MISTERO_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori gialli usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Paranoia: il thriller di Umberto Lenzi che convince solo in parte

    Paranoia: il thriller di Umberto Lenzi che convince solo in parte

    Thriller intricatissimo con parvenza di romanzetto di serie B, troppo poco brutale per essere definito pulp. Ma Lenzi ci ha talmente abituato a film di qualità che, in fondo, questa opera sembra decisamente godibile se affrontata senza eccessive pretese. A dispetto di quanto suggerisce il titolo non si tratta di un thriller giocato su perverse allucinazioni o su paranoie che nascondono un torbido passato: Paranoia racconta un po’ confusamente la noia borghese di un gruppo di persone propense all’ambiguità reciproca, e che agisce in un gioco di gelosie e sospetti globalmente poco convincenti. Il risultato finale, pur trascorrendo vari momenti di elevata intensità (le scene con l’auto in corsa a folle velocità sono tra queste, senza dubbio), difficilmente riesce a coinvolgere più di tanto, oggi. Tuttavia rimane costante e solida la regia del celebre regista italiano, che non si fa scappare questo ennesimo spunto per giocare con l’exploitation, con una punta di voyerismo e poco altro.

    Caroll Baker – attrice di culto per  il Lenzi di quel periodo, con la quale girerà anche Orgasmo e “Così dolce… così perversa” – regala qui una discreta interpretazione, impersonando la giovane Helen che si trova al centro di una sorta di macchinazione ordita allo scopo di ottenere un’eredità. Prevedibilmente, dopo mille giri e raggiri, le conseguenze finiranno per ritorcersi inevitabilmente contro i principali artefici, confezionando così una discreta opera ricca di allusioni sexy-morbose ma abbastanza lontane, se vogliamo, dai fasti a cui ci abituerà Lenzi nel corso degli anni. Da vedere per curiosità, ma senza eccessive aspettative.

  • Gatti rossi in un labirinto di vetro: il giallo lenziano sulla scia di Argento

    Gatti rossi in un labirinto di vetro: il giallo lenziano sulla scia di Argento

    Un gruppo di turisti in visita a Barcellona si trova coinvolto in una serie di omicidi da parte di un misterioso killer, che sembra averli presi di mira. Ad occuparsi del caso un commissario prossimo alla pensione, che riconosce lo stesso modus operandi: come “firma” di riconoscimento, infatto, l’assassino usa strappare un occhio alla vittima. I sospetti sono indirizzati, come nella tradizione giallistica classica, su qualcuno degli stessi turisti o sulla guida turistica stessa, ma senza che si riesca a focalizzare la situazione.

    Ultimo giallo di Lenzi, argentiano a cominciare dagli animali presenti nel titolo, ultimo di una quadrilogia thriller preceduta da Sette orchidee macchiate di rosso, Il coltello di ghiaccio e Spasmo – il tutto, poco prima della sua azzeccatissima svolta verso il poliziesco all’italiana.

    Nel frattempo si continuano a mietere vittime, tra colpevoli apparenti ed ambiguità varie ed eventuali: sullo sfondo una storia clandestina tra una segretaria (Paulette, interpretata da Martine Brochard) ed il responsabile di una grande azienda (Mark Burton, John Richardson), sul quale si concentrato indagini e sospetti. Come nella tradizione argentiana, alla fine, sarà un dettaglio a fare scoprire il mistero e a spiegare (tra l’altro) il vetro del titolo.

    “I loro occhi… non potevo sopportare i loro occhi”

    Tra le note curiose, circola una versione italiana che sembra essere stata depurata non delle parti efferate dei delitti quanto, ad esempio, nel momento in cui si evidenzia il rapporto lesbico tra il personaggio di Naiba ed un’altra donna, scena che, di fatto, non risulta essere doppiata. Le musiche incalzano perfettamente l’atmosfera di tensione che pervade il film dopo i primi spensierati minuti, e sono opera del grande Bruno Nicolai.

    Probabilmente uno dei migliori gialli di Lenzi, quantomeno uno di quelli che ho preferito come ritmo e suspance.

  • Passi di danza su una lama di rasoio: il giallo erotico con J&B

    Passi di danza su una lama di rasoio: il giallo erotico con J&B

    Una donna assiste casualmente ad un omicidio mediante un cannocchiale, e la polizia sospetta – inizialmente a ragion veduta – del fidanzato di lei. In un classico intrigo alla “tutti sospettati” uscirà fuori la “contorsionistica” verità…

    In sintesi. Ennesimo giallo all’italiana girato uscito in un periodo prolifico per il genere: la cosa migliore del film rimane l’azzeccatissimo titolo, che fa presagire una trama intrigante – cosa che delude, in parte, le aspettative. Non un film da buttare, beninteso, ma neanche da osannare, in bilico tra qualche punta di noia e circostanze che appaiono “buttate lì” per costruire un giallo di forza, anche a costo di calcare la mano su certe sequenze e renderle forzose. Un thriller italiano, migliore nella seconda che nella prima parte, che non è certo entrato nella storia, e questo pur offrendo elementi topici piuttosto usuali e, probabilmente, proprio per questo mediocri.

    Maurizio Pradeaux firma questo giallo-thriller-erotico che mescola varie suggestioni in modo alquanto artificioso, senza una reale incisività e con una trama che manca vagamente di mordente. Resta il fatto che “Passi di danza su una lama di rasoio” si lascia guardare con discreto interesse, e dando per scontato che non sia roba troppo comune girare capolavori come “L’uccello dalle piume di cristallo” e “Non si sevizia un paperino“, possiamo solo riconoscere che questa produzione di Pradeaux ricada “comodamente” nella norma del periodo e del genere. Non manca, tanto per capirci, l’assassino in impermeabile, guanti e cappello nero, un vero e proprio “stereotipo vivente” inventato da Dario Argento; la sua identità passa agevolmente da un/una sospettato/a all’altro/a fino alla rivelazione conclusiva, e questo certamente si rivela come un punto a favore della pellicola.

    Del resto non mancano sbavature ed improbabili sequenze: cose tipo l’anziana che si confida col protagonista sorseggiando un gustoso J&B (unofficial sponsor piuttosto popolare nei film d’epoca), cose che in qualche modo faranno più sorridere che indignare il pubblico; di fatto, ad essere onesti, il film non sembra esattamente l’ideale per “iniziarsi” al genere. L’elemento di erotismo, in altri film simili vagamente funzionale alla trama o quantomeno di notevole intensità, sembra qui un mero riempitivo per adescare il pubblico maschile, e risulta addirittura poco credibile su certi frangenti (vedi alcuni amplessi che sembrano artefatti e troppo simulati). Certamente la seconda parte del film  è più accattivante della prima, ovvero si tratta di uno di quei lavori che richiedono una punta di resistenza da parte del pubblico che potrebbe, in certi casi, uscirne soddisfatto.

    Rimangono da capire alcune singolari discrepanze, tra cui il killer che va in giro rigorosamente in impermeabile e donne piacenti che amano, di contro, dormire “ovviamente” nude: ma questi sono stereotipi di genere che vengono ogni volta rielaborati dal regista di turno, qui in modo del tutto ordinario. A ben vedere è proprio la regia a non essere stata troppo incisiva: senza voler fare paragoni che potrebbero risultare impropri, probabilmente Pradeaux si è trovato a cavalcare l’onda del periodo, lo ha fatto senza sfigurare completamente ed il risultato, visto oggi, lascia qualcosa a desiderare. Una galloppata singhiozzante che culmina in un finale neanche troppo scontato, ma con un movente ed una copertura troppo di facciata e, in un certo senso, piuttosto discontinua rispetto alla trama. “Passi di danza su una lama di rasoio” è  da prendere senza troppi pensieri o lasciare del tutto, tenendo conto che il giallo all’italiana ha vissuto momenti di miglior forma.

  • Sette orchidee macchiate di rosso: il giallo settantiano di Lenzi

    Sette orchidee macchiate di rosso: il giallo settantiano di Lenzi

    Soggetto e regia firmati da Umberto Lenzi, musiche di Riz Ortolani: un giallo classico con tanto di assassino “classico” in impermeabile, cappello e guanti neri.

    In breve. Il terzo giallo in ordine cronologico di Lenzi regala qualche perla visiva, e merita certamente una visione anche oggi. Non il migliore in assoluto, ma sicuramente tra i più considerevoli visivamente parlando.

    Umberto Lenzi, due anni prima di partorire uno propri capolavori (Milano odia… la polizia non può sparare), dedica la propria attenzione ad una serie di gialli – thriller piuttosto atipici, che regalano discrete perle allo spettatore seppur con qualche difetto congenito a livello narrativo. Uno di questi è proprio Sette orchidee macchiate di rosso (del 1972), un thriller basato su sette misteriosi omicidi legati da un unico filo conduttore, che saranno proprio i protagonisti a scoprire. La storia è molto ricca di dettagli e merita di essere espansa, ovviamente evitando di rivelare dettagli basilari per chi non conoscesse il lavoro ma, al tempo stesso, per rendere omaggio al tentativo di realizzare un giallo solido ed intrigante, seppur con qualche pecca innata. Il vero punto di forza del film, ad ogni modo, sono le riprese e la forte teatralità di molte sequenze, non tanto la storia che comunque, a mio avviso, merita qualche approfondimento.

    Il maniaco in questione è l’assassino “della Mezzaluna”, che lega i porpri omicidi ad un movente legato ad uno strano amuleto. Il serial killer uccide inizialmente una donna nel sonno che tiene sul comodino la foto di una prostituta (Marcella detta “La toscana”), la quale finirà poco dopo anch’essa nelle sue grinfie. L’assassino lascia in mano alla donna uno strano amuleto d’argento a forma di mezzaluna, che diventerà la sua “firma”. La seconda vittima è la bionda Katy, assalita e soffocata a casa propria in un crescendo di tensione veramente notevole, che materizza una delle migliori scene del film (assieme al successivo omicidio con il trapano). Poco dopo la promessa sposa (Giulia) del responsabile di un grosso atelier, Mario, viene accoltellata sul treno mentre il compagno si era brevemente allontanato, e si salva in extremis per l’arrivo del controllore. Da questo momento scattano le ricerche da parte della coppia, che indaga per conto proprio – come nella tradizione del giallo all’italiana: la catena di delitti sembra legata ad una lista di persone che occupavano un albergo che era precedentemente gestito proprio da Giulia. Nel frattempo la polizia, come tradizione del genere vuole non troppo brillante, sembra aver trovato ed arrestato un colpevole. Neanche a dirlo una nuova donna (Rossella Falk) con manie di persecuzione, rinchiusa in una casa di cura, viene annegata dentro la vasca da bagno nell’incuria dell’infermera che avrebbe dovuto accudirla. Il conteggio degli omicidi arriverà infine a sette vittime, come prevedibile dal chilometrico titolo, stereotipato come, del resto, l’intreccio stesso in puro stile argentiano.

    Alcune ambiguità disseminate  nella trama fanno pensare che il marito sia in qualche modo a conoscenza del movente, sulla falsariga delle dinamiche giallistiche argentiane, ma basta poco perchè il dubbio nella spettatore possa dissolversi. Un americano abbastanza ambiguo viene fuori poi come persona a conoscenza dei fatti, e sulla base delle sue indicazioni si va a definire l’identità di un certo Frank Sauders. La verità uscirà fuori in modo abbastanza contorto, con tanto di interessante doppio finale, ma il film soffre di qualche pecca, che lo rende un po’ pesante per lo spettatore poco attento. Del resto Lenzi non è Argento, ma questo ovviamente ridimensiona solo in parte il primo, capace in compenso di cimentarsi in molti altri generi (horror puri come polizieschi cult).

    Lenzi comunque, va detto in suo onore, costruisce in modo intelligente un intrigo giallistico coinvolgente, recitato in modo convincente e con momenti di autentica suspance. Esistono molte idee interessanti in questo film, in parte anche innovative e cariche di significativi colpo di scena; un film che si segnala nel proprio genere, pertanto, in una giungla cinematografica caratterizzata da qualità incostante e, a proprio modo, memorabile perchè fuori dai canoni usuali. Lenzi lo amava solo in parte, apprezzandolo per via delle riprese superlative (“superbly shot”) e molto meno dal punto di vista narrativo (“pedantic”, ebbe a dire a riguardo).

  • Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Un giallo piuttosto appetitoso per gli amanti del genere, condito da trama intrigante, vaghi elementi sexploitation ed una trama piuttosto intricata: l’inquietante colonna sonora, dai richiami dichiaratamente argentiani (come del resto l’intero intreccio) è stata firmata da Ennio Morricone.

    In breve: una storia incalzante, poco ed intenso splatter, qualche sbavatura sparsa ma tutto sommato pienamente godibile. Per amanti del giallo all’italiana e dell’exploitation.

    Inizialmente vediamo un uomo (che si scopre essere un investigatore privato, Umberto Paradisi) che si aggira nei pressi di uno stagno, dando indicazioni al manovratore di una scavatrice: l’uomo viene decapitato dalla benna della macchina, senza che si veda il volto dell’asssassino. La polizia inizialmente indirizza le indagini sull’operaio che sarebbe dovuto essere al lavoro sul posto, ma dopo poco lo stesso viene trovato impiccato: si tratta, neanche a dirlo, di un suicidio simulato. L’attento poliziotto Peretti (George Hilton, volto noto dei 70) indaga quindi su un caso di omicidio piuttosto complesso: un personaggio perfetto, impeccabile sul lavoro, ma con più di un problema con la compagna (una poco convincente, a mio parere, Helga Linè). Dopo l’inizio di una catena di omicidi, che ricollegano il caso ad un precedente di una bambina rapita assieme al padre e morta di inedia nel covo dei sequestratori, verrà a galla la verità in un finale tutto da gustare.

    Dario Argento aveva creato uno stile, che si era delinato attraverso quelli che sarebbero diventati gli archetipi di cui fu artefice (su tutti, l’assassino dai guanti neri): in questo film di Valerii non si tratta, per la verità, di semplici richiami stilistici. Il film è totalmente immerso nello spirito delle opere del regista argentiano, visto che c’è quasi tutto quello che ha inventato il primo argento: il disegno infantile risolutore, la nenia inquietante a sottolineare i momenti topici, il passato torbido di uno dei protagonisti, i familiari della vittima che nascondono un orribile segreto, addirittura i personaggi-macchietta che intervallano i momenti di tensione del film. Del resto a chi sarà venuto un colpo pensando ad una squallida scopiazzatura di Profondo rosso o Quattro mosche di velluto grigio, posso dire di stare tranquillo: ci sono infatti almeno due elementi originali e di rilievo in “Mio caro assassino” (senza contare, forse, la banalità del titolo).

    Il primo è che il commissario di polizia (Hilton), sicuro di sè e figlio dei detective razionalisti dei gialli classici, è costretto a risolvere ben due casi collegati tra loro, e questo lo porta a considerare una ragnatela insolitamente fitta con almeno dieci personaggi sospetti, eliminati poco per volta dalla mano crudele dell’assassino. I personaggi sono tutti ben caratterizzati e preziosi per l’intreccio, anche se diventa facile perdersi nei dettagli, in certi casi. Il secondo aspetto secondo me “cult” di “Mio caro assassino” riguarda alcuni inserti davvero originali, come il killer che agisce in soggettiva e “in diretta”: noi non riusciamo a capire chi sia, ma in almeno due momenti decisivi “vediamo” con i suoi occhi. Questo avviene anche, ad esempio, nella scena in cui uccide con la fresatrice. Questo secondo me è un elemento notevole, che conferisce uno spessore insolito rispetto alla sostanziale exploitation presente nel film (lo splatter da manuale della scena appena citata, i nudi belli ma totalmente gratuiti di Helga Linè e della maestrina Mary Shepard, il criticatissimo nudo della bambina-modella dello scultore pedofilo)

    Del resto si tratta di un giallo “puro”, condito da elementi extra non sempre molto coerenti: del resto, ci vorrà ancora una decina di anni perchè giallo ed horror possano unirsi con gran classe, e declinarsi in una delle migliori opere italiane di sempre. Non voglio abusare delle citazioni di Argento perchè è possibile che il regista abbia avuto diversi pugni allo stomaco dalla visione di questo film, che per molti versi ne ricalca fedelmente scenari, ambientazioni e stilemi. Mi pare inoltre ci sia stato un piccolo errore da parte del regista probabilmente in fase di montaggio, che consentirà allo spettatore più “cattivello” di capire subito chi sia l’assassino: basta fare caso alla macchina ed al  suo brand che viene esposto più volte. Un peccato, lo dico senza sarcasmo ovviamente, perchè in fondo dato il contesto, l’epoca ed il confronto con film piuttosto discutibili diffusi in quel periodo, va bene anche  così. Non male il finalone alla Agatha Cristie, con il poliziotto che passa in rassegna tutti i potenziali indiziati svelando il dettaglio rivelatore soltanto nell’ultimo fotogramma, creando una tensione ed un’aspettativa nello spettatore secondo me senza pari.