La storia dell’incontro tra Carl Jung e Sigmund Freud fa ufficialmente nascere la psicoanalisi, e mette in evidenza una relazione controversa tra il primo e una sua paziente – la futura psicoanalista Sabina Spirlein.
In breve. La nascita della psicoanalisi secondo David Cronenberg, secondo la sua consueta poetica tragico-razionalista, qui ad uno dei suoi zenith espressivi (almeno nella fase recente della sua produzione).
A dangerous method di David Cronenberg si basa sul romanzo quasi omonimo di John Carr, A Most Dangerous Method, incentrandosi sul tema della controversa relazione tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein. Il tutto fa da filtro, in qualche modo, perchè si possa delinare la storia della psicoanalisi in tre possibili declinazioni: quella scientifica di Freud, quella più visionaria e misticheggiante di Jung, quella intimamente rivoluzionaria della Spielrein.
La medesima storia che viene delineata da un altro classico, peraltro, ovvero il Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, e tra i quali si frappone la fredda lucidità scientifica di Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. Sarebbe limitativo ridurre a questo triangolo la visione del film di Cronenberg, che ritaglia una quantità di pellicola relegandola a delinare la figura di Otto Gross, storicamente critico nei confronti di Freud e “demone tentatore” nel suggerire a Jung di assecondare i propri stessi desideri sessuali repressi.
La narrazione delinea due piani differenti: da un lato ciò che istituzionalmente le quattro figure rappresentano (si potrebbe pensare a razionalismo, misticismo, innovazione e trasgressione), dall’altro ciò che i personaggi sono nella realtà (repressi, introversi, traumatizzati dall’infanzia, nichilisti o pragmatici). Su questa ambivalenza si fonda gran parte della psicoanalisi, del resto, oltre a porre uno dei dilemmi morali più controversi (e tabù, se vogliamo), ovvero una relazione sessuale tra due persone “incastonate” in ruoli, per loro natura, subordinati (sarebbe lo stesso se la relazione fosse tra allievo e insegnante, ad esempio). Nell’idea di Cronenberg tale relazione sembra non potersi che sviluppare a livello sado-masochista, per quanto poi la relazione tra la Spirlein e Jung sia mostrata in questi termini più che altro per i vissuti traumatici della donna, in relazione alla violenza coercitiva e gli abusi sessuali da parte del padre di lei.
Quel ricordo traumatico sembra aver costituito le basi della sua stessa sessualità, ed in questo la storia sembra ricondursi alle teorie espresse dallo psicologo contemporaneo Michael Bader nel suo saggio Eccitazione, secondo il quale le nostra fantasie sessuali non qualificano nè possono catturare l’essenza di una persona, ma sono spesso costruite e contrapposte ad un trauma infantile regresso. Non è strano, in altri termini, che una femminista abbia fantasie di dominazione passiva nei confronti di un uomo potente, o che un manager sicuro di sè si ecciti facendo lo slave, proprio perchè si tratta di immagini mentali che fanno trasudare un probabile vissuto traumatico (genitori autoritari, ad esempio) a cui, in qualche modo, si prova a risolvere costruendo sicurezza. E dato che – conclude Bader – senza sicurezza non sembra realmente possibile esprimere la propria sessualità, appare chiaro come la relazione oggetto del film fosse in qualche modo ineluttabile.
Del resto, tornando al film, Jung appare felicemente sposato con una donna mite, affidabile e riservata negli atteggiamenti, ma lo vediamo coltivare un’attrazione inconfessabile per una paziente schizofrenica: attrazione che troverà sbocco in una relazione tra padrone sadico e paziente sottomessa, alla luce delle informazioni che la stessa ha riconosciuto durante la propria terapia.
Rapportato ai tempi una cosa del genere era (e rimane ancora oggi) inconcepibile, chiaro oggetto di gossip nella migliore delle ipotesi: il problema che fa emergere il regista è che rischia pure di minare la credibilità della psicoanalisi stessa (tanto che la storia della relazione è uscita fuori, a quanto pare, solo postuma, mediante il carteggio ricostruito nel libro di Carotenuto). La ricostruzione cronenberghiana è in questo frangente semplicemente perfetta, proprio perchè mostra un dramma irrisolvibile: per quanto uno psichiatra possa fare appello alla propria etica professionale, infatti, l’amore e il sesso sono soprattutto istinto, ed è come se il film suggerisse che da certi sentimenti erotici tempestosi non si possa sempre evitare di essere travolti (su questo bisognerebbe scrivere un romanzo, probabilmente, o affidarsi ai riferimenti bibliografici su transfert e contro transfert).
Che A dangerous method sia un film banale, a questo punto, dovrebbe essere chiaro che è l’esatto opposto, per quanto lo stile narrativo sia tutt’altro che inaccessibile o da film d’essai. Ancora oggi gran parte dei dilemmi posti rimangono, per quello che vale, profondamente dibattuti – o del tutto irrisolti.
Cronenberg prova a mettere ordine tra le varie componenti, senza schierarsi esplicitamente con nessuno dei soggetti, per quanto si ravvisi una piccola empatìa verso Otto Gross, l’elemento di rottura tipico delle storie del regista canadese, interpretato da un mefistofelico Vincent Cassel.
Nella valutazione complessiva dell’opera non si possa prescindere dall’aspetto bibiliofilo (come anche da una conoscenza, anche solo scolastica, del mondo della psicoanalisi), accettando alcune parti chiaramente romanzate rispetto alla storia reale. Ovviamente un film si può guardare senza avere conoscenze specialistiche, e rimarrà comunque la parvenza di una tragedia in tre atti. Nel primo si prova a costruire qualcosa, nel secondo si cede alle passioni umane e nel terzo, in un climax ascendente, si arriva a temere che un singolo episodio possa distruggere completamente l’intera scienza.
È questo il focus che sembra interessare il regista, che resta in grado di mostrare il proprio punto di vista senza orpelli inutili e, soprattutto, raccontando una storia drammatica quanto coinvolgente della più classica delle passioni impossibili. Nello specifico la passione medico-paziente appare inaccettabile (e inevitabile, nello specifico) perchè da un lato le pressioni sociali diventano prima o poi insostenibili per il professionista, mentre dall’altro la paziente rimane nella propria posizione di richiedere aiuto e, di fatto, la sua vita sarà segnata per sempre da quel “primo amore”.
Per una volta il Cronenberg razionalista di altri film cede il passo ad uno più narrativo, più vicino al pubblico generalista e – non per questo – meno valido. Del resto, non è affatto la prima volta che il regista affronta un argomento prettamente clinico, per quanto ovviamente siamo lontani dagli orrori biologici di Rabid, Brood o – dire soprattutto – Inseparabili, dove era presente un dilemma etico di natura quasi analoga.
E se in molti hanno pensato a A dangerous method come ad un film incentrato sulla nascita della psicoanalisi è, certamente, una lettura ammissibile, ma credo che sia anche limitativa. Esso infatti non solo esalta le doti dei tre personaggi storici (il razionalismo di Freud, il misticismo propositivo di Jung, la devozione e lo scrupolo scientifico della Spielrein), ma ne propone anche un ritratto umano, con tutti i limiti, mostrando che di fronte ad un tabù c’è poco a cui potersi opporre. Un tabù generale che riguarda la risoluzione e l’opportunità dei rapporti dettati dalla gerarchia, che far deflagare liberamente come suggerito da Gross (peraltro di fede anarchica, a quanto ne sappiamo) rischia di far deflagare una autentica bomba sociale.
Se il regista canadese ci ha abituato alla rappresentazione più esplicita e orrorifica di queste tematiche, bisogna specificare che A dangerous method fa parte della sua produzione più recente, quella che risulta essere avulsa dal cyberpunk e dalla derivazione body-horror. Non per questo, ovviamente, il film perde il proprio potenziale narrativo, soprattutto nella rappresentazione dell’amore impossibile Jung-Spielrein, da paziente ad amante in un’oscillazione insostenibile e discontinua, fino a degenerare nel più crudele degli amori impossibili (forse dai tempi de La mosca che Cronenberg non proponeva un romanticismo disperato talmente vivido).
Premesso che la totalità dei riferimenti intimi tra gli amanti Jung e Speilrein sono, ovviamente, di natura speculativa – come Cronenberg stesso specificò alla stampa all’epoca dell’uscita del film – è interessante notare come la narrazione della sessualità repressa del personaggio femminile riguardi un trauma infantile, che poi si traduce in una fantasia sessuale incentrata su quel tema. In questo va anche sottolineata la prova attoriale magistrale di Keira Knightley, che interpreta il delirio del proprio personaggio frapponendo varie pause, respiro ansioso e parole frammentate nel proprio discorso. Cosa che, peraltro, continuerà a fare ogni volta che entrerà nel discorso un qualche riferimento alla sessualità, da lei vissuta in modo ansioso e che solo con Jung riusciva a liberare (da qui il legame nuovamente ansiogeno che ne risulterà in seguito).
Nello specifico, è proprio la trascrizione della prima seduta tra la Spielrein (all’epoca in cui soffriva di crisi schizofreniche) e Jung (all’epoca devoto sostenitore del metodo freudiano) a descrivere precisamente una sia fantasia erotica (con i tratti di un incubo, per molti versi). Vale la pena riportarla per intero – la traduzione di alcuni passaggi è orientativa, proprio per via dello stile recitativo adottato – perchè serve, a mio avviso, già da sola a spiegare gran parte del senso del film.
Può spiegarmi perchè le sue notti sono così difficili?
Ho paura.
Di cosa?
C’è qualcosa nella stanza. Qualcosa come… un gatto, solo che può parlare. Entra nel letto assieme a me. L’altra notte ha iniziato a sussurrarmi qualcosa nell’orecchio. Non riuscivo a sentire. Ma poi.. lo sentivo … l’ho sentito contro la mia schiena. Qualcosa di viscido, come una specie di mollusco, che si muoveva sulla mia schiena. Ma poi quando mi sono girata non c’era più niente.
Si muoveva sulla sua schiena?
Sì.
Era nuda?
Sì.
Si stava masturbando?
Sì.
Mi racconti della prima volta in cui ricorda di essere stata picchiata da suo padre.
Suppongo che sia stato quando avevo quattro anni. Per sbaglio ho rotto un piatto, e lui mi ha detto di andare nello stanzino e di togliermi i vestiti e poi… è arrivato lui. E mi ha sculacciata. Ed ero così spaventata che mi sono bagnata, e lui mi colpiva ancora. E allora io…
Quella prima volta… come si sentiva riguardo a quello che stava succedendo?
Mi piaceva.
Può ripetere per favore? Non ho sentito bene.
Mi piaceva. Mi eccitava.
E continua a farlo?
Sì! Sì! E allora ogni volta che mi diceva di andare nello stanzino cominciavo ad essere bagnata. Quando andava dai miei fratelli … solo… li minacciava… mi bastava quello. Dovevo andare sotto, dovevo stendermi e toccarmi. Più tardi a scuola, qualsiasi cosa… l’avrebbe scatenata, qualsiasi… qualsiasi tipo di… umiliazione. Ho cercato qualsiasi… umiliazione. Anche qui quando tu… colpisci il mio… il mio cappotto con il tuo bastone. Dovevo tornare subito, ero così… emozionato. Non c’è… non c’è speranza per me. Sono abietta… e… oscena e… sporca! Devo… non devo mai essere lasciata uscire di qui!
Si tratta della storia di una giovane prostituta che diventa una sanguinaria killer, realmente esistita – nonchè ispiratrice di opere di vario genere e film su di lei (quello di Oshima è il secondo, in ordine cronologico). Una coproduzione internazionale tra Francia e Giappone, girata dal visionario e coraggioso Nagisa Oshima, destinato a suscitare numerose polemiche negli anni a venire e che valse ovviamente una singolare popolarità alla protagonista.
La vera storia di Sada Abe
Sada Abe era una giovane giapponese (nata nel 1905, data di morte non ufficialmente note) che aspirava a diventare una geisha; l’impatto con quel mondo non è dei migliori, in quanto viene relegata a soddisfare sessalmente i visitatori. Nel frattempo impara a suonare lo shamisen come tradizione imponeva e, dopo aver contratto la sifilide, decide di diventare una prostituta a tutti gli effetti. Conosce in seguito Kichizō Ishida, un uomo sposato con cui intrattiene una relazione clandestina: la storia racconta che rimasero a letto assieme per quattro giorni di seguito, e che Sada aveva sviluppato una forma di gelosia possessiva nei confronti dell’uomo, rivelando un’animo profondamente oscuro.
La gelosia diventa minaccia: Sada usa un coltello contro l’uomo per farle capire che fa sul serio e che lo vuole tutto per sè; in seguito, senza mai essere considerata seriamente da Kichizō, lo minaccia di castrarlo, il tutto dopo aver consumato l’ennesimo rapporto. Dopo una nuova notte di passione, Sada soffoca con la cintura il proprio amante fino ad ucciderlo, mediante una forma di asfissia erotica portata alle estreme conseguenze. In seguito castra il cadavere, scrive una frase d’amore con il sangue dell’uomo (Sada e Kichi, noi due), e tre giorni dopo viene arrestata. Al momento della cattura avrebbe affermato che il pene dell’uomo era il ricordo più caro che la legava a quella relazione.
Nella foto di archivio che viene associata al suo arresto Sada sembra sorridere, così come le autorità che l’avevano appena trovata (nel film viene detto che “risplendeva di felicità”: aveva letteralmente il partner, alla fine, tutto per sè).
Tutti dovrebbero ormai conoscere, a quasi cinquanta anni dalla sua purtroppo claudicante distribuzione (dovuta a numerosi problemi con la censura), il mood esplicito e claustrofobico che presenta Ecco l’impero dei sensi fin dalle sue prime sequenze: nudi maschili e femminili in primo piano con nonchalance, corpi che hanno poco di erotico e che sembrano inermi a fronti degli amplessi; in molti casi vediamo anche, a riguardo, inusuali peni flaccidi (la teorica del cinema Isolde Standish si è spinta a sostenere, a riguardo, che questa scelta voglia intaccare l’assunto base della società patriarcale in cui, come in gran parte dell’hardcore sia professionale che amatoriale, il pene non può che essere in erezione). Molte scene di sesso non sono simulate e questo, alla lunga, disturba e fa riflettere anzichè eccitare; amplessi e sesso orale sono letteralmente ribaditi fino allo sfinimento dello spettatore; una protagonista che soffre di eretismo (uno stato clinico di perenne, instancabile e morbosa eccitabilità, il che non la rende troppo diversa dalla protagonista di Nymphomaniac). È altresì impossibile non pensare che film come Moebius siano stati molto ispirati dalla visione di quest’opera, che rimane sostanzialmente su una falsariga identica o molto simile.
La storia raccontata nel film è sostanzialmente fedele alle cronache dell’epoca, e la regia insiste sia sulle nudità (nella versione uncut, quantomeno) che su varie forme di perversioni sessuali, tra cui sadismo, masochismo, voyeurismo e pissing. Gran parte delle relazioni rientrano nel triangolismo:c’è sempre un terzo ad assistere all’amplesso e, in un caso, la cosa diventa vero e proprio cuckolding (triolismo), quando Sada invita l’amante ad avere un rapporto con una geisha più anziana per poter assistere alla scena.
Sinossi del film
Si racconta di un hotel in cui la giovane ex prostituta protagonista va formalmente a lavorare come cameriera. Nelle sequenze iniziali viene molestata da un’altra ragazza dell’hotel, alle cui avances risponde con fastidio. Notata dal proprietario, inizierà una passionale relazione clandestina con lui, basata sulla concretizzazione di fantasie sessuali di vario ordine e grado. Non ultimo, quella per cui il rapporto diventa quasi equivalente a quello tra una mistress e uno slave.
Spogliati! Non sopporto di vederti vestito.
Il rapporto è basato sull’idolatria reciproca (almeno all’inizio), sull’autoindulgenza esasperata (i due partner acconsentono a qualsiasi desiderio dell’altro, in modo sostanzialmente passivo, e indulgendo sempre più sull’abuso e sulla violenza) finchè la relazione non si capovolge inesorabilmente: Kichizo, da ricco proprietario sicuro di sè (nonchè simbolo della potenza fallica) diventa remissivo, sempre più sottomesso ai desideri di Sada, la quale – da ragazza timida e riservata – appare sempre più insaziabile, tanto da esigere ripetuti rapporti e una costante erezione da parte dell’uomo. Allo zenith della possessione, Safa prende possesso del corpo dell’uomo e minaccia apertamente Kichizo: se avrà altri rapporti con sua moglie, lo ucciderà. La relazione diventa sempre più aperta e priva di inibizioni, tanto da prevedere rapporti dei due anche in presenza di sconosciuti.
A dispetto del suo impianto visivo esplicito e – solo in apparenza – assimilabile ad un film erotico o addirittura pornografico, Ecco l’impero dei sensi si colloca tra vari rimandi alla cultura giapponese, a cominciare dalla figura delle geisha (芸者), artiste tradizionali in grado di suonare (come si vede più volte nel film) e danzare, spesso confuse con prostitute di lusso per quanto il loro ruolo non preveda, formalmente, nulla di sessuale. Il contesto è fondamentale per inquadrare una trama che si ambienta all’inizio del novecento e che, è bene tenerlo a mente, si basa su una vera storia. Se è vero che la prima metà del film può risultare difficile da seguire senza abbandonarsi a considerazioni spicciole, è la seconda che mostra l’autentico climax che rende L’impero dei sensiuno dei capolavori del cinema erotico: la relazione tra i due non è solo sesso, ma è diventata amore non corrisposto (Sada che esplode in un pianto liberatorio durante l’ennesimo amplesso), e nel contempo esce fuori la futilità delle altre relazioni mostrare (quella tra Sada e l’insegnante che la rifiuta pubblicamente).
Alla base di In the Realm of the Senses vi è una chiave di lettura di tipo psico-sessuale, che prende ispirazione almeno in parte dagli scritti di Georges Bataille. Dell’erotismosipuòdire – scrive il filosofo e antropologo nel suo saggio L’erotismo –cheessoè[…]l’erotismoèl’approvazionedellavitafindentrolamorte.In effetti,benchél’attivitàsessualesiaall’inizioun’esuberanzadi vita,l’oggettodiquellaricercapsicologica,indipendente,comeho detto,dalpropositodellariproduzione,nonèaffattoestraneoalla morte.” per giustificare questo bizzarro paradosso, l’autore richiama l’attenzione di chi legge agli scritti del marchese De Sade, per il quale “ilmodo miglioredifamiliarizzareconlamorteè quello dilegarlaaun’idea libertina“. Il che è esattamente quello che fa la sceneggiatura di Nagisa Ōshima, nel rappresentare una relazione clandestina che non sfigurerebbe, per come viene presentata, in un qualsiasi film erotico, mentre sono i significati delle frasi stesse pronunciate negli scarni dialoghi a cambiare senso: su tutti, non ci lasceremo più, affermazione e richiesta topica per qualsiasi amante che verrà interpretata fin troppo alla lettera.
Può anche esistere un riferimento alla classica penisneid freudiana, l’invidia del pene, resa esplicita dalla sequenza – poco ricordata dai più – in cui Sada si ritrova a giocare con due bambini, scorge la nudità del maschietto e ne prova un’attrazione che fa emergere un pesante senso di colpa. La penisneid in questa veste potrebbe essere stata rappresentata dal regista in modo letterale, così come il complesso di castrazione affliggerebbe – dualmente – il protagonista maschile, a proprio agio con qualsiasi pratica sessuale quanto ossessionato, paradossalmente, dall’idea di perderlo per sempre. La liberazione di Sada avviene, non a caso, durante l’asfissia erotica che porterà la morte, in cui Sada afferma in estasi di avvertire il fallo “muoversi da solo dentro di lei”, conferendogli l’autonomia che tanto agognava e dando una motivazione al “taglio di coda” finale. La morte del protagonista, peraltro, viene vista dal regista come un sacrificio necessario, quasi un gesto di liberazione che l’uomo quasi accetta di buon grad, nella disperazione di non poter più reggere quella relazione.
Per quello che ne resta oggi, vale la pena anche l’assonanza sintattica – forse randomica – tra De Sade e il personaggio di Sada (che si rivelerà giusto una sadica possessiva, a dispetto di una relazione padrone-domestica che ha inizio in termini invertiti; in questo, potrebbero esserci degli echi del personaggio di Asami, visto in Audition di Takashi Miike), ma anche tra eretismo ed erotismo, a suggellare un potenziale legame semantico tra i due che, se fosse vero, renderebbe il sesso inquietante per definizione, a qualsiasi latitudine.
La lettura di Jacques Lacan
Nel libro Seminario XXIII – IL SINTHOMO, relativo ad uno dei suoi numerosi seminari aperti al pubblico, Jacques Lacan affronta una lettura psicoanalitica degli scritti di James Joyce, e da’ un significato profondo al flusso di coscienza che era in grado di produrre i suoi lavori. Nel capitolo XVIII (Del senso, del sesso e del reale) Lacan racconta al pubblico di aver visto Ecco l’impero dei sensi durante una proiezione privata, nel marzo 1976, quando il film non era ancora nemmeno uscito nelle sale. Lacan vede nel personaggio di Sada Abe l’erotismo femminile spinto all’estremo, quale delirante presenza fantasmatica che, dopo aver ucciso il partner, lo evira e si porta via il membro (“la coda”, come viene ironicamente chiamata dallo psicoanalista).
Viene da chiedersi perchè non l’abbia fatto prima, suggerisce Lacan, ed il motivo è legato sia ad una forma di consumo della relazione – che è sempre più ossessiva, claustrofobica e insostenibile per lo spettatore e per il protagonista – che non può che culminare nella morte, unita all’esigenza di possedere ciò che ha reso la relazione stessa feticistica, ovviamente il pene del padrone. La castrazione diventa orrendamente sostitutiva dell’uomo e della sua sessualità, si arriva alla conclusione che non possa esistere un Altro con cui fare l’amore: l’uomo fa l’amore col proprio inconscio, come dovrebbe essere evidente anche dalla pratica dell’autoerotismo, mentre La Donna prolifica, come un dio, proprio come vediamo nel film. Tanto da potere e volere disporre a piacimento del corpo maschile, imponendosi con una violenza che è prima mentale e psicologica e poi, di conseguenza, fisica.
Censura del film
Il film ebbe una distribuzione complicata già all’epoca dell’uscita: in Giappone venne bloccato all’origine, il regista subì un processo da cui venne assolto negli anni 80 e non uscì prima dell’anno 2000; in Italia la Medusa si era impegnata a far uscire il film con dei tagli di censura, ma la Commissione decide contro la distribuzione, “in considerazione del quasi ininterrotto susseguirsi di accoppiamenti e perversioni sessuali, spesso rappresentati attraverso l’esposizione di nudi integrali e di dettagli anatomici dei protagonisti, ciò che – unitamente al clima di esasperato erotismo che caratterizza la vicenda – rende il film nel suo complesso, oltre che nelle singole scene, contrario al buon costume“. Altro che Bataille, Lacan, psicoanalisi, parafilie e questione fallica: Ecco l’impero dei sensi viene bollato all’istante come film letteralmente “maleducato”, e anche i successivi tentativi di farlo circolare non vanno a buon fine. Fu disponibile sul mercao una versione tagliata per altri anni ancora, fino al 2003 in cui finalmente arriva la versione uncut a cura della Ripley’s Home Video. (fonte)
Le scene di sesso non simulato
Da un lato il film parte dai presupposti tipici di ogni fantasia erotica: una persona comune che viene coinvolta in un’esperienza sessuale che assume, per molti versi, il carattere di un gioco ossessivo e ripetitivo, di un esperimento che presto sfuggirà di mano. Una cameriera che diventa oggetto di attenzioni sessuali, nello specifico, che è un topos classico per molte situazioni del genere, il quale peraltro vìola scabrosamente sia la relazione coniugale dell’uomo che – forse soprattutto – il tabù della relazione interpersonale tra padrone e persona di servizio, il che rende ancora più significativo, inaccettabile e problematico l’instaurarsi del rapporto. Gli amplessi ripetuti, ostentati, riproposti con la fredda camera che li ripropone come un ossessivo di flusso di coscienza, creano un disagio interiore nello spettatore che nessun film pornografico, neanche il più audace o estremo, sarebbe probabilmente in grado di proporre in quella veste. L’impero dei sensi è psicoanalisi erotica nella forma più raffinata, sfruttando una forma cinematografica che potrebbe essere ricondotta ad una sorta di neorealismo erotico.
Il godimento degli attori è reale, sia in senso simbolico che sostanziale: manca la dimensione ostentativa tipica dei film hard, in cui il gemito è urlato, tanto da apparire irrealistico, pura forma, uno status symbol, un modo per rendere didascalico l’amplesso (“attenzione: noi stiamo godendo!“), un modo per far capire senza equivoci al più ingenuo degli spettatori quello che si fa. Oshima si libera di questi orpelli – a loro modo tanto terrificanti quanto de-sensualizzanti per il genere – e ribalta qualsiasi assunto stereotipato: la forza de L’impero dei sensi, pertanto, non si limita a costruire presupposti tipici dei film erotici in cui le relazioni di potere sono simboleggiate in termini sessuali (Salon Kitty, per intenderci). C’è anche questo ma si va olte: Oshima rappresenta un sesso autentico, non simulato, realistico al massimo, anche a costo di de-sensualizzarlo, mostrare erezioni tutt’altro che perfette, ostentare sesso orale che sembra non avere alcuno scopo, rendere progressivamente l’impianto scenico sempre più esplicito e sempre meno eccitante. Eppure l’esperienza sessuale del singolo non è troppo diversa da quella rappresentata, in quanto è a volte segnata da equivoci, richieste non facili da accondiscendere o negare (la richiesta di essere soffocati, ad esempio), immaginari, situazioni e gradi di coinvolgimento che possono essere, in alcuni casi, sulla falsariga di quanto rappresentato nel film. E poi gli imbarazzi, i fastidi, il sesso che si consuma all’infinito ma poi non basta più, la perenne insoddisfazione interiore, l’attrazione fisica che muta serpentinamente in desiderio di possesso, esclusività e gelosia dell’altro. Chiunque non abbia ancora visto L’impero dei sensi, in altri termini, farebbe bene a provvedere quanto prima: perchè la sua forza ed il suo quid (sociale, politico e figurativo) sono ancora oggi molto attuali, tanto più che si parla di sesso e relazioni in maniera ancora problematica, e quella di Oshima è una buona doccia gelata per le nostre coscienze.
Per quanto non si tratti ovviamente di un film mainstream, data la sua forma in grado di sfidare la comune convenzione (il regista disse a riguardo che “L’impero dei sensi è diventato il perfetto film pornografico in Giappone, perchè non può essere visto. La sua stessa esistenza è pornografica, indipendentemente dal contenuto. Una volta visto, L’impero dei sensi non sarebbe più tale…”), unita la sua reperibilità non elevatissima (su Prime Video di Amazon, ad oggi, è disponibile con l’abbonamento a MUBI), Ecco l’impero dei sensi ha fatto scalpore per via delle numerose e ripetute scene di sesso reale.
Una scelta che non può essere casuale, ovviamente, e che non ha risparmiato censure e blocchi in vari paesi mondiali, sempre per motivazioni censorie. Il film contiene scene di attività sessuale non simulata tra gli attori, tra cui Eiko Matsuda e Tatsuya Fuji. La circostanza nel ginema è stata tutt’altro che infrequente, a ben vedere, dato che esistono almeno altri 273 film non pornografici (fonte: Wiki inglese) contenenti scene di sesso reale incluse nel girato. La lista che abbiamo reperito ad oggi include i seguenti titoli (sono riportati il più delle volte i titoli internazionali, quelli italiani solo qualora disponibili).
They Call Us Misfits
Blue Movie
99 Women
Double Face
Quiet Days in Clichy
Groupie Girl
The Deviates
Bacchanale
Kama Sutra ’71
Cry Uncle!
Slaughter Hotel
A Lizard in a Woman’s Skin
Luminous Procuress
Secret Rites
A Clockwork Blue
Pink Flamingos
Who Killed the Prosecutor and Why?
La verità secondo Satana [it] (lit. The Truth According to Satan)
So Sweet, So Dead
The Red Headed Corpse
Commuter Husbands
Delirium (Delirio caldo [it])
Christina, the Devil Nun (Cristiana monaca indemoniata [it])
I Jomfruens tegn [da] (Danish Pastries)
Ingrid sulla strada [it] (Ingrid the Streetwalker )
Thriller – A Cruel Picture
Revelations of a Psychiatrist on the World of Sexual Perversion (Rivelazioni di uno psichiatra sul mondo perverso del sesso [it])
A Scream in the Streets
The Devil in Miss Jones
Fleshpot on 42nd Street
The Other Side of the Mirror (Al otro lado del espejo [es], Le Miroir obscène [fr], Al otro lado del espejo [it])
Sinner: The Secret Diary of a Nymphomaniac (Le Journal intime d’une nymphomane [fr])
Se c’è una certezza radicata in qualsiasi film anni 70 è l’espressività del titolo, l’uso di frasi che sanno di sentenza e che esprimono l’essenza della trama. Sbatti il mostro in prima pagina, è proprio uno di questi, sulla falsariga de La classe operaia va in paradiso e Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Siamo nella Milano degli anni di piombo, e un inquietante fatto di cronaca viene innestato con i subbugli e le assemblee politiche del periodo.
Il giornale è un quotidiano politico di destra (solo omonimo di quello che uscirà due anni dopo, fondato da Indro Montanelli), formalmente una voce pacata e concisa. È quello che sentiamo affermare a Bizanti, giornalista manipolatore del quotidiano interpretato dal camaleontico Gian Maria Volontè.
Sono gli anni 70, e Milano è in subbuglio, incendiata dagli scontri tra gruppi extraparlamentari: uno di questi colpisce a molotov e sassate la sede del quotidiano. Il gesto viene immediatamente strumentalizzato dalla redazione, che si appella al questore per ottenere quella protezione che, si fa intuire, devono essersi meritati grazie alla propria linea editoriale.
Nella sceneggiatura concepita da Sergio Donati e Goffredo Fofi, zeppa di riferimenti a fatti di cronaca realmente avvenuti (come il caso Valpreda, le bombe dei terroristi e la morte di Giangiacomo Feltrinelli), alla base di tutto vi sono le imminenti elezioni che, senza mezzi termini, il direttore ed il principale finanziatore del quotidiano intendono pilotare. A contrapporsi a Bizanti vi sarà un giornalista integro quanto strumentalizzato, che scoprirà le trame ed i reali intenti della redazione: fomentare il populismo e l’odio del lettore verso un nemico comune, per evitare la vittoria delle forze di sinistra alle elezioni. Bizanti, come se non bastasse la sua carica reazionaria e priva di scrupoli, arriva anche ad ispirarsi e a citare Göbbels, il quale “diceva nei suoi diari che le masse sono molto più primitive di quanto possiamo immaginare. La propaganda quindi deve essere essenzialmente semplice, basata sulla tecnica della ripetizione, tecnica peraltro modernissima, mandata avanti dalle agenzie americane. Unique selling proposition: unica proposta di vendita“. In questo senso, Sbatti il mostro in prima pagina è, nonostante l’età, un film profondamente moderno ed ancora molto attuale.
L’occasione è subito sul piatto: il caso di omicidio e stupro di una ragazza, per cui si trova immediatamente un imputato di comodo, Mario Boni (reso credibile mediante l’infiltrazione degli stessi giornalisti), militante nelle fila della sinistra extraparlamentare.
“Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all’informazione, ma mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici. Se poi me lo unisci alla parola “disoccupato”, “disperato disoccupato”, beh, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione. Scrivi:”Drammatico suicidio”. “Drammatico suicidio“, due parole. “Di…” Cos’è, un calabrese, il poveretto?Ecco, “…di un immigrato“. “Immigrato”, una parola sola, che contiene implicitamente il “disoccupato” e il “padre di cinque figli”, ma dà anche un’informazione in più.
Nella sua interpretazione, Volontè è ancora una volta un convincente quanto terrificante protagonista, abile con le parole quanto subdolo, in grado di impersonificare il potere dell’informazione che oggi, soprattutto grazie ad internet, è esasperato all’ennesima potenza.
La regia di Bellocchio è quasi quella di uno spy movie, abile a mostrare una società che stava cambiando e che è ricca di informatori in incognite, autorità repressive ed infiltrati. Il tutto intervallato dalle prime pagine del giornale, sempre più reazionarie ed inquisitrici nei confronti del movimento a cui Mario Boni apparteneva.
L’autorevolezza di qualsiasi giornalista, da sempre in discussione fin dall’epoca dell’uscita del film, viene criticamente messa in discussione come la credibilità delle autorità: da un lato giornalisti caustici e conservatori, dall’altro forze dell’ordine dai metodi decisamente al di sopra della legge. La borghesia dell’epoca viene rappresentata come un mostro globalizzato dalla parvenza mostruosa, pronto a fare appello al disordine morale ed alla decadenza dei costumi per provare ad imporre una società sempre più autoritaria. Si può, come sempre, essere d’accordo o meno con la sostanza espressa dal film, ma una regia impeccabile e ritmata, che eredita da più generi la propria essenza: spionaggio, giallo, neorealismo e via dicendo.
Tra le numerose analisi che sono state fatte su questo capolavoro nichilista di Pier Paolo Pasolini da tempo sono convinto che la parola chiave del film sia più Salò, che aiuta storicamente a contestualizzare la violenza rappresentata, che Sodoma (che è un richiamo al limite biblico). Sodoma è una città menzionata nell’Antico Testamento, principalmente nel Libro della Genesi. Insieme a Gomorra e ad altre città, Sodoma è stata distrutta a causa della sua empietà e della sua depravazione morale. Ne potrebbe rappresentare, al più, l’aspetto simbolico, il significato che si è voluto dare alle ben note violenze e depravazioni rappresentate, le quali – vale la pena di ricordarlo nella premessa, a nostro avviso – sono in effetti una rappresentazione degli abusi della gerontocrazia e del patriarcato entrate da mesi nel dibattito pubblico.
I ragazzi che vengono imprigionati non hanno speranza, fin dall’inizio: viene premesso che si tratta di deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti. E quella morte assoluta, simbolica e reale, esprime il paradosso che Pasolini stesso ebbe a dire: i giovani non capiranno questo film, quelli d’epoca benintenso, e probabilmente neanche quello di oggi (ci viene da aggiungere).
Spiegare il significato di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” a un ragazzo di oggi può essere delicato, dato il contenuto estremamente adulto e disturbante del film. Bisogna tener conto della sensibilità e dell’età del ragazzo. Tuttavia, in termini generali, si potrebbe dire che il film di Pasolini affronta temi molto profondi e oscuri riguardanti il potere, la corruzione e la degenerazione umana.
Il film parla di quattro fascisti che assumono un controllo totale su un gruppo di giovani, utilizzandoli per soddisfare i loro desideri più perversi. Può essere interpretato come una critica alla malvagità e alla brutalità del potere, mostrando come coloro che detengono il controllo assoluto possano abusare in modo orribile delle persone più vulnerabili.
Inoltre, il film può far riflettere sui concetti di degrado morale, perdita di umanità e sulla capacità delle persone di compiere azioni malvagie quando detengono il potere totale su altri.
Per spiegare questo film a un ragazzo, potrebbe essere utile enfatizzare l’importanza della responsabilità, della compassione e dell’empatia. Si potrebbe discutere dell’abuso di potere e delle conseguenze dell’oppressione sugli individui, incoraggiando una discussione sull’importanza di promuovere una società basata sul rispetto reciproco e sulla giustizia.
Tuttavia, a causa della natura estremamente adulta e disturbante del film, è essenziale valutare se sia appropriato o meno per l’età e la maturità del ragazzo in questione. Potrebbe essere più adatto concentrarsi su temi più leggeri e accessibili, in modo da garantire una comprensione appropriata e una discussione che sia adatta al suo livello di età e comprensione.
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” è considerato uno dei film più controversi e provocatori nella storia del cinema per la sua rappresentazione cruda e disturbante della violenza e della depravazione umana. Pasolini ha voluto creare uno sguardo critico sulla società e sul potere, ma la natura estrema del film ha portato a una vasta gamma di reazioni, spesso negative, da parte del pubblico e della critica.
Pier Paolo Pasolini venne assassinato prima dell’uscita di questo film: Pino Pelosi è indicato come responsabile, viene arrestato, ritratta varie volte la propria versione e non fu mai chiarito se l’omicidio sia avvenuto per sua manu o per colpa di altri sconosciuti presenti sul posto.
Salò
La città di Salò fu sede del governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), un regime fascista di Adolf Hitler ,durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. La scelta di ambientare il film durante questo periodo storico specifico è intenzionale e significativa: Salò è diventata nota per essere stata la sede del governo fascista dopo che Mussolini venne destituito e arrestato nel 1943. Durante questo periodo, l’Italia era divisa in zone controllate dai nazisti e da altre forze alleate, e la RSI operava come una sorta di enclave fascista.
Pasolini ha ambientato il suo film in questo contesto storico per mettere in luce l’abuso di potere, la corruzione e la degenerazione morale del regime fascista. L’orrore del film è l’orrore del potere abusante che non deve tenere conto di nulla e di nessuno. La rappresentazione delle perversioni sessuali si ispirano a De Sade, come note, e rendono la sessualità un inferno, un sinonimo di abuso, tanto marcato e spinto all’estremo che diventa difficile guardare una seconda volta Salò dopo averlo vista la prima. Ma non bisognerebbe perdere d’occhio la localizzazione storica: la scelta di usare Salò come sfondo per la storia è simbolica della disgregazione etica e della decadenza umana sottolineate nel film, nonchè del fatto che il fascismo continua a serpeggiare tra di noi.
Il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è stato diretto dal regista italiano Pier Paolo Pasolini ed esce nel 1975, poco dopo la morte del regista. Viene sequestrato quasi subito, è oggetto di infinite polemiche e divieti, fino alla sua riabilitazione e restauro successivo.
Trama
Il film è ambientato durante la Repubblica Sociale Italiana del 1944, durante gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Quattro potenti fascisti, noti come “Il Presidente”, “Il Magistrato”, “Il Vescovo” e “Il Duca”, organizzano un regime sadico e depravato in una villa isolata, dove rapiscono giovani uomini e donne per soddisfare i loro desideri sessuali e per esercitare il loro totale controllo su di loro. Questi prigionieri sono sottoposti a abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche estreme.
Il film è diviso in quattro parti, ognuna corrispondente a una delle quattro passioni umane principali: la sodomia, il sadismo, il necrofilia e l’omaggio finale alla volontà dei signori.
Cast principale
Il cast del film include attori come Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle e Aldo Valletti nei ruoli dei quattro fascisti. Tra gli attori principali ci sono anche Hélène Surgère, Caterina Boratto e Elsa De Giorgi, che interpretano le figure femminili coinvolte nella storia.
Alcune locandine del film
Narrazione
Il film è basato sul romanzo del Marchese de Sade “Le 120 giornate di Sodoma”. Pasolini ha usato il racconto del marchese nel contesto politico dell’Italia fascista, utilizzando la storia per commentare su vari aspetti della società, inclusi il potere, la corruzione, l’abuso e la violenza.
La pellicola è estremamente controversa per le sue rappresentazioni esplicite e crudeli di violenza sessuale, tortura e umiliazione. È stata oggetto di censura e divieti in molti paesi per lungo tempo a causa della sua natura estremamente spaventosa.
Produzione
Il film è stato girato in diverse location in Italia, tra cui una villa nella città di Bologna. La realizzazione è stata caratterizzata da un budget limitato e da condizioni difficili durante la produzione.
Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.
In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.
Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).
Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .
Primo episodio
Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana
Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.
Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?), del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.
Secondo episodio
Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia
Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).
L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.
Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.
Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).
Terzo episodio
Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento
La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.
Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.
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