Ospite Inatteso

  • Lo stupefacente successo del film di Super Mario Bros

    Lo stupefacente successo del film di Super Mario Bros

    Un mese fa il film di Super Mario Bros ha superato il miliardo di dollari di vendite di biglietti in tutto il mondo. Per chi non lo conoscesse, questo film si tratta di una versione animata del famoso franchise di videogiochi arcade Nintendo. La sua prima del 5 aprile è stato il più grande weekend di apertura di qualsiasi film d’animazione di sempre, battendo il precedente detentore del record “Frozen II” della Disney.

    Chris Pratt dà la voce a Mario mentre possiamo trovare Anya Taylor-Joy nei panni della Principessa Peach. Anche la presenza di stelle di tale calibro ha attirato un vasto pubblico internazionale, guadagnando più di cinquecentotrenta milioni di dollari all’estero. Il riciclaggio della vecchia proprietà intellettuale è una formula predefinita nell’odierna Hollywood: c’è poco da fare, la nostalgia molto spesso vende. Nonostante questo, la scala del successo di Super Mario Bros. è stato sorprendente. Sebbene i giochi Nintendo siano stati introdotti negli Stati Uniti quattro decenni fa, l’adattamento dell’universo di Mario era una prospettiva in gran parte non testata. L’unico precedente era un bizzarro film d’azione del 1993, con dinosauri evoluti con la forza e strani costumi da rettile che oggi sarebbero considerati troppo stravaganti in film per bambini. La versione del ‘93 ha fallito, almeno al botteghino, guadagnando meno dei circa quarantotto milioni di dollari che è costato. Allo stesso tempo, magari per i più patiti, ci sono alcuni motivi che lo rendono comunque interessante.

    Il film segue i contorni dei videogiochi ma senza preoccuparsi di riempirli. Mentre Mario e Luigi cercano di mettersi alla prova affrontando una enorme alluvione urbana, vengono risucchiati nel mondo dei videogiochi tramite un tubo sotterraneo.

    Lì incontrano la Principessa Peach dal Regno dei Funghi in un mondo abitato da migliaia di creature dalla testa di fungo, tutte chiamate Toad.

    Nel loro percorso incontrano anche il malvagio Bowser, il cui amore non corrisposto per Peach lo ha spinto a invadere il suo pacifico regno con il suo esercito di tartarughe scheletro. Bowser è doppiato da Jack Black che riesce a infondere al personaggio un fascino disperato. Una nota di colore è data dalla ballata per pianoforte, cantata da Bowser grazie talento musicale di Black, che ha raggiunto la Billboard Hot 100 a metà aprile. Se siete curiosi, ecco il video ufficiale della canzone.

    Una delle scene più efficaci è una breve ripresa iniziale di Mario da solo nella sua camera da letto. La sua famiglia ha appena preso in giro il suo progetto di avviare un’attività idraulica con Luigi e lui si sente abbattuto. Quindi fa quello che farebbero molti giovani tristi nella sua situazione: nella stanza buia, su un vecchio schermo televisivo, gioca a un gioco pixelato sul Nintendo Entertainment System originale. Il gioco gli fornisce una breve fuga da ciò che lo circonda, in un mondo più contenuto e controllabile, con personaggi familiari e obiettivi raggiungibili.

    Cosa ha reso Super Mario Bros un successo? Da una parte è comprensibile come il pubblico possa essere stanco di infinite serie di supereroi in stile Marvel e cercare qualcosa di diverso. Infatti era dei fumetti della metà degli anni Duemila sta incontrando problemi e l’era dei giochi potrebbe essere alle porte sia a livello teatrale che a livello di piccolo schermo.

    Prodotto dallo studio Illumination, il successo di altri franchise come “Cattivissimo me” e “Minions” con i loro centinaia di milioni di dollari al botteghino dava una buona garanzia sulla riuscita di Mario Bros.

    Un altro aspetto da non sottovalutare è la capacità di questo film nel parlare a più generazioni. Infatti i bambini sono riusciti a cogliere numerosi riferimenti ai videogiochi del film: da un fungo che rende Bowser minuscolo o scene di combattimento in stile Super Smash Bros. Allo stesso tempo, c’erano riferimenti progettati anche per gli adulti: come ad esempio la scena nichilista di Luma, simile a una stella di Super Mario Galaxy imprigionata nella prigione di Bowser.

    Dall’altra per il puro riconoscimento del nome, Mario è difficile da battere in quanto uno dei pochissimi personaggi dei videogiochi che tutti conoscono.

    Alla fine dei conti, l’industria dei videogiochi è più grande del cinema stesso o della televisione, anche se può sembrare quasi invisibile se non sei un particolarmente coinvolto. Osservando solo il mercato americano, si sono spesi circa quarantasette miliardi di dollari in videogiochi nel 2022. Senza contare come rimangono ancora in voga i titoli più classici della categoria arcade, disponibili gratuitamente online come ad esempio Tetris o Pacman in questo sito.

    Solo il titolo Mario Kart Deluxe 8, una ristampa di un precedente gioco di corse di Mario, ha venduto più di cinquanta milioni di copie dal suo lancio nel 2017. Come un franchise Marvel, Mario si è trasformato in molti nuovi giochi ogni anno: Mario Golf, Mario Party, Luigi’s Mansion.

    Poiché Nintendo non tentava un film di Mario da decenni, c’era una nostalgia non sfruttata in milioni di consumatori che ricordano il gioco con affetto fin dall’infanzia o giocano ancora a nuove iterazioni. Tenendo conto di questo, è facilmente comprensibile come il film abbia raggiunto molte persone assomigliando il più possibile al gioco: d’altronde più meccanica e letterale è la somiglianza, meglio è.

  • La vera storia del meme gigachad

    La vera storia del meme gigachad

    Il meme “GigaChad” è un’immagine che ritrae un uomo muscoloso, sicuro di sé e attraente, spesso accompagnato da testo che esalta le sue qualità e lo paragona ad altri uomini in modo satirico o umoristico. Il termine “GigaChad” deriva dal gergo internet, dove “Chad” viene utilizzato per descrivere un uomo estremamente attraente e/o sicuro di sé. L’aggiunta del prefisso “Giga” è un’esagerazione ulteriore, sottolineando l’idea di grandezza e superiorità. Questo meme è spesso usato per parodiare gli standard di mascolinità ideale e per confrontare le qualità di “GigaChad” con quelle di altri uomini, spesso in modo esagerato e ironico. Può essere utilizzato anche per esprimere l’ammirazione o l’invidia nei confronti di chi possiede queste caratteristiche esagerate.

    il termine “Chad” e alcuni concetti correlati sono spesso associati alla sottocultura degli incel (involuntary celibates), che è una comunità online caratterizzata da uomini che si identificano come incapaci di ottenere relazioni romantiche o sessuali nonostante i loro desideri. In questo contesto, “Chad” è spesso usato per descrivere un uomo estremamente attraente e socialmente abile, considerato un “rivale” dagli incel, mentre l’opposto di “Chad” è “Beta” o “Incel”, per descrivere uomini percepiti come meno attraenti o meno desiderabili. In alcuni casi, diventa il sottotesto per promuovere corsi di seduzione spesso di dubbio valore. In altri casi sono espressione di iperstizione: si crea un loop mentale in molte persone per cui rimarrò single perchè non sono un gigachad, non sono un gigachad per cui rimarrò single. Per fortuna il mondo della sessualità è variegato e trova a volte sbocchi inaspettati.

    Fermo restando che il meme può essere usato anche in contesti non tossici, rimane un baluardo della cultura incel e delle sue declinazioni più note anche in Italia, da qualche tempo.

    Come molti meme, il “GigaChad” ha avuto un’enorme diffusione sui social media e sui forum online, dove viene adattato e condiviso in vari contesti per creare umorismo e commentare sulle dinamiche sociali e culturali legate alla mascolinità e all’attrazione fisica. Con tanto di tendenza, a nostro avviso insana, ad assolutizzare il concetto di attrazione, a renderlo un teorema, un’asserzione incontestabile o – per dirla con Popper – non falsificabile. Essere gigachad è una constatazione che potrebbe valere per chiunque a discrezione degli altri. E forse questo dovrebbe far riflettere sul fatto che non bisogna prendere troppo sul serio queste cose.

  • Allucinazione consensuale (NSFW)

    Allucinazione consensuale (NSFW)

    Alessio sprofonda nell’oscurità digitale del dark web – terra senza confini – l’etica svanisce – desiderio è tiranno – mondo senza regole – posso esplorarlo – mi fa stare bene esplorare – almeno qui – via di fuga non consensuale dai labirinti intricati della mente. Allucinazione consensuale. Qui – tra codici cifrati – ombre virtuali – scopre applicazioni che violano privacy – disvelando intimità senza permesso – click – e puoi vederlo nudo – o vederla nuda – atroce espressione di devianza. Eppure – nell’abisso delle scoperte proibite – persiste desiderio, desiderio insaziabile, infame, tiranno, infame tiranno. Alessio si abbandona ad un amore digitale – ragazza dall’aura enigmatica dei social media – lui la ama, lei non ne sa nulla, lui non sa esprimerlo, col cuore prigioniero del silenzio – sospiro – strappa anima – urla senza eco – spazio virtuale volto all’infinito. Terapeuta quale faro nell’oceano oscuro delle emozioni più tormentate. Tiranniche. Wrath of the tyrant. Ma anche lei – con sua saggezza terrena – non può spezzare catene che lo tengono prigioniero del suo stesso tormento interiore. Quando Alessio si avvicina al bordo dell’abisso digitale – tentazione di creare un deep nude diventa irresistibile. Manipola immagini dell’ amata – cliccando frenetico – cerca disperatamente di catturare frammento intimo della sua essenza sfuggente. Finalmente poteva vederla, era come la sognava, ma l’universo non era consensuale, era la sua allucinazione algoritmica, orgasm through torture. Ma prezzo di una ossessione – rimorso – dolore tagliente – straziante nel kernel più profondo. E così Alessio si ritrova – perso – nell’abisso della solitudine – senza parole per esprimere un tormento ciclopito, un senso di colpa che attanaglia il genere umano fin dalla sua originel. Soffoca, Alessio, nelle tenebre dell’anima – nessuno può sentirti urlare – condannato a vagare eternamente nel labirinto della disperazione. Un taglio alla gola.

    Questa storia narra il viaggio emotivo e psicologico di Alessio nel mondo oscuro e senza confini del dark web. Alessio, affascinato e tormentato dalla sua oscurità, si immerge in questo territorio dove l’etica è nulla e il desiderio regna sovrano. Esplorando questo mondo senza regole, Alessio trova una via di fuga non consensuale dai labirinti intricati della sua mente, dove le sue emozioni sono intrecciate in un groviglio inestricabile.

    Nel cuore di questo abisso digitale, tra codici cifrati e ombre virtuali, Alessio scopre applicazioni che violano la privacy altrui, permettendo di vedere persone nude senza il loro consenso. Questo rappresenta un’atroce espressione di devianza, dove l’intimità viene esposta al pubblico senza alcuna autorizzazione.

    Nonostante le scoperte proibite e il desiderio insaziabile che lo spinge avanti, Alessio si ritrova intrappolato in un amore digitale non corrisposto, incapace di esprimere i suoi sentimenti. La sua terapeuta diventa un faro nella sua oscurità emotiva, ma anche lei non può liberarlo dal suo tormento interiore.

    Attratto dalla tentazione dei deep nude, Alessio manipola immagini della sua amata nella speranza di catturare un frammento della sua essenza. Ma il prezzo della sua ossessione è il rimorso e il dolore tagliente che lo straziano fino nel profondo del suo essere.

    Infine, Alessio si ritrova perso nell’abisso della solitudine, incapace di esprimere il suo tormento. Soffoca nelle tenebre dell’anima, condannato a vagare eternamente nel labirinto della disperazione, mentre il senso di colpa lo attanaglia implacabile come un coltello alla gola.

  • Teoria e pratica del contrappunto

    Teoria e pratica del contrappunto

    Il termine “contrappunto” ha origini nel latino. Deriva dalle parole “contra” che significa “contro” e “punctus” che significa “punto”. Inizialmente, nel linguaggio musicale medievale, il termine indicava il processo di aggiungere una melodia “contrapposta” a una melodia principale. Col tempo, il concetto si è evoluto per includere l’idea di contrasto o opposizione tra due o più elementi, estendendosi anche ad altri campi oltre alla musica.

    In un discorso politico, potremmo vedere il contrappunto tra due idee opposte riguardo a una questione controversa. Ad esempio, un politico potrebbe sostenere che aumentare le tasse sia necessario per finanziare servizi pubblici essenziali, mentre un altro potrebbe argomentare che ridurre le tasse stimolerebbe la crescita economica. Questi due punti di vista rappresentano un contrappunto nel discorso politico, dove due prospettive divergenti vengono esaminate e dibattute per trovare una soluzione o un compromesso.

    In senso non musicale, il termine “contrappunto” può essere usato per indicare un tipo di contrapposizione o contrasto tra due o più elementi, concetti o idee. Questa nozione si basa sull’originale significato musicale del termine, in cui due o più linee melodiche indipendenti si sovrappongono per creare un insieme armonioso.

    Ad esempio, in letteratura, il contrappunto può riferirsi alla presenza di più trame o sottotrame che si intrecciano per creare una narrazione complessa e ricca di sfumature. Queste trame possono interagire tra loro in modi diversi, talvolta contrastanti o complementari, aggiungendo profondità e complessità al racconto complessivo.

    Nel campo delle arti visive, il contrappunto può riferirsi alla disposizione di elementi contrastanti o complementari all’interno di un’opera d’arte, come colori, forme o linee, che si combinano per creare un effetto visivo equilibrato e coinvolgente.

    In generale, l’uso del termine “contrappunto” al di fuori della musica implica spesso un concetto di contrasto, equilibrio o interazione complessa tra più elementi o concetti.

    Cosa si intende per “contrappunto”?

    Il contrappunto è una tecnica musicale polifonica in cui due o più linee melodiche indipendenti si sovrappongono per creare un insieme armonioso. È una delle principali tecniche utilizzate nella composizione musicale, specialmente nella musica classica e nel periodo barocco.

    Le linee melodiche nel contrappunto sono chiamate voci o parti, e ognuna di esse è autonoma e possiede una propria coerenza melodica e ritmica. Queste linee possono essere simili o contrastanti tra loro, ma si intrecciano in modo organizzato per creare una texture musicale complessa e ricca.

    Il contrappunto si basa su una serie di regole e principi, tra cui:

    1. Imitazione: Le voci possono imitare l’una l’altra, riproducendo un motivo o una frase melodica in modo ritardato rispetto alla prima voce.
    2. Inversione: Le voci possono essere invertite rispetto alla melodia principale, per esempio, ascendendo quando la melodia principale discende e viceversa.
    3. Contrasto: Le voci possono essere contrastanti tra loro, sia melodicamente che ritmicamente, ma devono comunque armonizzarsi in modo coerente.
    4. Regole di movimento melodico: Ci sono regole specifiche che governano il movimento melodico delle voci, ad esempio, evitare intervalli dissonanti o gestire accuratamente le risoluzioni delle dissonanze.

    Il contrappunto è una tecnica che richiede una grande padronanza della teoria musicale e della composizione, e può essere trovato in una vasta gamma di composizioni musicali, dalle fughe di Johann Sebastian Bach alle composizioni corali del Rinascimento. È una tecnica che continua ad essere studiata e apprezzata anche nella musica contemporanea.

    Esempi di uso del contrappunto in musica classica

    Rivediamo alcuni esempi più accurati di contrappunto nella musica classica:

    1. Le fughe di Johann Sebastian Bach: Bach è famoso per le sue fughe, in particolare quelle contenute ne “Il clavicembalo ben temperato” e ne “L’arte della fuga”. Queste opere sono esempi impeccabili di contrappunto, dove le voci si intrecciano in modo complesso e seguono rigorose regole contrappuntistiche.
    2. Le messe di Giovanni Pierluigi da Palestrina: Palestrina è uno dei massimi esponenti della musica sacra del Rinascimento. Le sue messe, come la “Missa Papae Marcelli”, mostrano un contrappunto chiaro e equilibrato, con voci che si muovono in modo fluido e armonico.
    3. Le sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven: Beethoven utilizza il contrappunto in modo innovativo nelle sue sonate per pianoforte. Ad esempio, la “Sonata per pianoforte n. 14”, conosciuta come “Chiaro di Luna”, presenta sezioni contrappuntistiche nelle quali le voci si intrecciano in modo intricato.
    4. Le opere per orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart: Mozart utilizza il contrappunto in modo brillante nelle sue composizioni orchestrali. Ad esempio, il primo movimento della “Sinfonia n. 41” (K. 551), conosciuta come “Jupiter”, presenta sezioni contrappuntistiche complesse e ben strutturate.

    Questi sono solo alcuni esempi più accurati di come il contrappunto sia utilizzato nella musica classica. Si tratta di un elemento fondamentale in molte composizioni di vari periodi e stili musicali.

  • Su quante volte andare dal terapeuta

    Su quante volte andare dal terapeuta

    Un articolo di Richard A. Friedman sull’Atlantic, ripreso qualche giorno fa anche da Internazionale, racconta che “molte persone potrebbero – o dovrebbero – abbandonare la terapia in questo momento, rimarcando la questione non come una minaccia, ovviamente, bensì come un’opportunità. La psicoterapia di tanti, in altri termini, è utile e costruttiva ma non può durare per sempre. Quanto deve durare, allora?

    Se ci si ragiona un attimo, da addetti ai lavori o meglio – nel mio caso – da semplici profani (meri lettori forti di psicologia e psicoanalisi, in terapia da anni, qualsiasi cosa ciò possa, o meno, implicare) ci si rende conto che la questione è forse più giornalistica che altro. Quante volte andare dallo psicologo o chi per lui? Ah, boh. Perché sarebbe come chiedere quante volte andare dal dentista, dal fisiatra o dall’oculista per il resto della nostra vita. Ci andremo, banalmente (la banalità a volte è salvifica) tutte le volte che ci servirà, tutte le volte che ne avvertiremo il bisogno, o tutte le volte che qualcuno più competente ci suggerità di farlo (il nostro Io, il nostro Es, il nostro SuperIo sono chiamati probabilmente in causa).

    La questione della durata della psicoterapia appare (forzosamente) connessa con quella dell’efficacia, in una sociatà apertamente capitalista e utilitarista come quella in cui viviamo. E non si tratta, quasi certamente, di una questione di upper bound temporali. Perchè io sono il capo di me stesso, dirigo l’azienda del mio inconscio, pago denaro sonante – e figa, esigo i risultati, da buon milanese imbruttito.

    Vale la pena riprendere l’incipit di quell’articolo, che traduco liberamente di seguito:

    Circa quattro anni fa, un nuovo paziente venne a trovarmi per una consulenza psichiatrica: si sentiva in qualche modo bloccato. Era in terapia da 15 anni, e continuava ad andarci nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo. Invece di lavorare sui problemi legati ai sintomi, lui e il suo terapista parlavano delle sue vacanze, dei lavori di ristrutturazione della casa e dei problemi in ufficio. Il suo terapista era diventato, in effetti, un amico costoso e soprattutto solidale. Eppure, quando gli ho chiesto se stesse pensando di interrompere la terapia, è diventato titubante, persino ansioso. “È semplicemente entrato nella mia vita“, mi ha detto.

    Friedman è un docente di psichiatria clinica e parla, evidentemente, a ragion veduta: si tratta di una situazione anomala da vari punti di vista – da profano, s’intende. E proprio perché si tratta di una casistica che – se anomala è in qualche modo discriminatorio definire – è quantomeno sbagliato generalizzare o renderla addirittura epitomica. Come sono a loro modo semplicistici, eppure ampiamente accettati socialmente, i vari commenti caustici sul senso della terapia: “un lusso per ricchi“, “tanto vale parlare con amico“, e per fortuna che qualche professionista si accorge che qualcosa non quadra e nei commenti lo fa presente. Dannati commenti dei social, così veri eppure così falsi. Eppure – dal 2020 in poi, soprattutto . sappiamo che la verità non si può stabilire, in nessun caso, a suon di like. Ammesso che ci sia un assoluto, una oggettività da ristabilire.

    In primis il terapeuta-amico (un ossimoro che farebbe rabbrividire molti addetti ai lavori) avrebbe dovuto interrompere la relazione a suo tempo e modo, ritengo. Ì una valutazione che faccio anche sulla base di quegli accenni di probabile auto-diagnosi che lo stesso Freud aveva mille dubbi a propinare (“nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo“: come facciamo ad esserne sicuri? Come facciamo a dire con certezza che erano davvero svanite? Perchè continuava ad andare in terapia, se la depressione e l’ansia erano sparite? Anche solo da un punto di vista logico, forse qualcosa non torna.).

    In secondo luogo questa storia è già fin troppo ingarbugliata, e parla di psichiatra che ascolta un paziente avere un problema ricorsivo col proprio terapeuta. Si parla di persone che hanno dei problemi, e si sta cercando di costruire un teorema su questa storia, giustp?  Come se non bastasse, è abbastanza vero che la terapia sia un lusso che – in Italia, ad esempio – non tutti si possono permettere, tra scuole di specializzazione che arrivano a costare migliaia di euro all’anno per gli aspiranti terapeuti e pazienti che – nella maggioranza dei casi – si pagano da soli la terapia, quando i bonus psicologo sono erogati poco e male (la regione Calabria, ad esempio, li ha erogati soltanto in parte, lasciando vari richiedenti / potenziali aventi diritto nel dubbio, ad oggi, se mai arriverà qualcosa per loro).

    “Tra coloro che se lo possono permettere – sottolinea l’autore – la psicoterapia regolare è spesso vista come un progetto che dura tutta la vita, come allenarsi o andare dal dentista. Gli studi suggeriscono che la maggior parte dei pazienti in terapia può misurare i propri trattamenti in mesi anziché in anni, ma una buona parte dei pazienti attuali ed ex si aspetta che la terapia duri indefinitamente. Sia i terapisti che i clienti, insieme alle celebrità e ai media, hanno approvato l’idea di andare in terapia per periodi prolungati o quando ti senti bene. L’ho visto io stesso con amici che sono fondamentalmente sani e pensano che avere un terapista sia un po’ come avere un coach.”

    È evidente che chi si affida a un terapeuta lo fa per propria volontà, ed è anche evidente che non si tratta di stabilire nuovi livelli di dipendenza ma creare autonomia. È un dubbio che ho esplicitato alla mia ex terapeuta qualche mese fa, il che è stato liberatorio almeno quanto averle confidato tantissime altre cose di me. Tutte cose che una buona terapia deve raccontare, accogliere ed elaborare, un po’ per definizione, perchè non si tratta di prestazioni occasionali e non si tratta di produrre un risultato nel massimo tempo X. Tipo una scadenza, un limite temporale da diagramma di Gantt, un upper bound, e poi vieni in ufficio che ti parlo del mio progetto. E poi, per carità, basta stravolgere i ruoli e capovolgere l’episteme: psicologia non è coaching così come un geometra non è un ingegnere, un dentista non è un podologo e così via.

    Si tratta di capire se effettivamente un terapeuta possa tenere in cura una persona che non ne ha bisogno solo per il vile denaro, ed è questa la domanda da farsi.  No, io non credo che ci siano lì fuori così tanti terapeuti disposti a fare una cosa del genere, perchè l’etica professionale ha il proprio peso e, se vogliamo, per lo stesso motivo per cui i chirurghi non operano al cervello solo per portare a casa la pagnotta. metterla su questo piano temo che sia anche frutto di un semplicismo de-ideologizzato, in cui la gente parla di queste cose senza sapere chi siano Jacques Lacan, Felix Guattari o Franco Basaglia. Non che sia obbligatorio saperlo, però magari uno si fa un’idea. Al limite, chiede a qualche terapeuta abilitato. E la sensazione generale è che possa esistere un forte movimento no psycho, che banalizza o irride la (portata/durata delle) sedute, considera dei poveracci quelli che lo fanno e via dicendo. Liberissimi di pensare quello che vogliono, altrettanto liberi noi pazienti di ignorare bellamente le loro (presuntuose) istanze.

    Persistono vari livelli di confusione, peraltro, in cui si può cadere. C’è un altro grande problema legato alla pretesa di oggettività della terapia, quando la disciplina è per sua natura soggettiva – e quello che vale per un caso clinico non vale per altri novecentonovantanove, di solito. C’è certamente l’aspetto a volte doloroso per alcuni del separarsi dal proprio terapeuta, un aspetto che per alcuni diventa tabù: ma è un passaggio necessario da affrontare con fiducia e coraggio, e che ho affrontato anche io. L’ho fatto nella mia piccola esperienza usando la soluzione sommessamente suggerita fin dai tempi di Freud: la terapia della parola, ovvero parlandone al mio terapeuta e identificando l’annesso demone. L’aspetto della dipendenza e della separazione fu oggetto di una critica esplicita già nell’anti-Edipo durante gli anni 70, e mi limiterò a ribadire che tanti problemi di questo tipo sono contestuali, e non tutto è controllabile o dipende da noi (lezione imparata con anni di terapia, peraltro).

    Nulla da obiettare sul fatto di scrivere articoli divulgativi su questi argomenti, qualcosa da obiettare sul fatto di renderli clickbait e di dar l’impasto alla solita folla informe e le boniana sui social, cosa per cui in effetti non mi sento di colpevolizzare nessuno. Non possiamo nemmeno farne una questione di durata, come se un muscolo dovesse abituarsi, come se fosse una questione di fare fisioterapia per 20 sedute o di allenare un po’ i bicipiti. Come se si trattasse di allargare le spalle o di scolpire il fisico, e tantomeno come se fosse normale che la terapia diventi una chiacchierata tra amici. Per favore: liberissimi di affidarvi a chi volete o meno, ma evitiamo il settarismo e soprattutto manteniamo (per il bene dell’umanità tutta) i limiti epistemologici. Non stiamo parlando di robot o macchine, ma di esseri umani. Al limite, di macchine desideranti. Senza peraltro scomodare questioni prettamente cliniche – che sono per l’appunto soggettive, e che ci risparmiamo di fare: per lo stesso motivo per cui non ci azzarderemmo a dare suggerimenti clinici a una persona che arriva in questo sito perché ha mal di denti, non ne abbiamo titolo e lo accettiamo pacificamente senza sputare sentenze sul prossimo.

    E poi sì, magari evitiamo l’altro equivoco molto italiano di confondere tra mille mondi diversi (sfumature diversissime: terapeuta, psicologo, motivatore, personal coach). Il problema di fondo delle terapie troppo lunghe è sostanziale ma non è risolvibile dall’esterno, per quello forse non era il caso di scriverci addirittura un articolo generalizzante e dal sapore pseudo-teorico, come se stessimo parlando della descrizione di un fenomeno fisico newtoniano che avviene sempre allo stesso modo, in un laboratorio di fisica del MIT come di fronte al bar sotto casa. L’errore di fondo è anche che viviamo in una società prettamente fideistica, ed è ormai radicato l’equivoco epistemologico, per lo stesso motivo per cui ci fidiamo meno dei medici e più dei santoni, meno dei terapeuti e più dei preti (forse), attribuendo una presunta “scientificità dura” ad una scienza che, al contrario, possiede la soggettività nel proprio statuto epistemologico, per quanto poi questo aspetto non sia ancora troppo valorizzato.

    Anche perché alla prova dei fatti la realtà è soggettiva e spesso più inosservabile di quanto vorremmo, quasi nessuno è davvero esperto di episteme, si relativizza la medicina e si oggettivizza la psicoanalisi e, nel mentre, nemmeno gli elettroni si fanno guardare. Suggerisco di leggere a riguardo, se interessa, sia l’articolo linkato che la sua versione ironico-parodistica: Guida pratica al gatto di Schrödinger. E soprattutto non banalizziamo i problemi nostri, tantomeno quelli altrui. Perchè ognuno ha i propri tempi, e vanno rispettati. (P.G.)