GODERE_ (jouissance) (44 articoli)

In termini lacaniani, il concetto di “godere” è collegato al concetto di “jouissance“. Quest’ultimo non si riferisce semplicemente al piacere fisico o al godimento sensoriale, ma piuttosto ad un concetto complesso e psicoanalitico legato alla sfera psichica e sessuale.

Secondo Jacques Lacan, la jouissance va oltre il semplice piacere e può comportare una sorta di sofferenza o di eccesso che supera i limiti del desiderio. È legata alla tensione tra il desiderio e la sua realizzazione, e spesso implica una sorta di mancanza o di impossibilità di raggiungere pienamente ciò che si desidera.

Nella teoria lacaniana, la jouissance può essere divisa in due forme: la jouissance phallique, che è più associata al piacere fisico e all’appagamento delle pulsioni, e la jouissance dell’Altro, che è più complessa e implica un’esperienza più profonda e problematica, legata alla relazione con l’Altro, con il desiderio e con la struttura stessa del linguaggio e dell’inconscio.

In sostanza, il concetto di godere in senso lacaniano è collegato a una forma di piacere che supera i confini della soddisfazione diretta e coinvolge una complessa dinamica psichica e relazionale.

  • Salon Kitty: il film erotico più politico che ci sia

    Salon Kitty: il film erotico più politico che ci sia

    Kitty Schmidt, tenutaria di un bordello berlinese, in occasione dell’inizio della guerra viene costretta dal Reich ad assumere un gruppo di prostitute di fede nazista. L’idea è quella di compromettere i clienti che lo frequentano (ufficiali delle SS) spiandone di nascosto i comportamenti e le affermazioni.

    In breve. Tinto Brass gira un film politico-satirico, anche a costo di attenuare un po’ la componente erotica e quasi nella tradizione di Aristofane: il sesso per mettere in ridicolo (e combattere) il nazismo. Ne risulta un capolavoro assoluto del genere.

    Prima del controverso Caligola, Brass si occupa lucidamente del Potere e delle sue declinazioni, mostrandole come pure perversioni ai danni dei più deboli. Mostrando un Salon Kitty realmente esistito, la storia si sviluppa secondo canoni estetici felliniani, e mostra un’atmosfera festosa, eccessiva, decadente, in cui ogni ufficiale finisce per lasciarsi andare di fronte a fascino delle prostitute, peraltro molto curate dal punto di vista delle movenze e dei costumi.

    Dopo aver consumato sesso in qualsiasi forma e variante immaginabile (viene anche mostrato un ufficiale che si traveste da donna ed un altro che utilizza un pane a forma di fallo), le parole iniziano a pesare sempre di più: le prostitute (in realtà donne selezionate dalle SS su base nazionalistica) raccolgono informazioni sui clienti, stendono rapporti dettagliati ed il regime punisce chiunque venga considerato potenziale disertore, o non abbastanza fedele alla patria. Gli intenti satirici sono lampanti: mostrando il lato sessuale e fisico degli ufficiali (che normalmente vedremmo uccidere e dare ordini in divisa), Brass li riporta (come da tradizione del genere satirico) ad una dimensione umana, tangibile, ed usa questo strumento per mostrarne il degrado.

    La vera storia di ciò che accadeva al Salon Kitty sembra risalire al diario dell’ufficiale Walter Schellenberg (Il labirinto), pubblicato nel 1956, ed al quale seguì un’estensione della storia a cura di Peter Norden nel libro Madam Kitty (1973). Il fatto che il bordello fosse utilizzato come misura di spionaggio per svelare l’identità di ufficiali infedeli al regime, peraltro, è un fatto realmente accaduto nella Germania di quegli anni. Durante la guerra il bordello venne molto frequentato dai nazisti, per poi essere definitivamente abbattuto da un attacco inglese nel 1942. La Schmidt, proprietaria del luogo, non svelò mai l’identità di nessuno dei suoi datori di lavoro, fino alla sua morte (1954).

    Diversamente da altri film di Brass, in cui la componente erotica è schiacciante (tanto da sembrare forzata, in certe circostanze), in questo film è presente quanto misurata: non mancano scene di sesso ed i soliti nudi frontali, ovviamente, oltre alla predilizione del regista per i fondoschiena femminili a regola d’arte, e la rappresentazione di perversioni di ogni genere, sempre funzionali a mettere in ridicolo le smanie di potere di certuni. Kitty Kellermann (alter ego della reale Kitty Schmidt), protagonista della storia nonostante il suo professarsi apolitica, sarà il punto focale per risolvere la trama assieme alla prostituta e passionale Margherita (Teresa Ann Savoy), innamorata di un ufficiale vittima del tranello architettato dal regime. Se quest’ultima love story assume connotati digressivi, non lo fa con particolare insistenza – per cui resta funzionale a giustificarne la scelta.

    Salon Kitty, se non è il miglior film di Brass, è sicuramente uno di quelli che ha conferità dignità al genere erotico, forse il più maltrattato in assoluto dopo l’horror, al quale nulla puoi chiedere se non di riscaldarti un po’ la serata (in fondo questo puoi chiederlo anche ad un buon horror, ma questa è un’altra storia). Brass dimostra semplicemente che, se hai qualcosa da dire e possiedi i mezzi per girare, il film è fatto e anche i soliti moralisti dovranno, per una volta, rassegnarsi all’idea. Tra le curiosità del film, un gran numero di riprese in presenza di specchi, il che richiede una certa perizia registica che valse a Brass, secondo IMDB, il nomignolo di “re degli specchi“.

    Salon Kitty, dove vederlo?

    Il film è disponibile in noleggio online su Apple iTunes.

  • Nymph()maniac: l’ipersessualità al femminile, secondo Lars Von Trier

    Nymph()maniac: l’ipersessualità al femminile, secondo Lars Von Trier

    Il pensionato Seligman trova Joe, sanguinante e semisvenuta, in un vicolo vicino casa propria: la donna accetta di andare a casa dell’uomo per raccontargli come sia finita lì.

    In breve. Interminabile excursus sull’erotismo e le sue ossessioni, raccontato dal punto di vista di una ninfomane: c’è spazio per considerazioni varie sul genere umano, sui suoi rapporti e sui rispettivi (e spesso discutibili) comportamenti. Per un pubblico adulto, e soprattutto non superficiale.

    Lanciato con un chiarissimo (per chi conosce il regista, quantomeno) “Forget about love“, Nymphomaniac è un trattato nichilista e spassionato sull’erotismo, forse tra i film più controversi del regista danese (e che, per questo, probabilmente sarà davvero capito e rivalutato solo tra qualche secolo anno). Del resto, già conosciamo le sue folli – nel senso migliore del termine – incursioni di genere, oltre alla sua innata capacità – o forse esigenza – di trovare un aspetto “scandalizzante” (ovviamente dal punto di vista dei soliti tromboni) in quasi ogni sua opera.

    Anche in quelle apparentemente più innocenti, come Dogville, figurarsi ora: il dualismo morte ed erotismo è il vero protagonista. Corpi che inizialmente scoprono la sessualità, prima con entusiasmo, poi con massimo ardore e in seguito, inevitabilmente, arrivando a consumare un’agonia straziante, mentre il corpo si logora, si contorce e si ferisce. L’amore ha poco a che fare con questo processo che evoca la dipendenza da una droga, e questo è chiaro soprattutto se conosciamo la tendenza cinica e beffarda del regista nei confronti dei facili sentimentalismi.

    In Nymph()maniac Von Trier racconta la storia di Joe, un’anti-eroina archetipica per un film del regista danese poichè, per sua stessa ammissione, non ha alcuna intenzione di salvarsi (rinuncia all’ambulanza fin dalle prime scene, ed evoca alcuni tratti della Justine di Melancholia). Il film racconta, con un montaggio anti-causale o seguendo lo stream of consciousness della protagonista, la storia della sua vita: la scoperta di essere ninfomane, le prime esperienza con il sesso, l’apice dell’erotismo, la sperimentazione di varie perversioni, l’inizio del degrado (e qui termina la prima parte del film), la crisi dei sentimenti, il declino, l’attrazione morbosa verso il sadismo (le sequenze più crude sono probabilmente qui), la successiva rinascita, il trauma inaspettato poco dopo.

    Un viaggio interminabile, quindi, per un film di quasi 5 ore di durata, che sembrano addiritture poche, tutto sommato, rispetto a quanto e come viene raccontato. Nymphomaniac si troverà, come molti altri film di Von Trier, nelle condizioni ideali di visione avendo l’accortezza (se si può) di non leggere nulla a riguardo, prima di guardarlo.

    L’incontro di Joe incontro con Seligman – archetipo maschile di colto, pacato ed un po’ tontolone “maschio medio” – diventa da un lato seduta psicoanalitica vera e propria (per la gioia degli esperti in materia, of course: a più riprese Von Trier sembrerebbe evocare il primo Cronenberg, quantomeno dal punto di vista dell’approfondimento dei personaggi e delle rispettive perversioni), dall’altro è un modo originale per raccontare una storia che, di per sè, non è altro che un incredibile concentrato di esperienza sessuali della protagonista.

    La stessa Joe che, fin da piccolissima, racconta di aver sempre avuto un’insana attrazione per queste tematiche, tanto da sfregarsi con qualsiasi cosa fosse utile a stimolarla sessualmente (fin da ragazzina), e da chiedere esplicitamente il primo rapporto al suo vicino di casa – di punto in bianco. Nymphomaniacopera omnia dell’ossessione dell’erotismo dai tratti patologici, e anche qui il parallelismo col canadese Cronenberg non sfigura, sebbene solo dal punto di vista “mentale” – nelle mani di qualsiasi altro regista sarebbe diventato un’opera insulsa; con Von Trier di mezzo non può essere così. L’impresa prefissata è quella di rendere significativo un film dai fortissimi tratti erotici, spesso esplicitamente pornografici ma mai, in effetti, gratuiti o non funzionali alla storia. Von Trier delizia il proprio pubblico con montaggi frenetici, narrazione anti-causali, scritte sullo schermo che esaltano determinate scene ed un repertorio di personaggi immenso e davvero complesso da catalogare.

    A contribuire al fascino della storia deve certamente aver contribuito il cast (Udo Kier, Uma Thurman, Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård e Willem Dafoe, solo per citarne alcuni), ma ovviamente è il tipo di storia raccontata ad essere un terreno molto fertile per le provocazioni di Trier. La ninfomania, argomento su cui molti propendono a fare facili (e poco divertenti) battute, viene qui trattata con lucidità e freddezza, per meglio contestualizzare il catalogo di “tipi” umani che probabilmente avremo incontrato anche noi nella nostra vita, e capirne meglio motivazioni e disagio. Un film forse – unica vera pecca – troppo lungo per le intenzioni medie che manifesta ma, a ben vedere, girato magistralmente e, per questo, non certo da biasimare. Le considerazioni da fare saranno tante e, tra un atto di sesso ed un’ennesima perversione mostrata – sono poche quelle che Von Trier non ha preso in considerazione – c’è spazio per la riflessione serie e, naturalmente, per l’inatteso ed imprevedibile finale della vicenda.

    Un twist che è tutto un programma, per quanto è pervaso di pessimismo antropologico, oserei scrivere, da manuale.

  • Dracula cerca sangue vergine… e morì di sete: il decamerotico horror di Margheriti

    Dracula cerca sangue vergine… e morì di sete: il decamerotico horror di Margheriti

    Il conte Dracula arriva nel nostro paese durante gli anni 30, assieme al suo insopportabile assistente, alla ricerca di ciò che in Romania sembra essere molto poco diffuso: giovani fanciulle senza alcuna esperienza in campo sessuale.

    In breve. Un film di Antonio Margheriti (sotto pseudonimo) che propone una variante, a tasso leggermente più erotico della media, al mito del celebre vampiro. Un film di vecchia scuola, influenzato dal gotico italiano ed incentrato interamente sulla ricerca di una giovane vergine italiana per sopravvivere. Grottesco e, quando necessario, sul filone del decamerotico.

    Come si può immaginare, il plot è uno scenario ideale per mostrare fanciulle vogliose di avventure erotiche, in molti casi represse dall’ambiente in cui vivono: le scene di nudo non sono poche, unite a  qualche momento di sesso per l’epoca piuttosto esplicito. Non mancano spunti ironici che rendono il film tutto sommato gradevole. L’atmosfera è puramente settantiana sia nell’ambientazione che nei velati riferimenti politici, espressi ad esempio nella figura del contadino dal bell’aspetto che se la intende con una delle giovani nobildonne. Tanto più significativa dato che nella casetta dove si appartano capeggia una falce e martello disegnata sul muro! Il film sembra dunque avere una doppia lettura: da un lato una metafora della borghesia (la nobiltà, esasperata nella figura di Dracula) che ha bisogno di sangue puro per sopravvivere (il contadino sfruttato, le fanciulle apparentemente innocenti); dall’altra, il perbenismo della maggioranza che cerca di sedurre i facinorosi con lusinghe irrinunciabili (il sesso tra nobildonna ed il contadino).

    “Non ricominciare con il socialismo! Lo sai che mi annoia a morte…”

    Esmeralda, Rubinia , Perla e Sapphiria sono le quattro figlie di nobile famiglia rigidamente cattolica, che nascondono uno strato di vizi insospettabili. Il mito del vampiro, del resto, non consentiva ampi margini di invenzione: Udo Kier è convincente nella parte del conte, mentre il film probabilmente rischia di annoiare un po’ lo spettatore moderno, per via del suo rallentamento (non diverso, per la verità, dalla media del gotico italiano). Ad ogni modo il gore estremo della scena finale vale il prezzo dell’allora biglietto (o del DVD, per i temerari di oggi).

    Per la cronaca, inoltre, si tratta dell’ultima apparizione sullo schermo del grande Vittorio De Sica: tutto sommato godibile, ben realizzato e divertente, anche se leggermente prolisso.

  • TRASGREDIRE: il manifesto dell’eros secondo Tinto Brass

    TRASGREDIRE: il manifesto dell’eros secondo Tinto Brass

    Carla è alla ricerca di un appartamento a Londra da condividere con lo studente di cui è innamorata, Matteo.

    In breve. Un micro-saggio di erotismo del Maestro italiano, semplice nella sua struttura quando significativo all’interno della produzione brassiana. Nonostante alcune situazioni possano sembrare forzate (e questo non aiuta la componente suggestiva), il film è simbolico di un modo di intendere l’eros tuttora attuale.

    Film emblematico della più recente ondata brassiana di erotismo, quella che aveva deciso di attualizzarsi ed abbandonare le ricostruzioni storiche. La figura di Carla, interpretata dalla bellezza statuaria, sublime e abbagliante di Yuliya Mayarchuk (una Musa quasi simbolica – senza slip, con le calze colorate e l’ombrello – di questa fase del cinema di Brass) è la tipica donna che alterna ruolo di dominatrice e dominata, persa tra i meandri di un erotismo che la cerca, senza mai soddisfarla seriamente. Come è sua consuetudine, i toni del film giocano sull’ironia e su un’idea del sesso gioiosa quanto poco preventivabile, e questo a cominciare dal titolo, in bilico tra il tradimento e la trasgressione.

    La figura del protagonista maschile, poi, è apparentemente il tipico tonto medio (che si può apprezzare egualmente nei film di Russ Meyer come Supervixens) in cui paure, educazione e perbenismo gli impediscono di godersi edonisticamente il sesso – cosa che il film sembra invitare il pubblico a fare fin dall’inizio, senza pensieri nè remore.

    Questo è anche un po’ il senso della pellicola, al netto delle numerose scene erotiche (a volte ben costruite e suggestive, altre vagamente forzate o irrealistiche): se all’inizio Matteo impazzisce di gelosia nell’immaginare la propria donna guardata da altri, in una relazione lesbica, di gruppo o etero che sia (e rapito da questa ossessione nemmeno si accorge che Carla vorrebbe fare del sesso telefonico con lui), successivamente sblocca la situazione in modo radicale. Lo fa nell’unico modo realistico: chiedendo alla propria donna di mentirgli, di non raccontargli mai una verità che demolirebbe l’immagine idealizzata di cui è geloso.

    Un piccolo dramma-commedia a tinte fortemente erotiche, forse non il migliore della lunga serie del regista (questo soprattutto per via di interpretazioni non sempre all’altezza della situazione), ma che oggi può essere riscoperto perchè, nella sua leggerezza, di un minimo interesse cinefilo. La versione inglese del film (quella italiana si trova facilmente in rete) è leggermente differente a livello di montaggio, presenta i credits iniziali con il titolo inglese “Cheeky” (in inglese sfacciata/o) e manca del primo minuto iniziale di riprese. Anche la musica di apertura, nell’edizione anglofona, è leggermente differente.

  • Io, Caligola: un film scabroso a sette facce, rinnegato da chiunque

    Io, Caligola: un film scabroso a sette facce, rinnegato da chiunque

    L’imperatore Tiberio sta per morire, e convoca il successore Caligola, suo nipote, dedito ad una vita più dissoluta della sua.

    In breve. Sesso esplicito e violenza nella Roma decadente dell’epoca: ecco la storia di Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico vista dalla regia di Tinto Brass. In verità, questo è vero solo sulla carta. Il film ebbe una produzione travagliatissima, il regista venne licenziato prima della fine dei lavori e ci furono incalcolabili problemi con la censura (e con varie forme di boicottaggio).

    Se la Mirren (che nel film interpretava il personaggio Cesonia) commentò sobriamente dopo la fine delle riprese di “un mix irresistibile di arte e genitali“, Rogert Ebert parlò di “vergognosa spazzatura“, stigmatizzandone la partecipazione di attori di grosso calibro. Il Malcom McDowell di Arancia Meccanica interpreta Caligola, e la scelta sembra essere felicissima – fa anche sorridere che qualche movenza dell’imperatore decadente per eccellenza ricordi quella di Alex, soprattutto quando cerca falsamente di convincere chi teme (autorità o rivali al potere che siano) che la situazione sia sotto controllo. Non valgono a molto, viste oggi, le pesanti critiche che vennero mosse a Caligula, anzi lette oggi sembrano piuttosto fini a se stesse, come spesso accade nel caso di film banditi dal genere umano per scelta di uno o più censori: naturale pensare anche a Morituris.

    Quattro furono gli anni necessari per girare questo film, che in Russia fu vietato fino al 1993, in Australia fino al 1981; bisognerà aspettare il 1984 per la versione uncut vietata ai minori, “lusso” che durò qualche anno, perchè di divieti assoluti ne arrivarono altri due, nel 2005 e nel 2010. In Brasile Io, Caligola venne trasmesso in TV solo parzialmente, per poi sparire per sempre in seguito alle proteste degli spettatori (che non videro mai la seconda metà). In Bielorussia, poi, questo film non circola neanche oggi. Un vero e proprio “bollettino di guerra“, insomma, per uno dei film che – come avvenuto anche per La fortezza di M. Mann, ad esempio. – avrebbero potuto essere qualcosa di memorabile, se solo ci fosse stata unità di intenti e – mi permetto di aggiungere – rispetto delle libertà artistiche.

    Basato su un’idea dello scrittore Gore Vidal, il soggetto è fortemente incentrato su un focus sul mondo dell’omosessualità, che pero’ nella pellicola si nota solo in parte (eufemismo per non scrivere molto poco). Il girato vide un primo cambio di rotta nell’imposizione di Bob Guccione (produttore, oltre che regista, di alcune sequenze aggiunte/manipolate in seguito), il quale temeva, con la scelta di mostrare rapporti gay, di andare contro i gusti del famigerato “grande pubblico”. Per protesta Vidal non volle farsi accreditare tra gli autori, ma venne comunque pagato 225.000 dollari, a quanto risulta.

    Non si può dire che Caligula sia nato sotto una buona stella, e questa prima discrepanza artistica fu solo l’inizio di una storia che vide scandali, licenziamenti, soldi investiti e mai più recuperati, critica schierata militarmente contro il film e via dicendo. Parliamo di quello che, secondo IMDB, fu uno dei film indipendenti (quando fare film indie non era roba da hipster, forse) più costosi della storia, che diede lavoro a più di 1500 persone tra attori, tecnici, addetti ad effetti speciali e via dicendo. Eppure, paradosso dei paradossi, a nessuno sembra importare della sostanza del film, che – sia pur nei suoi eccessi erotici – sembrava addirittura esserci, per quanto un film manipolato ad arte possa consentire. Caligula è significativo ancora oggi per quanto rientri nelle grandi occasioni mancate (e non per colpa di un singolo, beninteso) perchè sarebbe forse potuto essere una delle migliori trasposizioni storico-decadenti sull’Imperatore in questione. Parliamo di pure speculazioni, ovviamente, che mai potremo provare o smentire, ma tant’è.

    Tra gli attori che non vollero farsi coinvolgere nel progetto, per la cronaca, troviamo sia Orson Welles, il quale indicò motivi morali per questi diniego, e Maria Schneider, che aveva iniziato a girare le prime scene – ma che venne sostituita perchè in imbarazzo nel girare le scene di incesto (l’imperatore Caligola aveva infatti una relazione incestuosa con la sorella Drusilia). Del resto le sequenze grevi nel film non mancano: al di là di nudi più o meno artistici o necessari cosparsi in tutto il film, molte sequenze finiscono per evocare una lettura da cinema pasoliniano, dove l’obiettivo è quello di esorcizzare gli abusi del Potere mediante la rappresentazione di sesso e decadenza. Brass (e/o Guccione) non risparmia nulla e mostra scene di sesso di gruppo, omosessuale quanto eterosessuale, inasprendo le stesse in modo imprevedibile (si vede anche una castrazione punitiva, ad esempio, ed una brutale sodomia) e rendendo gli atti stessi quasi indispensabili al mantenimento di un impero che, con Caligola, sembrava avviarsi alla rovina.

    Stai assistendo alla … distruzione dell’Urbe!

    Una delle scene più note, del resto (lo stupro di Proculo e della sua promessa sposa) è una chiara metafora modello A Serbian Film, in cui si condanna e si esemplifica l’arbitrio e la prepotenza del potere (ovviamente personificato da Caligola) nei confronti di chi, come viene detto apertamente, ha come paradossale “colpa” quella di aver servito fedelmente Roma. Se il principio a cui si ispira l’Imperatore è degradato, pertanto, è chiaro che qualsiasi personaggio retto sarà condannato per colpa di un diabolico contrappasso. Ed in quest’ottica la sodomizzazione di Proculo (che McDowell rifiutò di girare, e Brass trasformò in un brutale fisting non inquadrato), probabilmente fu ancora più traumatizzante per lo spettatore. Per inciso, durante la scena in questione, più volte l’Imperatore invita la vittima ad assistere ad occhi aperti, omaggiando implicitamente la cura Ludovico di kubrickiana memoria.

    Io, Caligola meriterebbe, al netto dei dettagli controversi ad ogni latitudine, una riscoperta se non una rivalutazione filologica (ammesso che sia lecito farlo) anche solo per la maestosa interpretazione di Malcom McDowell nella parte dell’imperatore, che arrivò – per dirne una – ad inventarsi una scena di sana pianta, decisamente suggestiva, in cui il personaggio ha una sorta di esaurimento nervoso, giusto mentre invoca Giove sotto la pioggia battente. Per Gore Vidal, pero’, la natura del personaggio sarebbe dovuta essere quella di un uomo buono, corrotto dalla smania del potere; per Brass, più coerentemente con un’antropologia pessimista, Caligola era invece un “mostro nato. Sono noti peraltro dissapori tra Brass e Vidal, in cui il regista italiano lamentava una scarsa filmabilità del soggetto proposto che lo portò a rivedere il senso di molte scene, e rigirarle a modo proprio.

    Salvo poi entrare in contrasto anche con Guccione che, da semplice produttore, pretendeva di avere un (per noi inconcepibile) controllo della regia. Tra l’altro, con una differenza stilistica sostanziale: Guccione sembrava prediligere un film con attori avvenenti e scene pornografiche esplicite per “fare cassa“, Brass – per contestualizzare l’ambientazione decadente – avrebbe preferito filmare brutture, anche nel sesso (pensiamo ad esempio alla donna con tre occhi, decisamente surreale ma efficace in tal senso). L’idea di Brass sarebbe stata, stando a IMDB, addirittura quella di far recitare autentici criminali con la condizionale, per rendere l’idea, mentre il sesso – a differenza di altri suoi film in cui assume una valenza giocosa e liberatoria – sarebbe dovuto essere più shockante che eccitante.

    Come andò a finire è storia: insensibile alla filosofia decadente (e forse a qualsiasi filosofia in generale), Guccione licenziò Brass prima della fine del girato, curando arbitrariamente e senza supervisione l’edit finale, che quindi possiamo considerare un “apocrifo” di Brass (di cui il regista parla, lecitamente, poco volentieri). A quanto pare, inoltre, la fama di “film maledetto” deriva anche dalle scelte del produttore e del tecnico al montaggio Baragli, che decisero di assemblare in modo arbitrario le sequenze e di togliere di mezzo vario girato che, ovviamente, non sappiamo precisamente se il regista avrebbe mantenuto o meno.

    Un film che sembra nato sotto una maledizione, di cui tanti (troppi?) hanno scritto e che nessuno, in effetti, sembra aver davvero visto in una qualche forma final cut. Questo anche per una ragione pratica: la versione italiana è stata mutilata, in alcune edizioni, di tutte le scene erotiche (e di qualcuna porno, presente nell’uncut e forse voluta / girata da Guccione), per cui l’unico modo per vedere una versione simile a quella che si sarebbe voluta è quella di reperirlo in lingua originale su DVD.

    Sulle versioni di Caligula, poi, bisogna fare una breve digressione: sono numerosissime le versioni che circolano di questa pellicola. Wikipedia italiana ne conta sette, di cui quella di 156 min (uncut o integrale, del 1979, di cui pero’ circa 6 minuti sono stati girati da Guccione), ed una da 133 min (versione italiana, del 1984). Esistono almeno due versioni in cui le scene hardcore non sono presenti (che sono ovviamente più brevi), anche se in questo caso è improprio parlare di Director’s cut, visto che fu il produttore ad aver preso il controllo della situazione. Nel Regno Unito, poi, circolerebbe (secondo IMDB) una versione da 2 ore e 39 minuti con le scene hardcore sostituite da altre, che poi sarebbe diventata misteriosamente più corta nell’edizione successiva (1 ora e 42 minuti). Contrariamente a varie voci circolanti sui forum, poi, non esiste alcuna versione da più di tre ore: l’equivoco deriva da una durata indicata erroneamente nel programma del Cannes Trade Festival (da non confondersi con il Festival di Cannes che finisce, ogni anno, sotto i riflettori). Sarebbe quindi il caso (?) di riprendere in mano l’uncut del film, che sono circa due ore e mezza di girato, e vederlo (possibilmente non in presenza di minori ed impressionabili vari) prima di emettere un giudizio.

    Tra le ulteriori curiosità, una sequenza pornografica girata da Guccione dovrebbe coinvolgere Anneka Di Lorenzo (modella di Penthouse ed indimenticabile infermiera in Vestito per uccidere); a quanto pare, la donna fece causa al produttore per molestie sessuali e per avergli rovinato la carriera. La conclusione della storia fu piuttosto beffarda, perchè la donna vinse la causa ma non riuscì mai a recuperare i soldi del risarcimento (se non, racconta IMDB, per la quota simbolica di 4 dollari e 6 centesimi).