito non a una storia, ma a un atto di autolesione collettiva: la messa in scena del desiderio di scomparire dentro l’unico dio che resta — la cinepresa.

  • Climax di Gaspar Noè

    Climax di Gaspar Noè

    Climax (2018) di Gaspar Noé non racconta, non accompagna, non consola. Si apre con un gruppo di ballerini che festeggia la fine delle prove, e finisce con corpi contorti, urla, sangue e trance. Tutto il resto è un lento precipitare nella stessa spirale. È un film che non si guarda: si subisce.

    Noé fa ciò che gli riesce meglio: costruisce un rituale che comincia come videoclip e finisce come sacrificio. Lo spazio — una palestra isolata nella neve, illuminata da luci al neon, rossi e verdi che pulsano come una ferita — diventa un organismo chiuso. Quando qualcuno versa LSD nella sangria, il gruppo entra in uno stato di ebollizione collettiva. La danza, prima linguaggio, diventa convulsione. La musica, che all’inizio accompagna, diventa tiranna. Nessuno guida più: l’ordine implode, e il caos prende il sopravvento come una legge naturale.

    C’è una purezza quasi scientifica nella discesa di Noé: la macchina da presa non giudica, registra. Gli individui perdono nome, ruolo, orientamento. Restano solo pulsazioni, spasmi, corpi che si cercano e si feriscono. È il punto esatto in cui la libertà promessa dall’euforia si rovescia nella claustrofobia del branco: l’utopia di un piacere condiviso diventa il suo contrario, un incubo comunitario.

    Nel cuore del film non c’è morale, ma un vuoto denso. La droga è solo un detonatore: il vero orrore è la fragilità della coscienza, la facilità con cui la gioia collettiva si trasforma in linciaggio. Ogni personaggio esiste solo finché qualcuno lo guarda ballare. Poi scompare. Il montaggio stesso, ipnotico e circolare, sembra compiaciuto nel confondere chi osserva: lo spettatore non sa più se sta assistendo a una festa, a una possessione, o a un suicidio corale.

    Non c’è messaggio, ma un’energia che consuma. Climax è un film sul piacere come forza distruttiva, sul corpo come luogo politico e sull’impossibilità di distinguere liberazione e annientamento. È cinema che ti rifiuta come spettatore, ti trascina dentro e ti restituisce stordito, nauseato, come dopo una notte troppo lunga in cui tutti hanno smesso di fingere.

  • Taxi Driver (1976) – Regia di Martin Scorsese

    Taxi Driver (1976) – Regia di Martin Scorsese

    Taxi Driver (1976)
    Regia di Martin Scorsese

    Travis Bickle guida il suo taxi nella notte di New York come se la città fosse un organismo ostile da cui separarsi. Ogni strada sporca, ogni neon tremolante, ogni incontro con prostitute e tossicodipendenti è un frammento di un mondo che non lo riconosce, che non lo vuole. La sua cresta, improvvisa e aggressiva, non è moda: è il gesto che dichiara la frattura con la normalità, il segnale visibile della tensione accumulata, del desiderio che esplode senza mediazioni. Non ride, non parla: agisce.

    Rick, ehm, Travis — perdonami, l’attore De Niro — diventa un simbolo della solitudine estrema, di un uomo che cerca un ordine impossibile in un caos che non gli appartiene. La sua ossessione per Betsy, e poi la decisione di salvare Iris, non sono romanticismi: sono tentativi disperati di incidere sul mondo, di ripristinare un senso che è stato negato, di farsi vedere dove nessuno lo guarda. La violenza finale, improvvisa e totale, non è catarsi, è manifestazione della frustrazione e della decisione di imporre la propria legge in un mondo che non ne ha più.

    In fondo, Taxi Driver non racconta solo un uomo, racconta la città, il tempo, l’aria pesante di una società in disfacimento. E quella cresta, quel gesto improvviso, è l’immagine perfetta: ribelle, aggressiva, isterica, eppure tragicamente sola.


    Travis Bickle è un reduce del Vietnam, un uomo che si sente estraneo alla società, un “non soggetto” che si muove in una metropoli notturna e alienante. La sua discesa nell’oscurità psicotica è il riflesso di una crisi collettiva: la fine del sogno americano, l’illusione di un ordine sociale ormai dissolto. Il suo taxi diventa il luogo di una solitudine radicale, una cella di isolamento in cui la realtà si frantuma e la violenza emerge come unica risposta al caos.

    Il film si apre con una panoramica su una New York sporca e decadente, un paesaggio urbano che sembra rispecchiare l’interno disgregato di Travis. La sua routine notturna lo porta a contatto con la miseria umana: prostitute, tossicodipendenti, criminali. Ogni incontro è un frammento di un mondo che non riconosce più come suo. La sua ossessione per Betsy, una volontaria in una campagna politica, diventa il simbolo di un desiderio irraggiungibile, un ideale che non può essere raggiunto.

    La figura di Iris, una giovane prostituta interpretata da Jodie Foster, rappresenta la purezza perduta, l’innocenza che Travis cerca di salvare. La sua missione di “pulizia” diventa un atto di redenzione personale, ma anche un gesto di violenza che riflette la frustrazione di un individuo incapace di trovare un posto in una società che lo ha emarginato.

    Il film si conclude con un atto di violenza che sembra restaurare un ordine, ma che in realtà conferma l’assenza di senso. Travis diventa una sorta di eroe locale, ma la sua vittoria è vuota, un’illusione che nasconde la continua disgregazione del soggetto. La scena finale, in cui Travis guida il suo taxi con un sorriso soddisfatto, è un’immagine inquietante di un uomo che ha trovato la sua “via d’uscita”, ma a quale prezzo?

    Trivia IMDb:

    • Robert De Niro ha lavorato per un mese come tassista notturno a New York per prepararsi al ruolo. Durante questo periodo, ha incontrato un attore in difficoltà che lo ha riconosciuto come De Niro, dimostrando quanto fosse immerso nel personaggio. IMDb

    • La sceneggiatura di Paul Schrader è stata parzialmente autobiografica, ispirata a un periodo in cui ha sofferto di un esaurimento nervoso vivendo a Los Angeles. IMDb

    • Jodie Foster, all’epoca dodicenne, non poteva partecipare alle scene più esplicite del film, ma la sua interpretazione ha comunque contribuito a rendere il personaggio di Iris memorabile.