FUORI NORMA_ (31 articoli)

Storie d’eccezione, extra-norma, al di sopra (o al di sotto) della media.

  • Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Un killer uccide una donna dentro un ascensore: unica testimone del delitto, una prostituta che si trovava casualmente sul posto…

    In breve. Ottimo thriller di De Palma ispiratissimo ai lavori di Dario Argento, ma a questi livelli è quasi impossibile capire “chi” si sia ispirato a “cosa”: la trilogia argentiana era già uscita da un pezzo, Tenebre sarebbe venuto fuori solo due anni dopo. Un film, per toni e contenuti, decisamente iconico degli anni 80, uno dei migliori del genere.

    Sul finire degli anni 70 Brian De Palma scrisse una sceneggiatura basata su “Cruising” (che significa “trovare partner sessuali casualmente“), un articolo del giornalista Gerald Walker incentrato sulla figura di un serial killer che sceglieva vittime omosessuali. Non riuscendone ad ottenere i diritti, lo script passò al regista William Friedkin che lo diresse nello stesso anno proprio con quel titolo, mentre alcune influenze di quella storia finirono in “Vestito per uccidere“.

    Thriller forte, dai toni erotici marcati (anche se visto oggi, probabilmente, non fa lo stesso effetto) e caratterizzato da una vena tipicamente argentiana: ci sono il killer in impermeabile, il testimone chiave minacciato, il poliziotto-macchietta, l’assassinio in ascensore. Molto di questo film è chiaramente ispirato a Profondo Rosso (uscito cinque anni prima), con la differenza che i suoi toni sono molto più incentrati sulla componente erotica e sulle sue ambiguità, piuttosto che sull’atmosfera malsana. Molteplici riferimenti della storia, e a livello stilistico, rimandano al Fulci de Una lucertola con la pelle di donna, ma anche a Perchè quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Carmineo.

    La figura dell’assassino, un “uomo imprigionato nel corpo di una donna“, è una sorta di Norman Bates in forma più esasperata, anch’esso decisamente iconico. Il suo modus operandi prevede semplicemente l’uso di un rasoio, lo stesso che avremmo rivisto infinite volte nel seguito, quantomeno fino alle fantasiose trovate di Saw. A livello stilistico De Palma si ispira ad Hitchcock, specie in certe sequenze “virtuosistiche”: quella in ascensore (col suo indimenticabile gioco di riflessi nello specchio), la sequenza finale nella penombra (mix perfetto di erotismo e tensione), ma soprattutto quella dei due amanti occasionali al museo Metropolitan di New York, che dura ben 9 minuti. Dopo interminabili silenzi, il tutto culmina in un sesso che in Vestito per uccidere perde qualsiasi valenza liberatoria: è puro nichilismo. Il killer, in questo senso, è una sorta di giustiziere-moralista che, come si vedrà, vive per primo dei pesanti conflitti di personalità.

    La narrazione di “Vestito per uccidere” intriga nella sua semplicità: De Palma dirige un ottimo giallo (diremmo quasi all’italiana, se non fosse per l’ambientazione puramente U.S.A.) rinunciando a profili psicologici troppo complessi, dettagli rivelatori improbabili e finali ridicoli. Questo serve a mantenere credibile il livello della storia senza stroncarne l’efficacia e, soprattutto, senza esagerare con l’exploitation: l’unica sequenza davvero brutale, in effetti, è proprio l’assassinio di quella che sembrava la protagonista, mentre resta anche impressa una megalopoli spaventosa nella sua indifferenza (una rappresentazione che ricorda, per certi versi, quella vista in vari polizieschi tipo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo).

    De Palma, regista ed autore del soggetto, crea di fatto l’equivalente di un thriller erotico all’italiana, un esperimento che riesce e lascia il segno ancora oggi. In “Vestito per uccidere” si respira un’atmosfera puramente ottantiana a cominciare dagli interpreti scelti: un dottore ambiguo, un poliziotto sbrigativo, una prostituta che si rivelerà la vera chiave di volta. In particolare è quest’ultima (interpretata da Nancy Allen, all’epoca moglie del regista) a caratterizzare “Vestito per uccidere” dal punto di vista narrativo e visuale: lontana duecento miglia dalla parte mascolina che l’ha resa più celebre (era l’agente Anne Lewis di Robocop), qui sprigiona la propria sensualità con classe e sicurezza. La “strana coppia” che il suo personaggio crea con il figlio adolescente di Kate Miller, nerd della prima ora deciso a scovare l’identità dell’assassino, rimane impressa nella memoria dello spettatore e colpisce per la sua carica di umanità.

    Come già nei film più espliciti di Argento, anche De Palma venne accusato di aver calcato troppo la mano (più che sulla violenza, ridotta all’essenziale) su sessismo ed erotismo: del resto il film si apre (e si chiude) in un’atmosfera onirica che, probabilmente, non è stata capita da molti. Una sorta di incubo erotico diventato di culto a cui Fulci ed Argento, a dirla tutta, erano già arrivati quasi dieci anni prima. “Vestito per uccidere” è uno dei migliori thriller del periodo a livello mainstream, e merita una visione ancora oggi.

     

  • Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu (Blue Velvet) fu girato nel 1986, da un David Lynch reduce dall’esperienza non esaltante di Dune: una fantascienza atipica che, per inciso, non fu mai considerata tra le sue migliori opere. Il titolo del film, che è tratto da una canzone classica di Bobby Vinton (e viene interpretata dal personaggio della cantante, la “signora in blu“, ovvero Isabella Rosellini), racconta una sorta di noir, immediatamente riconoscibile dal formato e dal ritmo, alla  scoperta di un mondo nascosto nell’apparente ordinarietà di una cittadina di provincia americana. Il velluto blu, per la cronaca, è il tratto distintivo di un feroce criminale (Frank), il quale lo usa per imbavagliare o soffocare le vittime dei suoi soprusi, strappandolo dal vestito di una cantante di cui è invaghito.

    Al di là del celebre dettaglio dell’orecchio mozzato, in effetti, i primi minuti del film non rientrano neanche nel tipico surrealismo lynchiano, che rinuncia alla sua consueta narrazione non lineare e non pone, almeno all’inizio, particolari dettagli disorientanti. Velluto blu è pertanto un unicum lynchiano per vari motivi e scelte stilistiche, e resta probabilmente tra i film più accessibili e lineari del regista, ideale per chi volesse conoscere o approcciare al suo mondo risparmiandosi le divagazioni mistiche e surreali che, di lì a qualche anno, avrebbero caratterizzato tutto il resto della sua cinematografia.

    Jeffrey Beaumont è l’archetipo del giovane curioso (dal gusto voyeur, per quanto apparentemente solo ingenuo) che aleggia nella stragrande maggioranza dei thriller (ad esempio argentiani), con un protagonista che opta per le indagini “fai da te” perchè stregato da una vicenda macabra di fondo di cui viene a conoscenza (il malore del padre ed il ritrovamento dell’orecchio nel giardino) e – di riflesso – si lascia sedurre dalla mite figlia del detective (simbolo di amore puro) che dalla conturbante signora in blu (verso cui rivolge attenzioni inaspettate e quasi feticistiche). Jeffrey è un personaggio molto particolare e sostanzialmente duale: archetipo del “bravo ragazzo della porta accanto“, è altrettanto efficace come indagatore improvvisato, attratto inconsciamente da quello che si rivelerà il personaggio chiave nel film o forse, solo dalla sua storia dolorosa (da cui la battuta “non so se sei un detective o un pervertito“). Blue velvet si prefigura una storia di mistero, in cui vengono svelati vari, progressivi scheletri nell’armadio (Jeffrey che si nasconde letteralmente nell’armadio, guarda caso), innestati negli appartamenti dei rispettivi protagonisti, e basati su varie forme di feticismo, relazioni sadiche e sado-masochiste. L’ingresso in scena di Frank, un sadico criminale con una dipendenza da un gas (probabilmente popper), porrà il protagonista nella condizione di autentico voyeur, certificandone i tratti e coinvolgendolo in una storia molto più grande di lui.

    Hai messo la tua malattia in me.

    Il film suscitò anche discrete polemiche all’epoca dell’uscita, rimarcate dal critico Roger Ebert il quale, pur amando quasi incondizionatamente gli altri film di Lynch, fu estremamente critico nei confronti di Blue velvet, tacciandolo di volgarità e misoginia: la presunta degradazione del corpo della Rossellini, tuttavia, sembra funzionale all’intreccio (Dorothy è sottomessa a Frank perchè, di fatto, viene ricattata da quest’ultimo, dato che Frank gli ha rapito sia marito che figlio) e non è mai fine a se stessa. E anche se si volesse pensare ad un parallelismo con romanzi erotici tipo Histoire d’O, in cui esiste una sorta di sublimazione erotica del rapporto masochistico, bisognerebbe sempre dare priorità al contesto. Questo è vero, secondo me, perchè la forza dell’intreccio è determinata proprio dalla relazione controversa, scabrosa e obiettivamente difficile da risolvere, in cui Jeffrey è attratto contemporaneamente dalla purezza di Sandy e dalla perversione di Dorothy (salvo poi empatizzare con entrambe), senza che ciò abbia connotati di manifesto sociale ma solo, più semplicemente, con valenza simbolico-concettuale, come spessissimo avviene in Lynch.

    C’è da sottolineare a questo punto che, come spesso accade nelle produzioni di Lynch (e come sottolineato da Slavoj Zizek, ad esempio) tutte le scene più esplicite di Velluto blu sono ambientate in una sorta di non-luogo, che è l’appartamento della signora in blu, in cui ogni inibizione morale è abolita (si praticano sesso sadico e voyeurismo) e dove lo spettatore, per primo, è costretto ad affrontare i propri tabù, le inibizioni ed i desideri più inconfessabili. E vale lo stesso discorso per le scene più violente, che avvengono in un parcheggio sperduto che sembra tratto da un incubo senza fine per il povero Jeffrey. I due episodi chiave si trovano al centro di una storia che, lo ricordiamo, è un noir classico, con un focus sull’indagine “autogestita” dal protagonista che fa da contorno ad un disvelamento psicologico e sessuale dei personaggi sempre più esplicito, con il ruolo dei personaggi che finisce quasi sempre per travalicare le apparenze. A questo si aggiunge un clima sempre più crudo ed exploitativo, che si avvia durante la cattura di Jeffrey, ripetutamente aggredito e umiliato dalla banda di Frank con dinamiche che, quasi insolitamente per Lynch, sembrano tratte da un road movie di qualche decennio prima. Clima che poi diventa quasi tarantiniano: al rientro nell’appartamento di Dorothy, la vista del marito di lei assassinatoo e dell’uomo in giallo in piedi, lobotomizzato, siamo semplicemente al clou della storia. Dopo circa due ore di film, peraltro, resta benzina anche per un discreto twist finale, in cui Lynch relega al protagonista un ruolo risolutore e liberatorio, per quanto (o forse proprio per via del fatto che) la vicenda l’abbia quasi distrutto psicologicamente. Jeffrey colpirà mortalmente il sadico Frank giusto sbucando dall’armadio, lo stesso che – tradizione vuole – nasconde gli amanti di ogni ordine e grado, e che lui stesso aveva sfruttato per definire il proprio bizzarro rapporto con Dorothy. Dorothy che lo ama, Dorothy che vuole essere maltrattata da lui, Dorothy che provoca una crisi ad entrambi – per poi rientrare nei ranghi della normalità, con un finale profondamente utopistico e carico di positività, in cui Lynch affida ai pettirossi il ruolo simbolico della rinascita, interrogandosi pero’ sull’ennesima bizzarria: come faranno mai a nutrirsi di insetti?

  • Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Amarillo è sede di uno scontro sociale tra due modi di essere del mondo giovanile: da un lato punk, dall’altro jocks. Lo scontro finirà per esasperarsi fino alla tragedia.

    In breve. Splendido nella forma e devastante nella sostanza: un perfetto equilibrio tra realtà vissuta e romanzata, che rende Bomb City probabilmente uno dei migliori film a tema musicale mai girato.

    Questo film si basa sulla storia realmente accaduta a Brian Theodore Deneke, giovanissimo musicista punk morto nel 1997 ad Amarillo, Texas, per mano del coetaneo Dustin Camp. Non è l’unico film che racconta la sua storia (ci sono anche Criminal: Punks vs. Preps, trasmesso su MTV, e un episodio di City Confidential che ne parla), ma è quasi di sicuro quello che riesce a sintetizzare meglio lo scenario assurdo che si venne a profilare. Camp, infatti, ritenuto colpevole in prima istanza di omicidio volontario (investì il giovane punk con la propria auto durante una rissa), non scontò alcun anno di carcere e venne rilasciato.

    Il film è chiaramente una denuncia feroce contro il sistema giudiziario americano, e ne evidenzia l’ipocrisia e le contraddizioni a cominciare dal processo che viene presentato nei primi fotogrammi, a fatti già avvenuti, per poi ripercorrerne la storia attraverso un lungo flashback. Già l’arringa dell’avvocato difensore mette i brividi: pur difendendo un omicida, punta il dito contro l’immaginario punk ed i suoi slogan, strumentalizzandone i contenuti dei testi e ripetendo come un mantra negativo i suoi messaggi, ritenuti antisociali quanto anti-americani (“destroy everything“).

    Bomb City è il nickname di Amarillo dal duplice significato: da un lato “città esplosiva” per via dell’intolleranza e la contrapposizione middle-class tra giovani punk e ragazzi apparentemente per bene – in gergo jocks, ovvero gli archetipici giocatori di football “fighetti” tra cui Dustin Camp, chiamato Cody Cates nel film, evidenzia una cronica mancanza di carisma – dall’altro il nome deriva dalla presenza di una vecchia, spaventosa e suggestiva centrale nucleare.

    Il film, dotato di una fotografia oscura e suggestiva nel rappresentare un mondo stradaiolo realistico e difficile da vivere, evita il moralismo facile e punta il dito contro la situazione in sè, fatta di eccessi diversi da un lato e dall’altro, portando avanti un messaggio di rabbia ed un senso di ingiustizia che lascia, infine, lo spettatore annichilito. Esiste una lunga tradizione di horror, soprattutto anni 80 e 90, incentrati sulla middle-class USA e le sue mostruosità latenti (Society, ad esempio): ovviamente in senso stretto Bomb City non lo è, ma ne eredita buona parte del feeling rivoluzionario e di denuncia.

    Un film imperdibile, che potrà incuriosire anche chi non sapesse granchè sui fatti e non fosse necessariamente appassionato del genere musicale trattato. Molto fuori dalle righe, poi, la colonna sonora, fatta esclusivamente di musica hardcore punk del sottobosco underground dell’epoca.

  • Delicatessen: il mondo grottesco del futuro visto da Jeunet

    Delicatessen: il mondo grottesco del futuro visto da Jeunet

    In un imprecisato futuro post-apocalittico, il cibo viene utilizzato direttamente come denaro (mais e legumi, ad esempio), ed un inquietante macellaio vende direttamente carne umana: il Delicatessen del titolo (gastronomia) fa riferimento al suo negozio. Il palazzo è popolato da strani coinquilini dal comportamento grottesco, a cui si aggiunge un ex clown (Luison), il cui collega è stato rapito e divorato da ignoti. È evidente che il condominio non sia esente dalla macabra pratica, e naturalmente il macellaio si trova ad esserne direttamente coinvolto.

    L’idea del film venne a Jean-Pierre Jeunet mentre si trovava in vacanza negli USA, con il cibo servito nell’hotel a suo dire scadente – e che ricordava, affermava ironicamente, della carne umana. Secondo altre fonti, Jenuet viveva sopra una macelleria e, ogni mattina alle 7, sentiva il rumore dei coltelli del titolare (il che viene anche riprodotto all’inizio del film). Alla sua fidanzata venne in mente che, prima o poi, sarebbe arrivato il loro “turno” di finire macellati.

    Firmato dalla elaborata e studiatissima regia di Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, Delicatessen è un film grottesco dai tratti surrealisti, un’accoppiata che solitamente funziona e che, anche in questo caso, non fa eccezione. L’aspetto surrealista non è incidentale, ma molto ben studiato: basti pensare al modo in cui sono orchestrati i rumori del palazzo, a cominciare dal cigolio delle molle del materasso (il cui suono va in sincrono con la musica della violoncellista, quello di Luison che dipinge il soffitto e così via), da un semplice campanello (che suona contemporaneamente alla macchina da cucire di una delle inquiline) e così via. Espedienti tipici, ad esempio, del cinema di Svankmajer.

    C’è ampio spazio per l’amore platonico tra Luison e la figlia del macellaio, osteggiato dal cinismo di quest’ultimo e dalla sua marcata avidità. Anche a livello architetturale, del resto, l’edificio + ben congegnato: a parte poter comunicare con i sotterranei (con i Trogloditi, ribelli & naturalmente vegetariani), c’è un tubo che attraversa i vari appartamenti, in barba a qualsiasi privacy, mediante il quale il macellaio può sentire tutto quello che avviene all’interno. Molte situazioni del film, poi, anche le più potenzialmente cruente, sono animate da uno spirito da film comico modello slapstick e, come se non bastasse, di humour nero decisamente raffinato.

    Anche le tecnologie sono dichiaratamente surreali, e si ispirano all’immaginario steampunk caro ad esempio Terry Gilliam, e basterebbe citare a riguardo l’australiano (una sorta di pugnale-boomerang) e naturalmente il rilevatore di stronzate: un dispositivo con un piccolo perno, che ruota e suona non appena ne sente una (quella usata per testarlo, naturalmente, non poteva che essere quant’è bella la vita). Lo stesso Gilliam, con la sua tipica umanizzazione dei protagonisti e disumanizzazione degli ambienti, non avrebbe sfigurato alla regia, tant’è che negli USA il film uscì come “presentato da Terry Gilliam“.

    Luison, personaggio archetipico del sognatore incompreso (molto alla Gilliam anche lui, in fin dei conti), coivolge e crea empatia con il pubblico, mostrando un ingegno fuori dal comune per uscire dalle situazioni più disperate. Ma è soprattutto l’intelligente humor nero ad essere l’arma segreta legata al successo del film, che ironizza parecchio sull’attrazione e sugli amori più improbabili, perchè in fondo – citando letteralmente una sequenza – un australiano conficcato in testa è sempre meglio che le corna.

  • The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    Film dai toni post-apocalittici diviso in tre parti, raccontato da altrettante prospettive diverse, ed incentrato su un misterioso segnale audio, diffuso mediante radio, TV e cellulari, in grado di trasformere le persone in killer.

    In breve. Discreto horror dalla narrazione non lineare, capace di tenere alta la tensione fino alla fine. Da vedere.

    The signal, horror del 2007 (da non confondersi con l’omonimo, di genere fantascientifico uscito nel 2014) è stato ideato da tre registi che vantano una collaborazione dal 1999 e girato con un budget di soli 50.000 dollari, in 13 giorni. Parliamo del trio David Bruckner, Dan Bush e Jacob Gentry, che sono anche autori della sceneggiatura, ed hanno girato seguendo i dettami dell’ horror indie americano: nessun risparmio sul livello di efferatezze e colpi di scena, ed un trama abbastanza semplice infarcita, nonostante tutto, di passaggi notevoli o allucinatori (personaggi che scambiano altri personaggi) e flashback (personaggi che ricordano, o credono di ricordare, il passato).

    Se tutto questo potrebbe appartenere alla tradizione lynchiana del genere, The signal non si perde in simbolismi, e strizza più pesantemente l’occhio all’horror crudo anni ’70, fin dalle prime immagini: una sequenza da exploitation modello Non aprite quella porta / L’ultima casa a sinistra, che pero’ rimane come una specie di trailer autoreferenziale (alla Tarantino / Rodriguez per intenderci) per introdurci nel film, a malapena collegato alla trama principale (in realtà è uno spezzone di The Hap Hapgood Story di Gentry). Ed è proprio al regista di Pulp Fiction, con le dovute proporzioni, che sembra richiamarsi la dinamica della storia, suddivisa formalmente in tre parti – ricca di flashback e colpi di scena, in cui nessuno è quello che sembra ed i personaggi vivono, loro malgrado, in una sorta di incubo ad occhi aperti.

    Il film è suddiviso in tre parti – che avrebbero dovuto essere di più, almeno stando a quanto pubblicato su Vimeo da uno dei tre registi (assolutamente consigliato, tra l’altro, il video linkato per avere un’idea del film, senza “dire troppo” o spoiler vari), e si basa su un’idea semplice ed efficace: un triangolo amoroso tra la protagonista, il marito di lei ed il rispettivo amante, ed il progetto di rivedersi nella stazione di Terminus, binario 13. Peccato che, nel frattempo, uno strano segnale radio/TV inizierà a plagiare le menti di chi ascolta, giustificandone le efferatezze ed arrivando a rendere chiunque un feroce omicida, e trasformando la città in un deserto in cui la maggioranza cerca di uccidere il prossimo. Non è troppo chiaro, peraltro, quale sia il livello massimo di esposizione al signal senza impazzire, visto che molti personaggi si muovono brillantemente senza farsene condizionare – ma questo è volere essere pignoli, e questo non è il genere di horror declinato sulla precisione. Se i presupposti di The signal non sono nuovi (Essi vivono, forse addirittura Videodrome) la narrazione non lineare e l’uso di riprese multiprospettiva cercano di rendere adeguato, riuscendoci, quel tocco di originalità tale da rendere il film interessante, oltre che scorrevole.

    Del resto non si tratta di un post-apocalittico vero o proprio, ma di una storia che è quasi un mashup di tre feeling diversi. Le tre trasmissioni o episodi di cui si compone la trama, infatti, sono incentrati su tre sotto-storie dallo stile ben distinto: Crazy In Love di Bruckner è quello più visceralmente horror e sinistro, The Jealousy Monster di Gentry e strizza l’occhio alla dark comedy ed allo humour nero (il che aiuta a spezzare e non appesantire la trama), mentre Escape from Terminus di Dan Bush conclude con la parte (relativamente) romantica della storia, ovviamente declinata in modo post-apocalittico. L’intero film si rifà chiaramente alla tradizione horror più allucinatoria ed esplicita, con spudorati richiami a certo torture porn (sopratutto il secondo episodio) ed ai classici di ogni tempo del genere (da Shining a Resident Evil, passando per 28 giorni dopo): questo, di suo, tenderebbe a renderlo un prodotto di nicchia, anche se uno spettatore medio potrebbe comunque lasciarsi trascinare positivamente dal film che, in fondo, è una love story declinata in modo grottesco e noir.

    Questo, a mio avviso, mette in secondo piano, come tradizione vuole in questi casi, l’intero scenario in cui si ambienta il film, lasciando il focus attivo su sogno di due amanti, neanche a dirlo, di vivere assieme – nonostante il marito di lei, violento ed imprevedibile e letteralmente ossessionato dal tradimento. Il tutto con il rischio di disinnescare la trama (i personaggi sembrano “dimenticare” l’apocalisse in corso, in più momenti), intreccio di suo rinforzato da un ambiguo (e forse non troppo comprensibile) doppio finale, in cui non è chiaro cosa sia sogno e cosa, invece, sia (la dura) realtà.

    Nel frattempo il signal – di cui non conosciamo l’origine, ed in fondo poco importa – continua a mietere vittime, e a causare atti di violenza sempre più feroci, scatenati dopo l’esposizione al segnale e giocando su una paranoia molto diffusa anche nelle varie urban legend che circolano da sempre sul web (le onde radio o wireless utilizzate per controllare le persone, o capaci di provocare malattie). In questo senso il film è abile a leggere e rielaborare la realtà, attualizzarla e focalizzarsi sulle paure e le psicosi moderne.

    Anche questo, del resto, dovrebbe saper fare un buon horror.