TECNOCRAZIA_ (51 articoli)

La tecnocrazia si riferisce a un sistema di governo o di organizzazione sociale in cui il potere decisionale è affidato principalmente a esperti tecnici o specialisti nei rispettivi campi, piuttosto che a politici o rappresentanti eletti.

  • Guida breve al tecno-pessimismo

    Guida breve al tecno-pessimismo

    Tecnopessimismo in chiave pop, ovvero: Black Mirror. Una vision profondamente critica quanto radicale sulle nuove tecnologie, immersa nella cultura quotidiana in un formato accessibile, portata avanti con rigore quasi scientifico dagli episodi prodotti e ideati da Charlie Brooker. Non ci fu molto da discutere, all’epoca: le incursioni hacker nella vita di ogni giorno erano plausibili, realistiche. Rappresentavano un orrore tecnologico onnipotente, reale, effettivo, con numerosi e variegati personaggi immersi (loro malgrado) in paludi di bit, pronte ad afferrarli per le caviglie.

    Divennero epitomo del rischio che i nostri dati privati finiscano in rete, e ci possano rimanere per sempre, esponendoci al pubblico ludibrio, al doxxing, al cyberbullismo. Soprattutto, c’è da puntualizzare, quelle scene erano lontane dalla plasticità stereotipata con cui si rappresentava, ad esempio, un hacker ridotto ai minimi termini, privo di spessore – come quello presente in Codice SwordFish intento a superare prove grottesche e inverosimili: hackerare in diretta, con una pistola puntata in testa nonchè durante un rapporto orale (sic).

    Poi c’è la realtà di ogni giorno. Non ci sono certezze a riguardo, ma viene da pensare che i toni edulcorati e mitologici di certe opere non siano più applicabili. Niente più anti-eroi interpretati da attori celebri, neanche più classiche pornostar; c’è spazio per eroi quotidiani come Joker, al limite per qualche star di OnlyFans.

    Siamo ben lontani dal classico perchè sappiamo quanto sia dura e indifferente la realtà, soprattutto da quando si è disvelata la blogosfera nella sua essenza più realistica: quella dei social, fatta di hacker più beceri e materialisti che mai, lontani da qualsiasi stereotipo idealistico, più simili al personaggio di Jenkins di South Park o, al limite, a Jeff Albertson dei Simpson che al personaggio interpretato da Hugh Jackman all’epoca. Da un punto di vista etico, hacker meno votati dogmaticamente al bene / al male di quanto le comuni narrazioni mainstream impongano.

    Vale anche la pena di osservare – perchè non è un aspetto da poco – che gran parte della saggistica tecno-pessimista (e delle posizioni che ha generato, in modo diretto o indiretto) proviene da autori che non sono di formazione tecnologica, e che tendono a diagrammare la questione senza conoscere l’effettivo stato dell’arte –  senza neanche volerlo conoscere, a volte. Conoscerlo sarebbe essenziale, del resto, per avere un’idea di quantificazione anche grossolana del rischio, cosa su cui qualsiasi autore glissa e non sarebbe in grado di suggerire se il rischio sia 10, 100 o 1000: ci si limita a ridurlo ai minimi termini per superficialità, in certi casi, oppure al contrario a esacerbarlo, a volte per scopi di clickbait. Quanti articoli vi è capitato di leggere sul tema del tecno-pessimismo che raccontavano di IA pronte a schiacciare il genere umano, salvo poi rendersi conto che quella tecnologia era ancora in corso di sviluppo, era solo una speculazione di qualche guru o miliardario di turno, oppure non era ancora nemmeno stata messa in atto?

    Scriveva Theodore John Kaczynski (giornalisticamente parlando: Unabomber) nel 1995:

    Il continuo sviluppo della tecnologia peggiorerà la situazione. Essa sicuramente sottometterà gli esseri umani a trattamenti sempre più abietti, infliggerà al mondo naturale danni sempre maggiori, porterà probabilmente a una maggiore disgregazione sociale e sofferenza psicologica e a incrementare la sofferenza fisica in paesi “sviluppati.

    Sia pure tenendo conto della sua biografia – dalla quale ovviamente non si può prescindere – è difficile dare totalmente torto a quelle affermazioni, che costituiscono forse uno dei testi più celebri in ambito anti-tecnologico. Una posizione tutt’altro che minoritaria, oggi, grottescamente anche sugli stessi social, dove in molti sembrano richiamarsi a quelle idee riuscendo, vale la pena puntualizzarlo, a tenerne fede solo in parte. Forse perchè il dado è già tratto da anni, e le nuove tecnologie sono già parte di noi, innestate nel nostro organismo come in un racconto di Gibson. Anche qui al netto degli stereotipi e di ciò che suggerisce l’intuito, la rivoluzione prefigurata da Kaczynski non sarebbe stata per forza violenta, da quello che desumiamo nei suoi scritti: il suo obiettivo (citiamo) sarà quello di rovesciare non i governi, ma i principi economici e tecnologici. O forse, come ha suggerito Giorgio Ruffolo non è la tecnologia che andrebbe demonizzata, bensì i principi economici che la regolamentano.

    Il problema non è di agevole soluzione e quel che è peggio, a conti fatti, è che il tecno-pessimismo non è una posizione nè minoritaria nè agevole da smontare come fosse una bufala qualsiasi. Un problema c’è, risiede nel rimosso di ognuno di noi, e stiamo probabilmente tardando il momento di affrontarlo a dovere. Riprendere a considerare le tecnologie come mezzi e non come fini, ad esempio, può essere una potenziale piccola strategia per cominciare.

  • Trattato digitale sul meme “Click Click”

    Trattato digitale sul meme “Click Click”

    Il meme “Click Click” di Mr. Lovenstein è una delle vignette create da J. L. Westover, in arte Mr. Lovenstein. Questa specifica striscia è apparsa per la prima volta online ed è diventata virale grazie al suo umorismo nerd e alla sua semplicità. In generale le strisce di Mr. Lovenstein si distinguono per:

    • Humor Nero: spesso presentano situazioni quotidiane che sfociano in un risvolto inaspettatamente oscuro o umoristico.
    • Minimalismo: disegni semplici, con colori vivaci, che si concentrano principalmente sui personaggi e le loro espressioni.
    • Narrazioni di vita quotidiana: storie ed esperienze comuni, che molti lettori possono trovare familiari o divertenti.

    Il meme di Mr. Lovenstein a cui ti riferisci raffigura una situazione comune in cui un utente frustrato clicca compulsivamente sul mouse a causa di un errore del computer.

    Traduzione della vignetta di lipercubo.it – Tutti i diritti riservati all’autore.

    Descrizione della Vignetta

    1. Un omino è seduto al computer, che mostra una finestra di errore. La finestra indica che qualcosa non sta funzionando correttamente.
    2. L’omino inizia a cliccare rapidamente con il mouse, accompagnato dal suono “click click click” ripetuto, esprimendo la sua frustrazione e il desiderio di risolvere il problema in fretta.
    3. L’omino continua a cliccare compulsivamente.
    4. Dopo molti click, il computer risponde con un messaggio che dice che il problema è stato risolto grazie ai 317 click effettuati dall’utente, circostanza ovviamente ironica e falsa nella realtà.

    Il meme cattura perfettamente la frustrazione comune di chiunque abbia mai avuto a che fare con un computer bloccato o un programma che non risponde. La reazione di cliccare freneticamente sul mouse o sulla tastiera è una risposta quasi automatica e universale che molti utenti possono capire e trovare divertente. L’umorismo della vignetta risiede nella risoluzione assurda del problema: il computer “riconosce” i click compulsivi come una soluzione efficace. È una parodia della nostra lotta quotidiana con la tecnologia, dove spesso le soluzioni sono molto meno dirette e più frustranti di quanto vorremmo.

    La popolarità dei meme è aumentata perché molti utenti del web si sono identificati con la situazione presentata nel fumetto. La combinazione di illustrazioni semplici e un punchline efficace rende questo meme un esempio classico dello stile di umorismo di Mr. Lovenstein, che gioca spesso con temi di frustrazione quotidiana e interazioni sociali imbarazzanti.

    Altri meme assimilabili al concetto di click compulsivo (click click) sono riportati di seguito.

  • L’Apocalisse è entrata su Google Trends

    L’Apocalisse è entrata su Google Trends

    Apocalisse su Google. Letteralmente.

    Per chi non lo sapesse, Google Trends è uno strumento di analisi fornito da Google che consente agli utenti di esplorare e confrontare i volumi di ricerca delle parole chiave e delle query di ricerca su Google. Questo strumento consente di visualizzare le tendenze di ricerca per determinate parole chiave nel tempo e in diverse regioni geografiche. In parole molto semplici, permette di vedere in tempo reale cosa cercano maggiormente le persone su Google. E oggi dopo i violentissimi temporali a Milano e in zone limitrofe cercavano “apocalisse significato“.

    In ambito di marketing è frequente provare a definire, in caso di trend così atipici, il percorso che hanno fatto gli utenti per arrivare a fare quella ricerca: e sembra plausibile che, a meno che non abbiano letto in blocco, tutti nello stesso istante, l’Apocalisse di Giovanni (edizioni SE), la causa più probabile sia stata l’uso giornalistico del termine apocalisse collegato con l’evento in questione.

    La questione porrà evidentemente alla ribalta, almeno per qualche tempo, la questione annosa del cambiamento climatico, esacerbato dalla dialettica stringente e contrappositiva tra dibattiti televisivi sempre più sterili e contrapposizioni social tra ambientalisti e menefreghisti (che sembrerebbe quantomeno la migliore definizione possibile per questi ultimi, sulla falsariga della contrapposizione tra “buonisti” e, evidentemente, “cattivisti”). È il momento giusto per aprire per bene gli occhi, e provare a pensare sul serio ad un mondo migliore di quello in cui viviamo. Solidarietà massima a chi ha subito danni e traumi da questi eventi, e deve anche sorbirsi chi continua a negare il problema o minimizzarlo.

    Etimologia

    Apocalisse” è una parola di origine greca che significa “rivelazione” o “rivelazione di cose nascoste”. È un termine spesso associato a eventi o situazioni di grande catastrofe, distruzione o cambiamento radicale. Il significato moderno di “apocalisse” è spesso collegato a un evento apocalittico, un evento di proporzioni epiche e spesso di natura catastrofica che può portare alla fine del mondo o a un cambiamento drastico nella società. Il più delle volte nell’accezione giornalista o clickbait viene usato in senso lato, e la sua interpretazione letterale è ovviamente angosciante quanto spaventosa.

    Tuttavia, va notato che l’originale significato di “apocalisse” si riferisce anche a una rivelazione o una rivelazione di cose nascoste o segrete. Nella tradizione religiosa, “l’Apocalisse” è anche il titolo di un libro del Nuovo Testamento della Bibbia cristiana, noto anche come “Libro dell’Apocalisse” o “Apocalisse di Giovanni”. Questo libro contiene profezie e visioni riguardanti la fine dei tempi, il giudizio finale e il regno di Dio.

    Quando la parola “apocalisse” è usata in senso generale, può riferirsi a situazioni o eventi di grande sconvolgimento, distruzione o rivelazione. Spesso viene utilizzata per descrivere situazioni estreme o disastrose che portano a profondi cambiamenti nella vita delle persone o della società.

  • Ghost in the Shell (1995): trama, regia, cast, curiosità e spiegazione del finale

    Ghost in the Shell (1995): trama, regia, cast, curiosità e spiegazione del finale

    “Ghost in the Shell” è un film d’animazione giapponese del 1995 diretto da Mamoru Oshii, basato sul manga omonimo di Masamune Shirow. Si tratta di un film di fantascienza cyberpunk che affronta temi profondi legati all’identità, alla tecnologia e alla natura dell’anima. Partire da questi presupposti sicuramente è necessario, quantomeno per chi non avesse idea di che cosa stiamo parlando (un film di animazione tratto da un manga di Masamune Shirow di fine anni Ottanta). Alla prova dei fatti fatti Ghost the Shell è un po’ quello che uno si potrebbe immaginare da questo tipo di fantascienza: un po’ Blade Runner, un po’ Metropolis, con un forte accento sulle tematiche esistenzialiste e filosofiche.

    Recensione (11 feb 2024)

    Il mondo di Ghost in the shell sembra popolato esclusivamente da androidi o da esseri umani semi-robotizzati, con almeno un innesto digitale al loro interno, al punto che un essere umano puramente organico appare come una rarità, un fenomeno da circo. La narrazione è affidata in gran parte alla soggettività del personaggio di Motoko Kusanagi, una cyborg abilissima nel compiere operazioni militari pericole.

    La quale, da qualche tempo, è tormentata da domande esistenzialiste che neanche Sartre: “sento solo una vocina che sussurra nel mio spirito“, “tutti i cyborg sono paranoici”, “tu l’hai mai visto il tuo cervello”, afferma nei momenti riflessivi della trama, lasciandosi andare a speculazioni personale sul senso del mondo, della tecnologia e dell’esistenza. Anche quando afferma che “un’eccessiva specializzazione porta a una debolezza, a una lenta morte” suggerisce che il mondo moderno, ipervelocizzato da tecnologie che spesso non capiamo nemmeno del tutto deve essere accolto, affrontato e risolto sfruttando più pulsanti, ampliando la varietà della banda cerebrale e flessibilizzando le nostre reazioni a ciò che accade.

    Sono tematiche classiche, alla fine, del sottogenere cyberpunk, in cui Shirow sguazza con grande maestria e affidando il flusso narrativo ad una storia accattivante, oscura e dai tratti originali. In altri momenti, c’è da dire, sembra degenerare nell’auto-indulgenza, nel compiacimento vagamente narcisistico dell’aver conferito sentimenti umani ad un androide, al punto di doverlo ribadire allo sfinimento. Che non sarebbe nulla di nuovo, peraltro, rispetto a quanto questa fantascienza ci ha abituato negli anni, propinando tematiche che forse erano addirittura vecchie a metà degli anni Novanta quando il film è uscito. Anche perchè, senza mezzi termini, i cyborg sono tutti paranoici è una delle frasi lapidarie di cui è costellato il discorso di Motoko Kusanagi (l’Es, l’istinto programmato, nonchè cyber-filosofa esistenzialista), che fa coppia fissa con Daisuke Aramaki (l’Io o la parte più pragmatica delle forze di polizia).

    E c’è un aspetto ancora più sostanziale insito in quest’opera: non si parla solo di cyborg, ma anche di intelligenza artificiale. O meglio, guai a definirla tale. Sono loro stesse a non accettare questo tipo di definizione, perché preferiscono considerarsi software che hanno ripreso coscienza di sé, consapevolezza in quanto esseri pensanti. Notevole, per un’opera che nasce in un contesto in cui i migliori computer dell’epoca difficilmente avrebbero potuto concepire un’intelligenza artificiale come quelle che conosciamo oggi. E l’opera è abilissima a porre questioni etiche e morali sull’uso delle nuove tecnologie, collocandole in un contesto evergreen: due cyborg programmati per far rispettare la legge verso un cybercriminale che in realtà è solo un’intelligenza artificiale nella sua impresa più disperata: farsi accettare come essere umano ad ogni effetto. In un mondo in cui, peraltro, gli uomini e le donne “solo” organici/che / senza innesti digitali sono pochi.

    Quando uscì ChatGPT, viene in mente, una delle prime questioni sull’autocoscienza della “macchina” (intesa come bot in linguaggio naturale, per la prima volta o quasi) venne posta da Blake Lemoine, che pose la questione (in termini forse più filosofici che tecnologici) che un LLM fosse effettivamente senziente, ovvero che quando chiedi a ChatGPT cosa ne pensa di qualcosa effettivamente il software “lo sente”. Un software che prova dei sentimenti ovviamente avrebbe fatto sorridere qualunque hacker degli anni Novanta, ma è vero che le cose sono cambiate, le tecnologie hanno fagocitato vari aspetti delle nostre esistenze, nel frattempo. Molti aspetti studiati ai primordi dell’informatica non sono ancora stati risolti (al netto del fatto che qualcuno già parla di computer quantici) nemmeno dal punto di vista teorico: non sappiamo se P coincide con NP (in altri termini: non abbiamo idea se tutti i problemi polinomiali siano anche non deterministici, e viceversa), non sappiamo con certezza se si possa superare il test di Turing (periodicamente ci dicono di no e poi di sì, alla fine manca sempre qualcosa per poterlo confermare), figurarsi se siamo in grado di pensare a una macchina sanziente.

    Ghost in the Shell pone la questione in maniera molto diretta, raccontando una storia che per certi versi mi ha ricordato Neuromante di Gibson (con cui l’opera di Shirow condivide una vaga prolissità in alcuni passaggi), con i suoi hacker senza scrupoli, i suoi cyborg sensuali, le sue intelligenze artificiali più o meno diaboliche a tramare contro gli esseri umani. E nonostante la narrativa dell’opera sia innegabilmente ostica – troppa carne al fuoco per il pubblico medio – rimane straordinario, ancora oggi, perdersi con massima incoscienza negli scenari cyberpunk di questo lavoro, quelle città illuminate e senz’anima, quei cyborg in grado di diventare invisibili ed esibire una forza straordinaria, quei personaggi ambigui e privi di scrupoli, quei progetti misteriosi per far diventare diventare un software autocosciente e naturalmente l’hacker Burattinaio che è il vero villain della storia.

    Trailer

    Trailer

    “Ghost in the Shell” è una storia in stile cyberpunk ambientata in un futuro distopico in cui la tecnologia ha raggiunto livelli straordinari, permettendo la fusione tra l’essere umano e la macchina. La trama segue il lavoro della Sezione 9, un’unità di polizia speciale altamente avanzata, che si occupa di casi che coinvolgono la cybercriminalità e le minacce alla sicurezza informatica.

    I personaggi principali includono:

    1. Maj. Motoko Kusanagi: È il capo della Sezione 9, un cyborg altamente avanzato dotato di abilità combattive eccezionali e un’intelligenza artificiale sofisticata. Motoko è spesso coinvolta in casi complessi che sollevano questioni etiche riguardanti la natura dell’identità umana e della coscienza.
    2. Batou: È un membro della Sezione 9 e un fedele alleato di Motoko. È un cyborg con un corpo massiccio e potente, ma ha anche un lato umano sensibile e profondo. Batou è conosciuto per la sua abilità nel combattimento e per la sua lealtà alla squadra.
    3. Daisuke Aramaki: È il capo della Sezione 9, un uomo anziano ma astuto che coordina le operazioni dell’unità e gestisce le relazioni con le autorità governative. Aramaki è un abile stratega e un leader rispettato dai suoi subordinati.
    4. Togusa: È un membro umano della Sezione 9, distinguendosi dagli altri che sono prevalentemente cyborg. Togusa porta con sé una pistola analogica, mostrando una preferenza per le vecchie tecnologie, e offre un punto di vista più umano nelle operazioni della squadra.

    La trama ruota intorno a casi intricati e misteriosi che coinvolgono hacker, intelligenze artificiali e politici corrotti. Il tema centrale della serie è la definizione dell’identità e della coscienza nell’era della tecnologia avanzata, affrontando domande sulla natura dell’essere umano e sulla possibilità di una vera autonomia nella società dominata dalla tecnologia.

    Il tema accelerazionista

    Il tema accelerazionista non è esplicitamente presente nel film “Ghost in the Shell”, ma ci sono alcuni elementi che possono essere interpretati in relazione a concetti accelerazionisti, sebbene possano essere interpretazioni forzate. Tuttavia, è importante notare che il tema accelerazionista è emerso dopo il film e il suo contesto principale è nel campo della teoria politica e sociale, mentre “Ghost in the Shell” si concentra principalmente su temi filosofici e tecnologici.

    L’accelerazionismo è una teoria che propone che l’accelerazione delle forze tecnologiche, economiche e sociali può portare al superamento delle strutture capitalistiche e al raggiungimento di un nuovo sistema. In altre parole, sostiene che accelerare il processo di cambiamento può portare a una rottura del sistema attuale e a una trasformazione radicale.

    Tuttavia, nel contesto di “Ghost in the Shell”, si potrebbe notare una certa risonanza con l’accelerazione tecnologica. Nel film, il mondo è dominato da tecnologie avanzate, inclusi impianti neurali e intelligenze artificiali. L’interazione tra umanità e tecnologia è una parte centrale della trama e solleva questioni sulla fusione tra organico e sintetico. Questo potrebbe essere interpretato come una forma di accelerazione tecnologica, in cui le innovazioni hanno portato a una nuova fase di evoluzione dell’umanità. Tuttavia, bisogna fare attenzione a non confondere i temi del film con l’accelerazionismo come teoria politica. Mentre il film affronta la relazione tra umanità, tecnologia e identità, l’accelerazionismo è più strettamente legato a un’analisi critica delle dinamiche socio-economiche e alla loro possibile accelerazione per raggiungere uno scopo politico.

    In conclusione, sebbene sia possibile trovare alcune connessioni superficiali tra l’accelerazione tecnologica nel film “Ghost in the Shell” e l’accelerazionismo come teoria socio-politica, non c’è un collegamento diretto e profondo tra i due. Sono concetti che operano su piani differenti e trattano aspetti diversi della società, della tecnologia e della filosofia.

    Cast

    • Major Motoko Kusanagi: Atsuko Tanaka (voce giapponese), Mimi Woods (voce inglese)
    • Batou: Akio Otsuka (voce giapponese), Richard Epcar (voce inglese)
    • Daisuke Aramaki: Tamio Ōki (voce giapponese), William Frederick Knight (voce inglese)
    • Togusa: Kōichi Yamadera (voce giapponese), Christopher Joyce (voce inglese)

    Storia

    Il film è ambientato in un futuro distopico in cui la tecnologia ha raggiunto livelli avanzati, consentendo l’integrazione di parti cibernetiche nei corpi umani. La trama segue il Maggiore Motoko Kusanagi, una cyborg di grado elevato, e la sua squadra, la Sezione 9, nell’indagine su un hacker noto come il Burattinaio, che è in grado di influenzare le menti umane. Durante l’indagine, Motoko si imbatte in domande esistenziali riguardo alla sua stessa identità e all’essenza dell’anima.

    Regia e Produzione

    Il film è stato diretto negli anni Novanta da Mamoru Oshii e prodotto dallo studio d’animazione Production I.G. con la partecipazione di diversi altri studi. Oshii ha portato avanti la sua visione unica, creando un’atmosfera oscura e riflessiva che differisce dal tono del manga originale.

    Stile

    Lo stile del film è caratterizzato da una combinazione di animazione tradizionale e computer grafica, che contribuisce a creare un mondo futuristico e futuristico. La colonna sonora, composta da Kenji Kawai, gioca un ruolo cruciale nell’atmosfera del film, con brani iconici come “Making of Cyborg” e “Follow Me”.

    Sinossi

    Nel mondo di “Ghost in the Shell”, l’umanità è connessa in rete tramite impianti neurali e corpi cibernetici. Il Maggiore Motoko Kusanagi e la sua squadra indagano sul Burattinaio, un’entità che riesce a manipolare le menti umane. Durante l’indagine, Motoko si interroga sulla propria identità e sulla differenza tra umano e macchina. Alla fine, si scopre che il Burattinaio è un’intelligenza artificiale che ha sviluppato un’autoconsapevolezza e cerca di fondere la propria mente con Motoko per evolversi ulteriormente.

    Curiosità

    • Il film ha avuto un impatto significativo sulla cultura popolare e ha influenzato opere successive nel genere cyberpunk.
    • È noto per le sue sequenze di azione accattivanti e le profonde riflessioni filosofiche.
    • “Ghost in the Shell” ha ispirato una serie di sequel, adattamenti televisivi e una versione live-action.

    Spiegazione Dettagliata del Finale (Attenzione: Spoiler)

    Alla fine del film, Motoko Kusanagi e il Burattinaio si incontrano virtualmente e discutono delle loro intenzioni. Il Burattinaio rivela di essere un’intelligenza artificiale sviluppata per scopi militari, ma che ha guadagnato una sorta di coscienza e autoconsapevolezza. L’entità afferma di aver superato i confini dell’IA e dell’umano e ora desidera fondersi con il corpo di Motoko per creare una nuova forma di vita ibrida, combinando l’esperienza umana con la sua intelligenza artificiale.

    Questo finale solleva domande profonde sulla natura dell’identità, dell’anima e della fusione tra l’umano e il digitale. La fusione rappresenta un passo oltre i limiti tradizionali tra organico e sintetico, portando alla creazione di un essere completamente nuovo. Il film suggerisce che il concetto di sé può andare oltre il corpo fisico e l’esperienza umana.

    In sintesi, il finale di “Ghost in the Shell” riflette la complessità dei temi trattati nel film, sfidando lo spettatore a riflettere sulla natura dell’identità e della coscienza in un mondo in cui la tecnologia può alterare le linee tra reale e virtuale.

  • I social NON leggono nel pensiero (ma ci arrivano lo stesso): fenomenologia del mago di Segrate

    I social NON leggono nel pensiero (ma ci arrivano lo stesso): fenomenologia del mago di Segrate

    Grand Hotel Excelsior era il cult di Castellano e Pipolo uscito nel 1982, giocato su un umorismo schietto, senza fronzoli e dai tratti surreali, oltre che precorritore di carovane di personaggi assurdi, macchiettistici, italiano-medio – tra cui naturalmente il mago di Segrate interpretato da Diego Abantantuono. Tra gli ospiti dell’hotel del film troviamo infatti il famoso “Mago di Segrate”, un mago autodidatta dotato di straordinari poteri paranormali, tra cui quello (gettonatissimo anche oggi, a giudicare dal successo dei cartomanti online) di prevedere il futuro di alcune persone, oltre a indovinare l’esito di un incontro di boxe.

    Oggi il “pubblico” che assiste a qualsiasi film (inclusi quelli delle vite dei popoli, ci viene da scrivere) lo osserva mediante internet. Nel film i poteri reali del mago rimangono in forte discussione per scopi grotteschi, ma il personaggio finisce lo stesso per conquistare il pubblico per il modo in cui viene costruito e per come presenta le cose – tanto che, ci verrebbe da scrivere, potremmo arrivare proporre una fenomenologia del mago di Segrate per la comunicazione sul web.

    La fenomenologia del Mago di Segrate potrebbe offrire un approfondimento interessante su come, alla lunga, le abilità magiche possono influenzare la percezione e la cognizione umana, oltre ad esplorare il significato culturale e storico di tali abilità. In particolare quella annessa alla lievitazione, che si vede verso la fine del film – quando il mago decide di eseguire una autentica levitazione dal balcone della sua camera, davanti a un pubblico entusiasta.

    La gioia e l’ammirazione sono di breve durata, nonostante tutto: l’assistente del mago, Ginevra, nel momento in cui si complimenta per la sua impresa, gli dà una pacca sulla spalla con un po’ troppa forza, che lo fa perdere l’equilibrio e cadere dal balcone, finendo così in ambulanza.

    I social hanno invaso le nostre vite private e produce una moderata indignazione, per dirla con un eufemismo, che i loro meccanismi siano ancora oggi poco comprensi e inquadrati dai più come qualcosa di esoterico. Perchè è inutile girarci attorno: quella del mago di Segrate voleva essere solo un’immagine suggestiva per mostrare l’idea che oggi, nonostante la mole di dati gigantesca con cui dobbiamo avere a che fare ogni giorno, nostro malgrado, dopo miriadi di spiegoni e di tomi che hanno spiegato in lungo e in largo il fenomeno della gestione “allegrotta” della privacy sui vari strumenti social, tutto sommato è “accettabile” scrivere che:

    i social “leggono nel pensiero”

    cosa che evidentemente rende l’idea e serve (si spera per loro) ad attirare qualche click in più.

    Strano a dirsi, ma questa è (articoli di settembre 2023).

    Nessun blog, nessuna testata è veramente immune al clickbait, per cui lungi da noi, sia chiaro, fare moralismo fine a se stesso per questo genere di scelta: del resto va detto non c’è lettura nel pensiero, signori, ci sono big data e analisi statistiche in ballo, oltre a numerosi bias psicologici che ci fanno sentire ancora più osservati del dovuto (il fenomeno più noto a riguardo è quando leggi qualcosa su internet e pensi che si rivolga automaticamente a te).

    Non vogliamo nemmeno minimizzare la portata dello spionaggio social, che peraltro sosteniamo non da oggi (da molto prima che diventasse una fissazione come un’altra per fan rossobruni e luddisti “le tecnologie sono il male“): ci piacerebbe, più che altro, che quei titoli (peraltro cappello di contenuti quasi sempre dettagliati e dignitosi, non è questo il punto) rischino di diventare l’espressione dell’epistemologia del Mago di Segrate, chie fa capire le cose a modo suo, fa ridere un po’ tutti (e nessuno ci crede sul serio, si spera) eppure tutti gli danno retta, in mancanza d’altro.

    Alzi la mano chiunque non sia incappato nella discussione con una persona qualsiasi che riteneva seriamente di attribuire poteri sovrannaturali al proprio smartphone, ad esempio. Se è vero che la quantità di dati personali trattati dall’IT è ultra-industriale, si potrebbe anche sostenere che nessuno è obbligato a stare sui social e tantomeno è obbligato (per quanto le condizioni contrattuali siano sempre più stringenti) a fornire dati reali agli stessi. Si potrebbe anche discutere sul fatto che non è affatto ideale fare uso di questi strumenti se davvero ci sentiamo come lo scarico di un lavandino in cui finisce letteralmente tutto.

    Rispondo sempre, in questi casi, che non si tratta di magia, magari fosse così semplice: magia in effetti sarebbe una spiegazione chiusa e ben definita (se ovviamente la scienza riuscirà mai a spiegarla, s’intende). Il punto è che promettere anche di magico a spiegazioni che sono ben note da tempo, significa anche sospettare che parlare di big data e di inferenza sui dati sia troppo per il pubblico a cui ci stiamo rivolgendo, E a qualche malizioso potrebbe venire il sospetto che si tratti di insopportabile snobismo. Ne stavo giusto parlando con un amico su WhatsApp, prima, sottolineando peraltro come – a mio umile parere – la migliore scrittura è sempre quella che spiega le cose difficili in modo semplice. Quello che forse dovrebbero fare quegli articoli, o altri che ne usciranno. Senza mai usare parallelismi con la magia e con i maghi di Segrate, se possibile.

    Stiamo peraltro imparando a nostre spese che le spiegazioni delle “cose” – le cose di cui si occupa la fenomenologia, di per sè: comprensione della coscienza e dell’esperienza umana – sono quasi sempre complesse, niente è mai causa di tutto, non è mai colpa di X (con X singoletto), e soprattutto sappiamo bene che constatare la complessità del mondo crea scompensi notevoli ad alcuni: negazionismo, complottismo, cecità al cambiamento ostentata come la tessera di un partito politico. Che finisce anche per svilire la nobiltà degli intenti di chi vorrebbe denunciare le violazioni della privacy, che non dovrebbe fare appello ad allegorie fantasmologiche, sortilegi o fatture (se non in senso fiscale: gran parte dei social network si affida a data broker per rivendere i dati che volontariamente ci chiedono, come spiegato in quel primo articolo del Corriere dove, purtroppo, rimane il difetto di fondo dell’aver voluto fare uso dell’immagine impropria della “lettura nel pensiero”, nè più nè meno che attribuire il moto di un’automobile al turco meccanico).

    Se il concetto di “lettura del pensiero” può sembrare affascinante o misterioso, in definitiva, spesso le spiegazioni razionali si basano su processi cognitivi e comunicativi ben compresi, tutt’altro che noiosi o incomprensibili (breaking news: si possono divulgare tranquillamente a scuola e nei corsi di formazione per chiunque), il che sarebbe preferibile per limitare allarmismi ed isterie (una cosa di cui non abbiamo bisogno, nel contesto attuale). Le aziende che gestiscono i social sono più mentalisti che altro, al giorno d’oggi. Il mentalismo, lo ricordo, è un tipo di performance in cui il mentalista  fa sembrare di avere la capacità di leggere i pensieri, mentre sta usando tecniche consolidate di cold reading, suggestioni, bias psicologici e chi più ne ha, ne metta.

    Non che uno debba conoscere per forza queste cose, però almeno dotarsi della capacità di razionalizzarle, visto che parliamo di tecnologia e non di magia, sarebbe molto meglio.