Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Dracula cerca sangue vergine… e morì di sete: il decamerotico horror di Margheriti

    Dracula cerca sangue vergine… e morì di sete: il decamerotico horror di Margheriti

    Il conte Dracula arriva nel nostro paese durante gli anni 30, assieme al suo insopportabile assistente, alla ricerca di ciò che in Romania sembra essere molto poco diffuso: giovani fanciulle senza alcuna esperienza in campo sessuale.

    In breve. Un film di Antonio Margheriti (sotto pseudonimo) che propone una variante, a tasso leggermente più erotico della media, al mito del celebre vampiro. Un film di vecchia scuola, influenzato dal gotico italiano ed incentrato interamente sulla ricerca di una giovane vergine italiana per sopravvivere. Grottesco e, quando necessario, sul filone del decamerotico.

    Come si può immaginare, il plot è uno scenario ideale per mostrare fanciulle vogliose di avventure erotiche, in molti casi represse dall’ambiente in cui vivono: le scene di nudo non sono poche, unite a  qualche momento di sesso per l’epoca piuttosto esplicito. Non mancano spunti ironici che rendono il film tutto sommato gradevole. L’atmosfera è puramente settantiana sia nell’ambientazione che nei velati riferimenti politici, espressi ad esempio nella figura del contadino dal bell’aspetto che se la intende con una delle giovani nobildonne. Tanto più significativa dato che nella casetta dove si appartano capeggia una falce e martello disegnata sul muro! Il film sembra dunque avere una doppia lettura: da un lato una metafora della borghesia (la nobiltà, esasperata nella figura di Dracula) che ha bisogno di sangue puro per sopravvivere (il contadino sfruttato, le fanciulle apparentemente innocenti); dall’altra, il perbenismo della maggioranza che cerca di sedurre i facinorosi con lusinghe irrinunciabili (il sesso tra nobildonna ed il contadino).

    “Non ricominciare con il socialismo! Lo sai che mi annoia a morte…”

    Esmeralda, Rubinia , Perla e Sapphiria sono le quattro figlie di nobile famiglia rigidamente cattolica, che nascondono uno strato di vizi insospettabili. Il mito del vampiro, del resto, non consentiva ampi margini di invenzione: Udo Kier è convincente nella parte del conte, mentre il film probabilmente rischia di annoiare un po’ lo spettatore moderno, per via del suo rallentamento (non diverso, per la verità, dalla media del gotico italiano). Ad ogni modo il gore estremo della scena finale vale il prezzo dell’allora biglietto (o del DVD, per i temerari di oggi).

    Per la cronaca, inoltre, si tratta dell’ultima apparizione sullo schermo del grande Vittorio De Sica: tutto sommato godibile, ben realizzato e divertente, anche se leggermente prolisso.

  • Quando Phillips reinventa Joker

    Quando Phillips reinventa Joker

    Gotham City: il clown e aspirante stand-up comedian Arthur Fleck viene maltrattato ed emarginato dalla società, oltre a perdere il lavoro per via di un’arma (che si è portato dietro per difendersi). Esasperato da svariate circostanze socio-psicologiche, sarà presto noto in città come il Joker.

    In breve. Notevole rilettura di Phillips, in chiave anti-eroica, di uno dei cattivi per eccellenza. Il regista ribalta l’assunto narrativo tradizionale, e mostra la storia dal punto di vista del protagonista, con una pregevole analisi sociologica annessa.

    Secondo la teoria del comico di Henri Bergson i motivi del riso sono misteriosi: per quanto l’autore abbia provato a formalizzarli in un discreto mattoncino di 138 pagine, resta il dubbio su cosa possa – o meno – suscitare il riso, e di quanto sia etico ridere, sorridere o schernire qualcosa. Il sorriso di Joker, del resto, è cristalizzato nell’immaginario collettivo da più di 70 anni (Joker nasce su carta nel 1940 grazie alla DC Comics), ma quello di Phillips è, sorprendentemente, un riso patologico: Arthur, infatti, è affetto da una forma compulsiva di risata, che non sa controllare e tende ad emarginarlo dalla società. È un malato cronico, insomma, e questo è probabilmente il primo punto da tenere a mente nella sua controversa rappresentazione.

    Il Joker di Todd Phillips focalizza la propria attenzione su un personaggio ben noto al pubblico (operazione che ricorda per certi versi il saggio su Leatherface, ad esempio) e ne esplora ogni risvolto;  lo fa soprattitto evitando qualsiasi meccanismo di identificazione del pubblico, come sarebbe stato lecito aspettarsi. Se è cosa molto comune simpatizzare per tanti anti-eroi o villain del cinema (ad esempio per quelli di Quentin Tarantino), nel caso di Phillips è impossibile farlo. Un secondo aspetto sostanziale della sostanza del film, insomma, che evita sia l’associazione con il consueto monolitico cine-comics (che parte del pubblico potrebbe, in teoria, pensare di vedere, e da cui questo Joker prende invece le distanze) sia il solito meccanismo di identificazione nel protagonista, che sarebbe tipico del cinema più “epico” e accattivante – favorendo così lo straniamento totale del pubblico. Ed è davvero notevole (oltre che un merito gigantesco di Phillips, a mio avviso) che un film che brutalizza così il rapporto tra opera e pubblico venga strombazzato (peraltro quasi sempre in positivo) dalla stampa.

    Se l’intero Joker è focalizzato sul trasmettere al pubblico perché (e per quali ragioni) Joker sia diventato un crudele e beffardo villain, prima ancora che un antagonista e nemesi di Batman (citato solo di striscio, almeno all’apparenza, giusto per non stravolgere completamente la narrazione), alla fine si tratta di un personaggio come molti ne potrebbero davvero esistere: solo, emarginato, incompreso, e secondo alcune analisi associabile ad un incel (neologismo del web per indicare gli involuntary celibate, ovvero i single involontari). Per quanto gli stereotipi e le classificazioni delle persone siano spesso spregevoli, soprattutto se la cosa nasce su internet, questa chiave di lettura è a mio avviso interessante, fermo restando che questo Joker è un film politico (senza essere anti-politico, il che non è poco) ed incentrato su uno dei migliori anti-eroi mai visti negli ultimi anni su uno schermo, in una sarcastica (quanto cupa) satira contro i mass-media, ed il cronico voyeurismo che li caratterizzerebbe.

    Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. […] Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. […] Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo conseguente. (G. Debord)

    Il focus sulla frustrazione sessuale degli incel, incapaci loro malgrado di trovare un partner, e rifiutati ripetutamente per i motivi più diversi, sembra essere ben figurata dal Joker di Phillips – per quanto i riferimenti al sesso ed alla solitudine del personaggio sembrino riguardare più che altro la società dello spettacolo. Non che il personaggio sia arrabbiato, banalmente, solo perchè non faccia sesso – chi la pensa così, per inciso, non fa parte del pubblico a cui è rivolto il film – ma la sua corrispondenza parziale con la figura dell’incel, il “mostro sbattuto in prima pagina su social network come Reddit, è abbastanza palese. Lo dimostra il suo compiacersi di uno stato che non ama, il suo auto-commiserarsi che non è fine a se stesso, ma possiede un’evoluzione prevedibile quanto shockante per lo spettatore (la scena finale nello studio televisivo). L’accusa di romanticizzare la cultura incel e compiacersi di ciò che mostra, del resto, sembra in effetti infondata, frutto di analisi superficiali ed accostamenti mentula canis che minano alla base stessa del cinema di genere: esplicitare la violenza, per alcuni, sarebbe riprovevole – per via di una potenziale emulazione in negativo del pubblico, del quale evidentemente non si ha troppa stima. Ma se funzionasse davvero così, a ben vedere, tutti i film sull’emarginazione e la solitudine sarebbero nel libro nero dell’Inquisizione Truzza da decenni: e nessuno avrebbe mai visto Nekromantik (che estremizza la mancanza d’amore nella necrofilia) o magari Izo (che la contestualizza in una società da sempre marcia e, anche lì, pregna di un mix perverso tra amore, sesso e violenza). In una sequenza di uno dei capolavori di Miike, del resto, si afferma nichilisticamente: “Cos’è l’amore? È una parola. Una parola non è necessariamente associabile alla fondamentale natura del suo significato.”). Gli stessi incel del resto, secondo certa vulgata fascistoide, dovrebbero non solo redimersi e omologarsi, ma addirittura sentirsi responsabili del proprio status, e farsi appellare come sfigati cronici (ed è quantomeno bizzarro che questa osservazione sia intesa da alcuni come una rassicurante “soluzione” al problema).

    Del resto se questo Joker è socialmente incazzato con il mondo, la sua rabbia dipende da molti altri fattori (infatti va da una psicologa) ed è progressiva: la vediamo sorgere e crescere a suon di soprusi subiti. È, insomma, generata dalla società, dalla famiglia e dalle circostanze: la madre solo apparentemente mite, la vicina di casa da cui è attratto senza volerlo riconoscere, il governo che taglia i fondi per la sua assistenza sociale, il lavoro che stenta, il sogno di fare il comico che si scontra con il gelo del pubblico (e con l’unica eccezione di Sophie). Del resto, il paradosso più feroce del film risiede proprio nell’ambizione del personaggio, sincera quanto sprovveduta, di voler far ridere, rendere felici le persone, mentre prova profonda frustrazione nel non riuscire a farlo.

    Il tutto prosegue in un delirio di violenza indotta, con ulteriori soprusi del proprio capo – passando per i bulletti che lo malmenano e naturalmente i giovani rampanti di Wall Street che lo aggrediscono in metro (e che, guarda caso, poco prima di farlo, parlavano di donne, compiacendosi del proprio essere predatori). Certo quello di Joker non è un meccanismo narrativo nuovo o innovativo, e ai più smaliziati potrà quasi sembrare scontato: ma non c’è bisogno di scomodare Taxi Driver per capirlo, per intenderci, per quanto il regista sia stato il primo (forse un po’ furbescamente) a suggerirlo. Il capolavoro di Scorsese, in effetti, c’entra con Joker soltanto per sommi capi, mentre questo film mostra più che altro derivazioni ed influenze – a livello di regia e ambientazione – che citano, senza scomodare ulteriori paragoni fuori bersaglio (per non dire peggio), soprattutto Requiem for a dream: vedi la dipendenza cronica di madre e figlio dalla TV, e la rispettiva ambizione di parteciparvi come protagonisti, destinata anche lì a collassare in una spirale di morte e distruzione.

    Con una differenza fondamentale: a differenza del finale devastante di Aronofsky, Joker mostra che è possibile (forse) ribellarsi alla propria condizione, reagire e sentirsi liberi, ma che l’unico modo per farlo sia quello di ricorrere alla violenza. Joker, in altri termini, non suggerisce banalmente alla “ggente” di incazzarsi a caso, reagire di pancia o vendicarsi su chi capita (come la versione cinematografica di V per vendetta aveva un po’ populisticamente fatto, ad esempio, e cosa che l’omonimo fumetto, per inciso, si guarda bene dal fare. Sarebbe anche il caso di citare, sempre di Alan Moore, Batman: The Killing Joke, che potrebbe avere punti di contatto con questo film a vari livelli). Joker, insomma, ricorre ad una violenza che è catartica, liberatrice, simbolo di un cambiamento radicale che è necessario imporsi, probabilmente sviluppando una giusta dose di libertà e cinismo. La prova della fondatezza di questa considerazione arriva da una sequenza importante: subito dopo aver ucciso i tre ragazzi in metropolitana, vediamo Joker entrare in casa della vicina e baciarla all’improvviso. La sua liberazione è a quel punto ufficiale, in un certo senso, e da lì partirà il processo che finirà per renderlo addirittura protagonista di uno show televisivo, in bilico tra un ego mite e mansueto ed uno crudele e spietato. Non sappiamo se quel bacio sia realmente accaduto o sia soltanto un sogno o un’allucinazione (tantissimo del film vive su questa ambigua doppiezza), ma il messaggio sottinteso è la presa di consapevolezza di un personaggio che ricorre, nei fatti, alla famigerata ultra-violenza (avrebbe abbastanza senso citare Arancia Meccanica, a questo punto) per uscire dal proprio disagio: questo in senso sia letterale che, direi soprattutto, figurato.

    Il tutto nonostante le ambiguità del finale, che farebbero pensare ad una gigantesca allucinazione di un protagonista che era, in realtà fin dall’inizio, semplicemente un folle in un manicomio: un twist che, se fosse confermato, renderebbe lecito accostare le conclusioni a quelle de Il gabinetto del dottor Caligari.  Una storia, in definitiva, molto semplice da raccontare, quanto necessaria a rendere un messaggio così complesso del tutto totalizzante e, almeno in parte, comprensibile al pubblico mainstream.

    E questo, da cinefili incalliti o meno, non potrà che farci piacere.

  • Ab-normal beauty: l’anormale bellezza di Pang

    Ab-normal beauty: l’anormale bellezza di Pang

    Ab-Normal Beauty è una produzione del regista Oxide Pang del 2004, che fonde alla perfezione molti degli stilemi caratteristici del cinema horror nipponico. Agli spettatori più viziati, in un certo senso, non potrà non venire in mente la saga di The Ring, The Eye (di cui il regista fu il medesimo Pang, assieme al fratello Danny) ma anche la saga di Saw – L’enigmista. Un film a doppia faccia: horror psicologico a tinte oscure nella prima parte, frenetico e degno dei migliori anni 80 nella seconda.

    In breve: Pang realizza un buon thriller nel classico stile nipponico. Piuttosto lento nella prima parte, accelera vorticosamente nella seconda.

    La storia si sviluppa in una sorta di narrazione introspettiva, incentrata sulla personalità oscura della giovane Jinèy, studentessa di arte dalle spiccate doti e con una passione morbosa verso la fotografia. Dall’inizio del film la sua arte è condivisa assieme all’amica Jas, che sembra provare una torbida attrazione nei confronti della compagna. Improvvisamente Jinèy scopre, dopo aver assistito ad un incidente stradale, che quello che desidera di più è fotografare gli ultimi istanti della vita: la morte in diretta. Congelando quegli istanti in immagini morbose e shockanti, la ragazza non fa altro che esorcizzare un trauma infantile che non ha mai rimosso: un gruppo di ragazzini, tra cui il cugino, che anni prima l’avevano molestata.

    Tale ricordo doloros le impedisce di provare sentimenti per il mondo che la circonda, compresa la madre troppo presa dal proprio lavoro ed il giovane ed impacciato collega Anson. La personalità morbosa e crepuscolare di Jiney, quindi, le impone di seguire l’ istinto di procurarsi morbosi book fotografici, effettuare scatti ad animali uccisi, o addirittura riprendere un suicidio in diretta. Appena convitasi a liberarsi di tutte quelle terribili immagini, Jinèy si imbatte in un serial killer che inizia a perseguitarla – prima con semplici fotografie, e poi con una videocassetta contenente quello che sembra uno snuff a tutti gli effetti. Molto presto quelle che non erano che fantasie estreme diventano una realtà cruenta, visto che il maniaco di turno sembra intenzionato a metterle in pratica contro di lei.

    Costellato di sequenze sconnesse azzeccatissime, riempito da tempistiche spesso surreali, dentro Abnormal Beauty il regista rappresenta alla perfezione il mondo di Jinèy, fatto di frammenti di vita tormentati e sensazioni mai pienamente vissute. Alcuni passaggi del film, probabilmente per accentuare l’effetto chiaro-scuro, sono probabilmente troppo stucchevoli per un’opera del genere, riuscendo tuttavia a rendere l’idea in modo tutto sommato “gradevole” (ammesso che sia lecito usare questo aggettivo per un horror).

    La caratterizzazione dei personaggi è efficace, anche se alcuni di essi sembrano essere usciti da un manga giapponese, da cui ereditano una certa ingenuità (Anson, che entra nella trama un po’ forzatamente, ad esempio): Jinèy stessa, pur possedendo una personalità affascinante, malinconica e ben delineata, a volte indugia troppo in sguardi fissi nel vuoto, tanto da risultare un po’ finta, se vogliamo. Se non fosse, quindi, per l’indubbio spessore della trama, e per il trauma di fondo – la chiave di lettura del tutto – raccontato con agghiaccianti flashback in bianco e nero, staremmo qui a parlare dell’ennesimo horror adolescenziale, con tanto di serial killer insospettabile e solito corredo di aria fritta. Non si tratta di questo: posso dirlo con certezza, così come rimango convinto che la parte migliore del film sia tutta concentrata nel finale: un crescendo di gore e tensione per la gioia dei cinefili più smaliziati, mentre la prima parte è dedicata a tempestare la mente del pubblico più propenso alle introspezioni intellettualoidi.

    Ab-normal Beauty è, in definitiva, uno dei migliori horror recenti che abbia avuto occasione di vedere.

  • Audition di Takashi Miike parla di amore, splatter e friendzone

    Audition di Takashi Miike parla di amore, splatter e friendzone

    Il film sull’amore ed i suoi risvolti morbosi del grandissimo regista giapponese: uno dei capolavori thrillerhorror del secolo scorso.

    In breve: si rappresenta un orrore interiore, forse uno dei più temuti ed irrazionali che possano esistere: quello delle nuove relazioni con un’altra persona. Nonostante la prima parte faccia temere una storia melensa, la forza del film è proprio nel contrasto tra quest’ultima e le agghiaccianti – e a tratti insostenibili – conclusioni. Un piccolo capolavoro dell’horror, spaventoso quanto realistico (e sostanzialmente inevitabile) molto forte visivamente quanto particolarmente cruento.

    Un vedovo (Aoyama) si convince, dopo sette anni dalla morte della moglie, a rimettersi alla ricerca della donna della propria vita: su suggerimento di un amico produttore, inizia a vagliare le schede di presentazione di diverse ragazze, in occasione di un’audizione cinematografica. La sua speranza è quella di trovarne una di proprio gradimento, magari sensibile, colta ed amante della danza. Il destino vuole che si metta in contatto con l’apparentemente dolce e gentile Asami (l’affascinante Eihi Shiina di Tokio Gore Police), reduce da una serie di traumi infantili ma, al tempo stesso, di natura terribilmente ambigua. A nulla valgono, a quel punto, gli inviti dell’amico produttore a razionalizzare la situazione: la storia degenerà in un delirio di violenza e sottomissione.

    “Io non sono nato ieri, e ti assicuro che non mi farò prendere in giro, e mi fido più del mio istinto che delle opinioni altrui”

    Eli Roth pare si sia ispirato pesantemente a questo film per sviluppare i suoi Hostel e Hostel II: quello che il regista è riuscito a fare in “Audition” è di esaltare fino al parossismo la crudeltà dell’amore, fatto di una componente drammatica, struggente e per certi tratti melensa, in aggiunta ad una ulteriore in cui l’orrore, prima solamente interiore, diventa fisico, esplicito e prepotente. Tanto più terrorizzante poichè il sottotesto è costituito da situazioni che, con i vari limiti del caso, qualsiasi essere umano potrebbe aver vissuto: del tipo un/una affascinante amato/a il quale, dopo aver seminato amorevolmente il terreno, scompare improvvisamente senza dare spiegazioni. Esattamente quello che viene rappresentato nella parte finale del film, in cui realtà e fantasia si confondono più volte e, di fatto, la sadica sottomissione a cui la protagonista (splendidamente delineata) sottopone il suo uomo diventa simbolo del trionfo definitivo del forte sul debole.

     “Ama solo me”

    Niente è quello che sembra, l’amore finisce spesso per illudere pregiudizialmente chi lo sta cercando e finisce per portarci alle contraddizioni più insostenibili, che qui – essendo un horror – sconfinano ovviamente nello splatter meno raccontabile che si possa pensare. Il regista, con Audition, sembra compiacersi nel demolire le convinzioni del suo pubblico, rappresentando un quadro nel quale è facile passare da felici innamorati a succubi assoluti, disposti proprio malgrado a subire violenza fisica da parte dell’amata. Al di là dell’ottima interpretazione di Asami, tanto mite e riservata quanto feroce e crudele, da ricordare almeno un paio di sequenze presenti nel film, come la decapitazione e l’amputazione dei piedi mediante un filo di ferro, e qualche dettaglio gore piuttosto disgustoso (oltre che tipico di questo sottogenere di horror).

  • La vestale di Satana: uno dei primi horror satanici, di Harry Kümel

    La vestale di Satana: uno dei primi horror satanici, di Harry Kümel

    Stefan e Valerie sono una coppia di novelli sposi che si ferma in un albergo di Ostenda prima di prendere il traghetto che li porterà in Inghilterra. Nel luogo sopraggiunge la contessa Elizabeth Bathory, che inizia a mostrarsi gentile e disponibile nei confronti dei due…

    Recensendo un classico del cinema horror come questo diventa difficile proporre considerazioni che non cadano nel “già sentito”; al tempo stesso, tuttavia, appare altrettanto irrealistico pensare che pellicole come quella di Kümel siano prive di difetti, oppure illudersi che non abbiano influenzato le rappresentazioni successive (quelle sui vampiri, nello specifico). Di fatto, la stessa etichetta orrorifica finisce in questo caso per risultare un po’ stretta, e questo nonostante il titolo evocativo che fa pensare, erroneamente, ad un film di natura occultistica o satanica.

    Al bando le banalità, quindi, che mi sembra anche il modo più corretto per approcciare alla visione della pellicola. Anzitutto “La vestale di Satana” è una sorta di “studio di atmosfera” pregno di un certo sperimentalismo: certo non si deve pensare alle estremizzazioni pittoresche di Begotten quanto al clima inquietante del celebre “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” ma anche de “L’inquilino del terzo piano” (Polanski condivide i natali con il regista Kümel, ammesso che conti qualcosa). C’è da aggiungere, inoltre, che la storia di vampiri segue una dinamica piuttosto classica, anche se il mito della sanguinaria contessa Bathory viene soltanto citato (e con un certo compiacimento sadico-erotico, c’è da sottolineare), mentre le gesta della protagonista diventano una sostanziale (e convincente) variazione sul tema, con alcuni spunti realmente spaventosi e suggestivi.

    Al regista, di fatto, non sembra interessare la ricerca di un modo innovativo o troppo originale per spaventare il pubblico, quanto riuscire a delineare la natura perfida ed ambigua dei vampiri richiamandosi, dunque, alle atmosfere cupe e spesso poco esplicite tipiche dei succitati film di Polanski. Per completezza ed onestà c’è da aggiungere che vedere oggi “La vestale di Satana” è un’esperienza che può far sconfinare lo spettatore nella noia, anche piuttosto facilmente visto quanto si è deciso di diluire una trama che, tutto sommato, avrebbe potuto essere compressa di qualche minuto. Scelte tutto sommato rispettabili, visto che si tratta di cinema sostanzialmente contemplativo e quasi “al di là del bene e del male“, criticabile nella misura in cui è lecito farlo in rispetto ai gusti dei cinefili più affezionati e con qualche momento spaventoso solo nella parte finale, senza dimenticare qualche sprazzo cult (la celebre scena nei pressi della doccia).