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  • La vera storia del meme «Chill guy»

    La vera storia del meme «Chill guy»

    Phillip Banks è il nome dell’artista autore del meme distribuito con nomi differenti, in genere “chill meme” o “chill guy“, letteralmente un “tizio rilassato”, dove la parola chill, “freddo”, “rigidezza”, “rigore”, va qui inteso come espressione gergale per indicare qualcuno che viva il proprio tempo in modo piacevole e senza eccessivi pensieri. Il suo account X / Twitter è ad oggi molto attivo, da quello che vediamo, e pubblica per lo più contenuti ironici o auto-ironici.

    Non si sa molto altro di Phillip Banks, se non che si tratta dell’omonimo del personaggio reso celebre dalla serie TV anni 90 Willy il principe di Bel Air. Sappiamo pure che Banks si oppone fermamente a qualsiasi utilizzo commerciale della sua opera senza consenso, in considerazione della grande adozione del suo disegno da parte di molte criptovalute uscite fuori sul web negli ultimi anni.

    Copyright: Philips Banks – https://x.com/phillipbankss

    Sebbene l’opera abbia avuto un notevole successo dopo la pubblicazione online, è diventata virale ad agosto 2024, quando un utente di TikTok ha creato una presentazione che la includeva tra i meme più interessanti visti online. Da lì in poi è stato un dilagare di nuove citazioni, che hanno ottenuto numerose visualizzazioni sui social, al punto di suscitare l’attenzione delle multinazionali Halo e Sprite.

    Cosa significa il chill meme

    Quello del chill meme è un cane dall’aria serena e composta, che sorride vagamente e che indossa un maglione grigio. Le mani sono in tasca, in un mood di silenziosa sicurezza di sè. Ogni dettaglio del suo essere, dal posato sguardo alle calzature ordinate, trasmette un messaggio che non è soltanto visivo, ma esistenziale: l’ideale del “chill”, quello stato d’animo in cui la vita si svincola dall’ansia per abbracciare un’armonia semplice e leggera.

    Secondo l’interpretazione più diffusa l’opera ha avuto successo come meme in quanto è stato considerato un invito riconoscibile, divertente e diretto a ricorrere all’autocontrollo nella vita di ogni giorno, sia utilizzando magari la psicoterapia o la psicologia oppure, ancora, i classici manuali di auto-aiuto (il mai abbastanza citato Fattore fortuna di Richard Wiseman, ad esempio). Il messaggio è quello di cercare di rimanere senza stress e affrontare la vita con un atteggiamento più rilassato di quanto la sregolazione emotiva media possa suggerire.

    Questo cane, che è ormai noto come the chill guy o chill meme, si erge a simbolo di una filosofia di vita: vivere serenamente senza il peso della frenesia, trovando il proprio equilibrio in un modo o nell’altro.

    Sarebbe un meme come tanti altri, ma qualcosa è profondamente diversa dalla media: il creatore dell’opera, Philip Banks, ha iniziato una battaglia per preservare l’aspetto artistico della sua creazione, opponendosi al suo uso commerciale, nello specifico in contesti legati alle criptovalute.

    Per rispettare la sua scelta, per inciso, su questa pagina abbiamo scelto di non inserire inserzioni pubblicitarie di alcun genere.

  • Perchè la coerenza è sopravvalutata (una provocazione)

    Perchè la coerenza è sopravvalutata (una provocazione)

    La parola coerenza deriva dal latino cohaerentia (l’essere unito) e tende generalmente ad assumere una valenza mentale, oltre che di presunta “solidità” psicologica. Se sei coerente voilà, sei a posto (in apparenza): è come essere credente in chiesa, metallaro a un concerto, con mille pagine già battute di fronte al tuo editore. È nell’ordine delle cose, essere coerenti, e soprattutto ordina le tue cose: sei coerente, per cui agisci secondo i tuoi principi e tanto basta. Del resto coerenza è il contrario di disomogeneità, disorganicità, frammentarietà, rappresenta lo stare uniti, stare assieme, usando un termine desueto potremmo anche dire sentirsi agglutinato, che fa presa con gli altri e dentro di te. Agglutination era (è stato) un celebre festival metal nonchè una delle rare occasioni di aggregazione metallara nel sud Italia. Nulla di male nella coerenza, insomma, e non sarà certo un articolo a far cambiare le cose. Coerenza intesa come generica costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni, come da manuale, non farebbe mai di per sè urlare allo scandalo in alcun modo, anzi. Il problema sta altrove (come sempre, direbbero i benaltristi).

    Esiste una forma di coerenza che non ci piace, e non riusciamo ad ammetterlo. Non la troviamo un valore desiderabile o, quantomeno, offre meno vantaggi e cose di cui andare orgogliosi di quanto potrebbe sembrare. La coerenza va sempre contestualizzata e compresa a fondo, prima di considerarla un valore positivo. Del resto già Sigmund Freud aveva notato, nella sua Psicologia delle masse, che un manipolatore che volesse condizionare un gruppo di persone

    non ha bisogno di coerenza logica fra i propri argomenti; deve dipingere nei colori più violenti, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa.

    Gli strumenti di comunicazione ambigui, pericolosi e potenzialmente minacciosa della democrazia – intesa nel senso più ampio del termine, non solo politico ma anche sociale, emotivo ed economico – sono quelli della manipolazione, dello sfruttamento di bias cognitivi radicati nell’uomo fin dalle sue origini. Non fanno leva, questi strumenti, sul semplice fatto di sentirsi tranquilli perchè (mantra rassicurante) “ci siamo comportati come sempre abbiamo fatto“, “siamo stati coerenti e va bene così“. La coerenza di base permette di costruire senso e personalità alla vita, ovviamente, ma può diventare un’arma infida che potrebbe rivoltarsi contro. La coerenza ostentata aiuta a renderci unici o inimitabili (e neanche sempre) ma può portare, in altri termini, a ripetere sempre gli stessi errori e/o pattern, cosa che molte band metal  dopo aver prodotto capolavori negli anni 80 e 90 hanno finito per fare, diventando una parodia del genere.

    La coerenza è anche un modo per arroccarsi nelle proprie posizioni senza dare spazio all’altro, anzi investendolo di insulti e umiliazioni (peggio che peggio sui social, sfruttando l’illusione dell’anonimato digitale). Diventiamo parodie di noi stessi con il paravento della coerenza.

    Lo scrittore Ralph Waldo Emerson parlava, a riguardo, di uomini perennemente con la testa dietro le spalle, timorosi di essere ciò che vorrebbero essere, spaventati dall’idea di fare alcune cose o di pensarle (tra cui il diritto di cambiare idea, uno dei tabù del mondo moderno), alla ricerca di una fantomatica coerenza con il passato o, per dirla con le sue parole:

    Perché trascinarti dietro il cadavere della memoria, per paura di contraddire quel che hai detto e fatto in questo o quel luogo pubblico?

    Perchè, in altri termini, usare la coerenza come paravento per negare, negandosi a se stessi e agli altri, impedendosi di migliorare le cose per una malintesa forma di “coerenza” col proprio passato? Il punto dovrebbe essere esattamente questo, ed è proprio questa frase ad aver ispirato questo insolito rant contro il mito della coerenza ad ogni costo e in ogni dove.

    Perchè in fondo la coerenza può cedere il passo all’intelligenza, e qualora diventasse cristallizzata, morbosa o spigolosa può diventare qualcosa di cui preoccuparsi, da correggere, limare e lavorarci su. Fermo restando che la sua variante sana ha pieno diritto di esistere, e che potrebbe essere almeno un faro in grado di guidare le nostre vite e la sanità delle nostre azioni, con l’elasticità di liberarcene quando non ci serve e riprendercela se ne abbiamo davvero bisogno. La coerenza come scusante per non essere … no, non dovrebbe albergare in nessuno di noi.

    L’incoerenza può essere una linea di fuga da logiche troppo stringenti in cui non ci riconosciamo più.

    Photo by Raamin ka on Unsplash

  • La vera storia di Deep Blue, il computer che vinse a scacchi contro Gasparov

    La vera storia di Deep Blue, il computer che vinse a scacchi contro Gasparov

    Sono passati quasi trenta anni da quando Gasparov, campione russo, si trovò a perdere nel febbraio del 1997 una combattutissima partita a scacchi contro Deep Blue, un computer programmato in linguaggio C dalla IBM appositamente per lo scopo. Se le caratteristiche tecnologiche della macchina sono ben note (c’erano 480 processori e un’architettura parallela VLSI), è meno noto l’aspetto puramente psicologico legato alla gara. A quanto ne sappiamo, infatti, Gasparov si fece fuorviare dalle proprie convinzioni sul comportamento dell’algoritmo che lo stava sfidando e, a suo modo, fece una stima sulle sue potenzialità che lo portò in errore.

    Come raccontò più volte in seguito, infatti, il campione russo si era fatto mandare fuori strada da un “comportamento” specifico di Deep Blue, il quale a volte indugiava sulla prossima mossa più del dovuto. Aveva già “deciso” cosa fare, ma aspettava a farlo per un quanto di tempo casuale. Dal punto di vista dei programmatori della IBM si trattava di semplici pause randomiche in cui Deep Blue non faceva nulla, fingeva letteralmente di elaborare e questo, naturalmente, realizzava un comportamento pseudo umano che spinse il campione di scacchi a sottovalutare la situazione. Alla lunga, per quanto avvenne con un solo punto di stacco, la partita finì 3 a 2 per Deep Blue.

    La combinazione di vari bias cognitivi coinvolti nella partita dimostra quanto sia complesso il rapporto tra mente umana e intelligenza artificiale. Sebbene Deep Blue fosse tecnicamente superiore nel calcolo, la componente psicologica ha giocato un ruolo fondamentale nel risultato, rendendo questo evento storico un’illustrazione perfetta di come le percezioni e i pregiudizi influenzino anche i campioni più brillanti.

    La sconfitta di Garry Kasparov contro Deep Blue è un caso affascinante che mette in luce diversi bias cognitivi coinvolti nella sua interpretazione del comportamento della macchina. Analizziamoli:

    1. Bias di antropomorfismo
      Kasparov attribuì a Deep Blue caratteristiche tipiche di un comportamento umano, come il “pensare” o “indugiare”. Le pause randomiche della macchina, progettate per sembrare naturali, lo portarono a credere che l’algoritmo fosse in grado di una riflessione più complessa e strategica di quanto effettivamente fosse.
    2. Bias di conferma
      Una volta convinto che Deep Blue stesse “pensando” come un essere umano, Kasparov cercava prove per confermare questa idea. Interpretava le pause come segnali di una strategia raffinata, invece di considerarle per quello che erano: semplici pause preprogrammate.
    3. Bias dell’intenzionalità
      Kasparov attribuì intenzioni al comportamento della macchina, pensando che le sue mosse e le sue pause fossero progettate deliberatamente per disorientarlo, piuttosto che derivare da calcoli algoritmici privi di intenzionalità.
    4. Bias dell’overthinking (sovrapensiero)
      Kasparov, noto per la sua capacità di calcolo mentale, potrebbe essere caduto nella trappola di sovrastimare l’intelligenza di Deep Blue, analizzando ogni sua mossa come parte di una strategia a lungo termine, invece di vederla come il risultato di pura elaborazione numerica.
    5. Effetto framing (cornice)
      La presenza di Deep Blue come una macchina rivoluzionaria, costruita da IBM con enormi risorse, probabilmente influenzò il modo in cui Kasparov approcciava il confronto. Potrebbe aver interpretato l’intera partita in un quadro di superiorità tecnologica, portandolo a percepire la macchina come invincibile.
    6. Effetto Dunning-Kruger inverso
      Questo effetto può manifestarsi quando un esperto come Kasparov sottostima le proprie capacità in un contesto nuovo (giocare contro un supercomputer), sopravvalutando quelle del “rivale”, anche in situazioni dove potrebbe avere ancora il vantaggio.
  • Chi è Robert Eggers

    Chi è Robert Eggers

    Regista classe 1983, Robert Eggers rappresenta probabilmente uno dei registi più innovativi e discussi degli ultimi anni, soprattutto in relazione alla sua idea di folk horror.

    Sposato con Alexandra Shaker, una psicologa clinica che conosce fin dall’infanzia, vive a Brooklyn con un figlio di nome Houston. Il regista ha iniziato la sua carriera come scenografo e regista di produzioni teatrali a New York prima di passare al cinema, per cui è diventato celebre soprattutto per The Vvitch del 2015, film che è stato acquisito dalla casa di produzione A24 per la distribuzione a livello mondiale.

    Il film successivo di Eggers, The Lighthouse (del 2019), è stato anch’esso un film d’epoca e ha ricevuto il plauso della critica. Ha diretto il film da una sceneggiatura che ha co-scritto con suo fratello, Max, e vede protagonisti Robert Pattinson e Willem Dafoe. Nel 2022 è uscito il film epico vichingo ispirato a The Northman, con Alexander Skarsgård, Nicole Kidman, Anya Taylor-Joy, Ethan Hawke, Björk e Willem Dafoe – ancora una volta.

    Da molto tempo si vociferava che fosse in programma un remake di Nosferatu del 1922, che Eggers realizza in modo brillante. Eggers ha collaborato spesso con il direttore della fotografia Jarin Blaschke e la montatrice Louise Ford. Gli attori Ralph Ineson, Anya Taylor-Joy e Willem Dafoe sono apparsi in molti dei suoi film, mentre il compositore Mark Korven ne ha composti due.

    È soprattutto il folk horror che si lega a Eggers e alle sue produzione cinematografiche più celebri. Cos’è il folk horror e cosa intendiamo con lo stesso? Questa forma di horror “popolare” è un sottogenere filmico / narrativo che sfrutta elementi del folklore al fine di evocare un senso ancestrale di paura. Per quanto la classificazione sia meno ovvia e scontata di quella, ad esempio, di uno slasher movie, possiamo annoverare nel folk horror prima di tutto pellicole come The Wicker ManAntrum, Antlers, l’horror italiano Oltre il guado e, con qualche riserva, addirittura il vituperato e discusso The Blair Witch Project. Non fosse altro che, a conti fatti, non sembra che ci debba essere un’estetica particolarmente raffinata dietro un film folk horror, ma si tratta più di collocare le origini del male o del dolore in un luogo specifico, geograficamente identificabile, e che questa identificazione faccia parte della suggestione in sè (un po’ come avviene con la leggenda del mostro di Lochness, ad esempio).

    È  altrettanto chiaro che film come Road to L, Zeder e Il signor diavolo non siano difficili da inserire nella tradizione folkloristica declinata in chiave spaventosa, nel folk horror che sta rendendo famoso Eggers. Anche La casa dalla finestre che ridono potrebbe rientrare nel gruppo, perchè l’orrore che si rivela non è propriamente universale, alla Lovecraft, ma è legato alla caratteristica di un luogo specifico, a cui sono associate ad esempio storie di stregonerie, culti esoterici o pagani e via dicendo. Il richiamo all’ancestrale è certamente comune a qualsiasi horror, e non basta – a nostro avviso – per creare il contesto in cui inserire film di genere folk horror, che risulta così di difficile ulteriore formalizzazione. Eggers sembra avere le idee chiare in merito, dato che tutti i film che ha diretto presentano elementi del genere a cominciare da The Northman, legato alle tradizioni vichinghe (anche se non horror, questa volta), a continuare con l’horror stregonesco The Vvitch e a finire con il recente Nosferatu, che ha riportato in auge il mito del vampiro.

  • Nosferatu di Robert Eggers ci parla del gotico

    Nosferatu di Robert Eggers ci parla del gotico

    Rialzati o cuore, sballottato da tormenti infiniti e oscura solitudine. Resisti contro chi ti minaccia con una croce in mano o ti accerchia fra luci tremule di un villaggio superstizioso. E se l’alba ti uccide, non disperare. E se la notte è tua, non gioire. θυμέ ἄνα δέ. Rialzati, o cuore, sulla nostra oscurità interiore.  L’apostrofe è una figura retorica con cui l’autore si appella al proprio lettore, e nel caso di Archiloco (qui citato in meta-versi che non ha mai scritto, ma che avrebbe potuto – se avesse conosciuto la figura di un vampiro) è un modo artistico per appellarsi all’animo.

    Un appellarsi oggi inconsueto dato che la figura di Dracula è relegata a un immaginario quasi svanito, al limite dell’irraccontabile, del vetusto. Un racconto smarrito in mille divagazioni sul tema che hanno finito, alla lunga, per renderlo ben lontano dall’essenza radicale della sua prima versione. Perchè vale la pena ricordare che il conte Dracula (se preferite, il conte Orlok) è Il non-morto, espressione di un desiderio che non trova pace, oltre che ben diverso dal vituperato morto vivente. Il vampiro come espressione solipsistica della volontà di inseguire il desiderio, persi nel sogno dell’immortalità, nell’ombra di una pulsione di morte ben cristallizzata narrativamente.

    Eppure nel racconto originale Dracula sarà addirittura grato a Van Helsing, alla fine, e questo per avergli consentito, con la sua distruzione, di poter finalmente riposare in pace. Allo stesso modo (mentre si osserva in silenzio l’incedere di una storia che, per Eggers, è orrore come pura idea) l’animo di chi guarda è tormentato da richiami ancestrali a valori eterni, che vanno dal mito dell’eterna giovinezza a quello, più desueto, di un amore senza fine, in grado di risorgere ogni notte a patto di trovare nuovo sangue. Per quanto si possa essere profondamente disillusi e distratti dalla quotidianità, a conti fatti, quella di Nosferatu continua ad essere una storia che strugge, appassiona, disorienta – per quanto sia ben nota, come di un amore non ricambiato, a senso unico, destinato a fallire eppure intenso, per il quale verremmo biasimati da chiunque – lo stesso biasimo di chi oggi non amerà questa pellicola, perchè dai, ancora con Dracula state, ma basta – una follia senza mordente, puro masochismo, uno strazio che avresti potuto evitare eppure hai deciso di viverlo, se non altro fino all’alba – il momento simbolico in cui quel sogno svanisce.

    Da un lato cinematografico il tema dei vampiri è tra più noti e sfruttati nella storia, e non è mai agevole riproporne uno senza auto-relegarsi al ruolo di ennesimo cineasta da b movie. Cosa che questo Nosferatu si guarda bene dall’essere. Un vampiro del genere forse oggi fa sorridere, al limite in chiave grottesca o satirica, fa alludere di riflesso ad una sensualità immortale, come dire, è difficile crederci, è particolarmente difficile onorare il patto spettatore-regista legato alla sospensione di incredulità. Non è agevole prenderlo sul serio, soprattutto dopo che decine di opere lo hanno di fatto privato dello spirito del suo tempo – quello fatto di oscura malinconia, terrore sublimato e rappresentazione del desiderio e della sua pura, irraccontabile, oscena, inevitabile perversione.

    Ciò di cui parliamo pone una svolta, perchè Eggers relega il mito del vampiro ad un mondo antico, fitto di superstizioni ancestrali e mitologie occulte. Un mondo essenzialmente pagano e dalla fatua modernità (fatua perchè i topi invaderanno la città, portando la peste e la quarantena), in cui anche le persone più razionali sono segretamente attratte dal mondo dell’occulto. Poco importa che la scienza stia nel frattempo muovendo i primi, timidi passi, perchè conta solo la suggestione del pensiero magico. Soprattutto siamo in un mondo in cui la medicina era ancora poco sviluppata, non esistono ancora psicologia e psicoanalisi – per cui i deliri mistico-malinconici di una donna come Ellen Hutter, protagonista centrale del film, alla ricerca di una figura indefinita da cui si sente attratta, viene banalmente declassata ad esaurimento nervoso – e per l’epoca in cui viviamo, per inciso, tanto vale legarla al letto, in caso esagerasse. La singolarità del Nosferatu di Eggers, del resto, è anche quella di averlo costruito su un archetipo femminile fragile emotivamente quanto decisivo narrativamente, al punto di restituire l’arcaico mistero della storia originale di Bram Stoker in una chiave rivoluzionaria e, a ben vedere, ben adeguata alla modernità.

    Di Maxpoto - https://www.youtube.com/watch?v=b59rxDB_JRg, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10166607
    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=b59rxDB_JRg, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10166607

    Il film di Eggers risulta pertanto un gotico oscuro, solo in apparenza fuori tempo massimo, espressione di un folk horror ancestrale dal montaggio snello, in cui nulla è di troppo e tutto è funzionale alla trama. Ne risulta un lavoro asciutto e perfetto nella forma, che saprà essere divisivo per il pubblico abituato alle versioni fumettistiche, vuotamente romantiche e accattivanti dei vampiri. Nosferatu relega, in altri termini, la narrazione agli aspetti più oscuri e antichi del gotico, riportandolo alle origini dell’orrore, con la stessa convinzione oscura che doveva avere Bram Stoker quando mise mano al proprio Dracula.

    La migliore versione della storia, senza timore di esagerare, forse dai tempi di Dracula di Francis Ford Coppola di inizio anni NOvanta, considerando pure che la saga vampirica ispirata al conte è sempre vissuta di alti e bassi, di titoli altisonanti quanto vacui, e di lavori meno noti o più sostanziali: basterebbe considerare la varietà tematico-stilistica di opere come Blade, Underworld, Intervista col vampiro, Hanno cambiato faccia, la saga di Twilight, Miriam si sveglia a mezzanotte, L’ombra del vampiro per rendersene conto. Da troppo tempo si trattava di un jolly narrativo da spendere a casaccio, privato dell’oscuro mood gotico che lo rendeva una delle migliori opere horror mai pubblicate, al pari dei capolavori di Lovecraft e Poe. Qui si torna alle origini, e lo si fa con la convinzione dello stesso cineasta che ha prodotto folk horror immarcescibili come The Vvitch.

    Eggers si richiama sia al Nosferatu di Murnau che a quello di Herzog, ricalcandone creativamente lo spirito e i contenuti e adeguandoli ai tempi che cambiano. Soprattutto conferendo alla trama un insolito (per un film di vampiri) spessore psicologico ai personaggi, per i quali i limiti tra psicosi e malattia organica sono sempre labili, in grado di lasciare deliziosi dubbi allo spettatore. Di fatto, il Nosferatu di Eggers è anche un film costruito sui dettagli: in primis la scelta della location (il castello di Perstein, lo stesso usato da Herzog per la sua versione dell’opera), poi lo stile frenetico e privo di tempi morti con cui le sequenze si susseguono. Ecco Thomas che scoperchia la bara del vampiro, riuscirà a colpirlo con un piccone? Van Helsing? Dovrebbe essere lui, ma non ne siamo sicuro. La peste arriva in città, e con lui il Conte Orlok, proteso a conquistare il mondo e diffondere un male proto-lovecraftiano sulla terra. Guardate adesso il conte Orlok, è talmente spaventoso che il regista si guarda bene dal mostrarlo prima che il film si avvii verso la fine. Il sangue e la violenza la fanno da padrone nella giusta misura, sono sequenze fatte essenzialmente di sprazzi, sangue che vediamo solo per rapidi istanti perchè conta più lo studio d’atmosfera, l’esaltazione della scenografia macabra e surreale. Poi va rilevata la scelta dei simbolismi animaleschi, decisamente classica: vampiri associati ai topi e alla diffusione della peste nera in Europa, cacciatori di vampiri associati al contrario ai gatti. Sono elementi che piaceranno ai fanno dell’horror concettuale e metafisico, effettivamente, e che potrebbero deludere chi non ha idea di cosa sia un Horror, o magari si aspettava l’ennesimo rehash fumettistico tipo Blade.

    La caratterizzazione del conte Orlok / Dracula, di suo, deriva qui dal folklore rumeno (sulla falsariga della versione di Herzog, in effetti), a cominciare dai baffi e dai dettagli fisici sinistri che le accompagnano l’essenza. La forma del protagonista è a suo modo inedita, soprattutto per la scelta di mostrarne chiaramente le fattezze solo nella parte finale del film, facendolo diventare un’ombra oscura e accennata, a evocare virtualmente il Freddy del primo Nightmare. Forma allungata, incedere minaccioso e imprevedibile, unghie lunghissime, Orlok parla quasi sempre lingua rumena (con cui sembra poter comunicare anche telepaticamente con le vittime), mentre attorno a lui sta per nascere il mondo in cui viviamo, con le città evolute asimmetricamente rispetto ai villaggi, con i primi che esaltano il culto della produttività e i secondi che evocano riti ancestrali dimenticati dai più.

    Per il resto “Blood is life” (come viene detto nella seconda parte del film): il sangue è vita, e sarà dei vampiri.

    Di Huuzzah - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=143179077
    Di Huuzzah – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=143179077

    Per molti versi quello di Eggers è un esperimento azzardato, almeno sulla carta, che esibisce una grande prova registica e concettuale su un terreno scivoloso, in cui il rischio è che il pubblico possa lamentarsi sia di interpretazioni troppo letterali (considerandolo poco originale) che troppo azzardate (considerandolo, al contrario, poco fedele all’originale). Non era agevole tornare alla figura orrorifica che più di tutte ha influenzato il mito del vampiro: una storia che, in questa sede, si richiama a suo modo al romanzo episotolare di Bram Stoker “Dracula“, lo stesso che costò il fallimento della Prana-Film, condannata a pagare i diritti del Nosferatu di Murnau. Per quello che ci riguarda, qui l’esperimento è da considerarsi perfettamente riuscito.

    L’orrore di Eggers, come già in The Northman e The Vvitch, si richiama ai classici del genere, ed è di natura squisitamente folkloristica: si lega ad un mondo fatto di villaggi retrogadi, tradizioni locali antiche quanto macabre, un mondo ancora tecnologicamente e scientificamente non troppo evoluto quanto affascinato dall’esoterismo e dell’occulto. Il tutto viene arricchito da un singolare mood proto-lovecraftiano per eccellenza: ciò che è sepolto nel passato, magari in un antico castello, deve rimanere lì. Per forza. Se andiamo a riscoprilo o stuzzicarlo, peggio ancora se per scopo di lucro (come fa il povero sss), non può finire bene. E fa impressione sentire oggi questa storia, attuale più che mai, con la peste nera che arriva da una barca in cui enormi e numerosi topi porteranno il contagio che infesterà realmente l’Europa.

    Dal canto loro – in un’ambientazione dei primi anni del 1800 – i personaggi rivivono sullo schermo in un’atmosfera da grand guignol, spesso e volentieri illuminata e allestita come se fossimo a teatro, tra cui svettano per eccellenza le prestazioni di William Dafoe nei panni di uno professore allontanato dalla comunità scientifica per il suo interesse per l’occultismo (Van Helsing?), che strizza l’occhio alle nuove attitudini psicologiche, che sarebbe nata solo qualche decennio dopo con i laboratori di Wilhelm Wundt.

    Con uno squisito equilibrio tra oscurità e gore, gran parte del film di Eggers si focalizza pure sul lato psichiatrico dei vampirizzati, con una modalità che mai si era vista con tale vividezza: come Orlok è una metafora della diffusione del contagio pestilenziale (tanto è vero che i morsi sul corpo delle vittime potrebbero essere ratti come non-morti), allo stesso modo le sue vittime sembrano vacillare, muoversi a fatica, soffrire le pene dell’inferno per un problema di salute mentale, prima che fisica.

    È il mito di Nosferatu frammisto alla vera storia di Daniel Paul Schreber, il magistrato che si era convinto di parlare con Dio e di poterne condizionare l’operato. Le sue Memorie di un malato di nervi sono un classico della letteratura psichiatrica, e il caso vuole che sia vissuto nello stesso periodo in cui è ambientato il film di Eggers. Null’altro da aggiungere, a questo punto: il tributo è probabilmente involontario, ma serve a sottolineare come gran parte della brillanza di questo ennesimo Nosferatu risieda nell’averla voluta mettere sul piano clinico-psichiatrico in un momento storico in cui la medicina non aveva ancora lo sviluppo attuale, era ritenuto accettabile legare e narcotizzare i pazienti e Freud non aveva ancora proposto i propri studi sui sogni dei pazienti e sulla rilevanza degli stessi.

    Orlok non è solo un vampiro predatore di sangue, ma diventa una metafora dell’essere ancora vivi. O, se preferite, dell’essere probabilmente non-morti.

    Rialzati o cuore, sballottato da tormenti infiniti e oscura solitudine. Resisti contro chi ti minaccia con una croce in mano o ti accerchia fra luci tremule di un villaggio superstizioso. E se l’alba ti uccide, non disperare. E se la notte è tua, non gioire. θυμέ ἄνα δέ. Rialzati, o cuore, sulla nostra oscurità interiore.