ETIMOLOGIE ARTIFICIALI_ (118 articoli)

Contenuti visuali e/o testuali generati da algoritmi combinatori, di Artificial Intelligence. Con presunto buongusto, per il buon gusto di sperimentare un po’.

Benvenuti nell’antro delle parole, dove il passato si intreccia con il presente e l’origine di ogni termine è un racconto da scoprire. In questa sezione, esploreremo le radici linguistiche che plasmano il nostro vocabolario, rivelando le storie nascoste dietro ogni parola che pronunciamo.

Dalle antiche lingue ai moderni idiomi, ogni articolo è un viaggio attraverso le epoche e le culture che hanno plasmato il nostro linguaggio. Scoprirete curiosità sorprendenti, aneddoti affascinanti e collegamenti inaspettati tra le parole che usiamo ogni giorno.

Dai nomi dei giorni della settimana alle espressioni comuni, dalle terminologie scientifiche ai proverbi popolari, qui troverete un tesoro di conoscenze linguistiche da esplorare e condividere.

Preparatevi ad affondare nelle profondità delle radici delle parole, a lasciarvi affascinare dalle loro connessioni e a guardare il linguaggio con occhi nuovi, perché qui, nell’incantevole mondo delle etimologie, ogni parola è un ponte verso la nostra storia e la nostra cultura.

  • Una galleria di ipercubi generati da un’intelligenza artificiale

    Una galleria di ipercubi generati da un’intelligenza artificiale

    Sulla base della descrizione “un ipercubo visto da diverse angolature, con qualcosa di inquietante al proprio interno“.  Credits: https://labs.openai.com

  • Intelligenza artificiale, perchè?

    Intelligenza artificiale, perchè?

    Viviamo in un’epoca di accelerazione tecnologica, di ottimizzazione sistematica, di digitalizzazione invasiva, di iperconnessione permanente, di automazione progressiva, di machine learning compulsivo, di reti neurali impazienti, di analisi predittiva ipertrofica, di deep learning ossessivo, di bias algoritmici sempre più sofisticati, di personalizzazione al limite dell’inquietante e, soprattutto, di un costante senso di déjà vu digitale, perché ogni volta che apriamo Instagram ci troviamo davanti contenuti che non abbiamo mai visto ma che ci sembrano inevitabilmente familiari.

    Si parla di intelligenza artificiale perché l’umanità, dopo millenni passati a sbagliare da sola, ha deciso che era ora di farsi aiutare da qualcosa che può sbagliare più velocemente. E su scala globale. Perché, diciamocelo, se per secoli abbiamo avuto il dubbio cartesiano (“Cogito, ergo sum”), oggi l’algoritmo ci regala la certezza assoluta (“Scorri, ergo ti conosco”).

    Filosoficamente parlando, l’IA è il nostro tentativo di dare vita a un’intelligenza che non ha dubbi, non ha esitazioni, non ha esitazioni sui propri dubbi e, soprattutto, non si pone domande esistenziali. Se la filosofia umana è stata per millenni un’indagine sulla natura della conoscenza e della realtà, l’intelligenza artificiale è un’enorme operazione di riduzione di tutto ciò che è complesso a semplici click, impressioni, engagement e tempi di permanenza sul post. Platone parlava del mondo delle idee pure, ma poi è arrivato l’algoritmo che ha deciso che la tua idea perfetta è un video di gatti in loop, seguito da una pubblicità di un corso di trading online.

    L’IA finisce per diventare il Super-Io digitale definitivo, quello che non solo osserva ogni nostra azione, ma la prevede, la categorizza e la sfrutta economicamente. Freud si strapperebbe i baffi: se lui scavava nell’inconscio per svelare i nostri veri desideri, l’IA li anticipa, li confeziona e ce li ripropone sotto forma di contenuti sponsorizzati, spesso prima ancora che ci rendiamo conto di averli. L’algoritmo non ha bisogno di interpretare i sogni, perché li conosce già. E te li vende con lo sconto del 10%.

    L’IA è l’ultima creazione dell’essere umano per delegare anche l’errore, dopo aver già delegato il pensiero critico, la memoria e la capacità di fare di conto senza calcolatrice. È la macchina perfetta per dirti cosa vuoi, anche quando non lo vuoi. È come un amico che ti conosce bene, ma con la personalità di un venditore di aspirapolveri porta a porta: sa esattamente quando hai bisogno di qualcosa, ma soprattutto sa quando sei più vulnerabile per fartela comprare.

    E alla fine, cosa abbiamo creato? Un’entità onnisciente che sa tutto di noi, tranne come filtrare i contenuti sensibili di Instagram senza mandare in tilt mezzo mondo. Forse era meglio restare con le vecchie divinità mitologiche: almeno non cercavano di venderci un abbonamento premium.

  • Guida pratica al meme NPC

    Guida pratica al meme NPC

    Il termine “NPC” (Non-Player Character), originariamente utilizzato nel contesto dei videogiochi per indicare personaggi non controllabili dai giocatori, ha acquisito una nuova dimensione nel panorama culturale e filosofico contemporaneo. e alla sua funzione ludica, il meme “NPC” è diventato una metafora per descrivere individui percepiti come privi di pensiero critico o autonomia, paragonandoli a personaggi che seguono schemi predefiniti senza consapevolezza o introspezione. (immagine: By anonymous – https://knowyourmeme.com/memes/npc-wojak, Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=64521200)

    Il meme “NPC” è emerso nel 2016 su piattaforme come 4chan, dove un utente anonimo ha suggerito che alcune persone si comportano in modo simile agli NPC dei videogiochi, ripetendo frasi fatte e mostrando una mancanza di profondità nel pensiero. Questppresentazione è stata graficamente associata al meme “Wojak”, che raffigura un volto stilizzato e privo di espressione. Col tempo il meme ha guadagnato ulteriore attenzione, venendo utilizzato in contesti politici per criticare coloro che aderivano a ideologie percepite come conformiste o prive di originalità. Non di rado, il meme è usato in senso spregiativo o di sfottò, per indicare qualcuno che non partecipi attivamente alla socialità oppure non voglia o non sappia esporsi politicamente.

    Nel contesto sociale, il meme PC è stato adottato – a volte in forma offensiva – per criticare individui o gruppi considerati incapaci di formare opinioni autonome, accusati di seguire passivamente le narrative prevalenti senza un’analisi critica. Questa analogia suggerisce unaietà in cui alcune persone operano come automi, reagendo agli stimoli esterni senza una vera comprensione o riflessione. Tuttavia, è importante notare chuso del termine in questo modo può essere percepito come offensivo, poiché implica una svalutazione dell’umanità e dell’individualità dell’altro. (vice.com)

    Se consideriamo gli esseri umani come dotati di coscienza e capacità di introspezione, l’idea di etichettare qualcuno come “NPC” implica una negazione di queste qualità, riducel’individuo a un’entità programmata e prevedibile. Questo porta a riflettere su temi come l’autenticità, l’indivudalità e la complessità dell’esperienza umana. Da una prospettiva filosofica, il meme “NPC” solleva questioni sulla natura della coscienza, dell’autodeterminazione e del libero arbitrio.

    Inoltre, l’uso del meme può essere interpretato come una critica alla società contemporanea, suggerendo che molte persone operano in modalità “automatica”, accettando passivamente infzioni e norme sociali senza un esame critico. Questo fenomeno potrebbe essere visto come una conseguenza della sovrastimolazione informativa e della cultura dei social media, dove la profondità del pensiero è spesso sacrificatafavore di reazionimmediate e superficiali.

     

  • Che cos’è davvero l’ideologia woke

    Che cos’è davvero l’ideologia woke

    La cultura o ideologia “woke” è un termine che ha guadagnato popolarità negli ultimi anni, specialmente nei contesti sociali e politici, e si riferisce a una consapevolezza e attenzione particolare verso le questioni di giustizia sociale. Originariamente, “woke” è un termine dello slang afroamericano che significa “essere svegli” o “essere consapevoli”, e si è evoluto per indicare una maggiore coscienza e sensibilità riguardo a vari temi come il razzismo, il sessismo, l’ineguaglianza economica, i diritti LGBTQ+, e altre forme di discriminazione e ingiustizia. Resta vero che in molti contesti, inclusa l’Italia, il termine “woke” viene spesso utilizzato in maniera dispregiativa o come insulto. Questo uso riflette una reazione contro alcune delle idee e delle pratiche associate alla stessa. Come già l’idea del politicamente corretto e della cancel culture, si tratta di una terminologia a retaggio quasi esclusivo di idee conservatrici.

    Un concetto che è stato svuotato, distorto e manipolato in modi che sarebbero ridicoli, se non fossero tragici. Quello che dobbiamo comprendere è che il termine, alla sua origine, aveva una radice di consapevolezza sociale. “Woke“, in inglese, vuol dire letteralmente “sveglio“, “risvegliato“, un risveglio rispetto alle ingiustizie sociali, in particolare quelle legate al razzismo e alle disuguaglianze di classe. Era, insomma, una presa di coscienza dalla realtà brutale in cui viviamo. Ora il problema con il “woke” oggi è che è diventato una sorta di spauracchio, una minaccia invocata dai conservatori e dai neoliberisti, come se fosse il nuovo mostro sotto il letto. Ma in che senso? Il vero mistificatore qui non è il “woke” come concetto di consapevolezza sociale, ma piuttosto come esso viene manipolato e travisato da chi ha interesse a preservare l’ordine capitalistico.

    Il “woke” non è una minaccia per la società; è una risposta al fallimento di una società che non ha mai veramente affrontato il razzismo, la discriminazione e la disuguaglianza economica.

    Se guardiamo alle critiche conservatrici, troviamo un fenomeno interessante: quasi mai viene usato il termine “svegliato” o la traduzione italiana “risvegliato”. Perché? Perché questo sarebbe troppo chiaro, troppo facile da smascherare come un movimento che si basa sulla presa di coscienza. Invece, si preferisce usare “woke”, che suona strano, esotico, come qualcosa di distante dalla realtà della gente. È come se volessero mantenere una distanza tra ciò che è radicale e ciò che potrebbe veramente cambiare le cose. Così, la critica conservatrice al “woke” non è mai una critica all’effettiva consapevolezza sociale, ma una critica a una forma di resistenza, alla possibilità di cambiamento, che minaccia lo status quo. Per certi versi l’assurdità è che si mette in discussione un concetto che è legato a un movimento di liberazione e giustizia sociale. Chi ha paura del “woke” in realtà ha paura di una vera trasformazione sociale, una che sfida le strutture di potere che perpetuano la disuguaglianza. È il classico caso di chi difende la stabilità di un sistema che ha creato queste ingiustizie e non vuole fare i conti con la sua responsabilità storica.

    La minaccia è quella di un sistema che si ostina a negare il bisogno di cambiamento radicale. E, stranamente, è proprio chi sostiene lo status quo che ha paura della “sveglia”.

    Aspetti basilari del “woke

    Mentre la cultura woke ha come obiettivo la promozione della giustizia sociale e l’eliminazione delle discriminazioni, il termine “woke” è spesso usato come insulto per criticare un atteggiamento percepito come eccessivo o intollerante, soprattutto nel contesto di una polarizzazione politica e culturale. Vediamo i principali aspetti di questo fenomeno:

    1. Stereotipi e Caricature: Spesso, chi usa “woke” in modo dispregiativo lo fa per ridicolizzare o criticare chi è percepito come eccessivamente sensibile, politicamente corretto o moralmente superiore. In questi casi, “woke” diventa sinonimo di estremismo ideologico o di intolleranza verso opinioni diverse.
    2. Critiche alla Cancel Culture: Una delle principali critiche alla cultura woke riguarda la “cancel culture” o “cultura della cancellazione”, dove individui o gruppi vengono boicottati o esclusi per comportamenti o opinioni considerati inaccettabili. I detrattori vedono questo fenomeno come una minaccia alla libertà di espressione e un metodo coercitivo di imposizione di norme sociali. La “cancel culture” (o “cultura della cancellazione”) è un concetto che suscita molte discussioni e controversie, e la percezione della sua esistenza e delle sue implicazioni può variare ampiamente. Alcuni vedono la cancel culture come una minaccia reale alla libertà di espressione, mentre altri la considerano un fenomeno esagerato o persino immaginario.
    3. Polarizzazione Politica: In molti paesi, inclusa l’Italia, l’uso di “woke” come insulto è spesso parte di una più ampia polarizzazione politica. Chi critica la cultura woke può farlo per difendere valori tradizionali o per opporsi a ciò che vede come un cambiamento sociale troppo rapido o radicale.
    4. Resistenza al Cambiamento: Spesso, il termine “woke” viene usato in maniera negativa da chi è resistente o contrario ai cambiamenti promossi dai movimenti per la giustizia sociale. Questo può includere opposizione alle politiche di diversità e inclusione, ai diritti LGBTQ+, o alle campagne contro il razzismo e il sessismo.
    5. Appropriazione e Degradazione del Termine: Con il passare del tempo, il termine “woke” ha subito una trasformazione nel suo significato originale. Inizialmente un termine positivo che indicava consapevolezza e impegno sociale, è stato poi appropriato e degradato dai suoi detrattori per discreditare e ridicolizzare coloro che sostengono tali cause.

    Il termine “woke” è in altri termini un’espressione inglese che ha assunto diversi significati e sfumature nel corso del tempo. Originariamente, “woke” è stato utilizzato nel contesto dei diritti civili e della giustizia sociale per descrivere l’essere consapevoli delle ingiustizie razziali e sociali. Nel corso degli anni, però, il termine è stato oggetto di dibattito e ha assunto anche connotazioni più ampie. Oggi, “woke” è spesso usato per riferirsi a una sensibilità o attenzione elevata nei confronti delle questioni sociali, politiche e culturali, come il razzismo, il sessismo, l’omofobia e altre forme di discriminazione. Tuttavia, può essere anche usato in modo critico per indicare un eccesso di sensibilità o percepita ipocrisia nell’affrontare tali temi. In quest’ultimo senso, il termine è spesso utilizzato per criticare persone o movimenti che sembrano enfatizzare in modo eccessivo la loro consapevolezza sociale, a scapito di altri aspetti della discussione.

    Storia del termine woke

    L’uso del termine woke (dal 2012 circa) nel dibattito politico si collocava inizialmente nell’ambito del Black Lives Matter, il movimento attivista che lotta contro il razzismo attraverso periodiche manifestazioni, soprattutto negli USA e in particolar modo nei confronti di frequenti episodi di violenza razziale. Se la pagina Wikipedia di BLM è particolarmente chiara e dettagliata, quella del termine Woke – nell’ipotesi che le tassonomie e le interpretazioni fornite dagli autori di Wiki siano indice, in qualche modo, di una qualche chiarezza collettiva a livello di significato – sono semplicemente confuse.

    Woke viene usato anche in Italia da diversi Youtuber, che sfruttano un po’ l’onda del trend (come del resto proviamo, nel nostro piccolo, a fare anche noi), un po’ finiscono per metterla su un piano che aderisce al bastian-contrariarismo, al pregiudizio spiattellato come manifesto culturale, al gusto di andare “contro” qualcosa che diventa (secondo loro, ma soprattutto secondo i loro seguaci) pensiero critico.

    L’idea a mio avviso assurda è che la carta dell’anti-marketing sia, in definitiva, già abbastanza per collocarsi nella propria nicchia – anche a costo di diventare promotori di pensiero becero e anti-culturale (pensiamo ad esempio ai corsi di seduzione che si alimentano, in molti casi, sull’insoddisfazione sociale da incel). E nel mentre vale la pena ricordare ciò che pensava Hicks sull’anti-marketing.

    Che vuol dire woke

    Il termine “woke“, di per sè, si riferisce in genere a un atteggiamento o una consapevolezza sociale riguardo alle ingiustizie, in particolare legate alle questioni di discriminazione, disuguaglianza e identità. In alcuni contesti, l’uso del termine “woke” sembra voler essere stato associato a un’eccessiva sensibilità politica o a una mentalità eventualmente rigida, che è una mentalità insidiosa perchè finisce per farci aderire ad una mentalità maschia, circolare, autoreferenziale, autogiustificativa, che fa addirittura sembrare “eccessiva” la rivendicazione sacrosanta di un diritto.

    Woke mind virus“, come scrisse una volta Elon Musk su Netflix e sulla sua deriva “politicamente corretta“, a suo dire, può quindi essere impiegato per descrivere un modo di pensare che, secondo alcuni, si starebbe diffondendo troppo rapidamente o in modo troppo dogmatico, influenzando il dibattito pubblico in modo controverso o negativo.

    Le critiche alla cultura “woke” sono interessanti forse più della cultura woke stessa, ammesso che sia quantificabile e qualificabile e che non rientri, come temibile anche per il politicamente corretto, nel nugolo dei nemici immaginari che servono ad avere un bersaglio contro cui scagliarsi, fare dibattiti o scrivere libri. Di fatto, quelle critiche sono interessanti perchè non possono essere ridotte a un’unica provenienza politica, per quanto poi woke venga usato quasi sempre come termine discriminatorio da conservatori di vario ordine e grado. Più in generale questa forma di critiche sono affette da diagonalismo, se preferite sono trasversali, figlie di un irreversibile sparigliamento delle carte che subiamo ormai da molti anni, nella società in cui viviamo.

    Le critiche alla cultura “woke” possono provenire da diverse prospettive e posizioni politiche, e se a volte possono presentare punti di vista vagamente interessanti, in altri casi sono figlie degeneri di benaltrismo, qualunquismo, presunto acume sociale, sfoggio di culturame alternativo e soprattutto desiderio egotico di porsi al di sopra della massa a cui tutti, senza eccezioni, ci riteniamo superiori.

    Vale anche la pena di chiedersi come questa ennesima tassonomia del pensiero, questo tag che etichetta il modo di pensare delle persone (o cerca di farlo, in qualche modo) non sia diversa dall’uso del termine incel (involuntary celibate), ad esempio, e di come il diagonalismo faccia la propria comparsa in una mentalità tendenzialmente sempre più liquefatta, per cui dalla stessa persona potrebbero arrivare discorsi contro il nazi-femminismo (ad esempio) ed essere a propria volta accusati di essere woke nei confronti del razzimo.

    La pagina sul termine Woke di Wikipedia, ad esempio, è attualmente imbottita di dettagli poco chiari in merito, ad esempio la descrizione delle motivazioni che spingono i conservatori all’uso del termine:

    cio che invece la maggior parte delle persone considera normale buona educazione, per esempio non usare termini dispregiativi per persone di colore

    oppure un esempio di quello che caratterizza questo genere di discussioni, ovvero il fenomeno del puntacazzismo:

    Il termine awake, tuttavia, viene tuttora utilizzato dagli oppositori dell’ideologia woke e politicamente corretta per distinguersi appunto dai sostenitori e portavoce di quest’ultima, da qui lo slogan “Awake, not woke”

    Se in questi termini sembra in sostanza di assistere ad un catfight scoordinato e vuotamente irriverente, vale la pena ricordare che le tassonomie si diffondo con facilità sui social, e vale la pena evocare la regola 12 di internet: “tutto quello che scrivi potrà essere usato contro di te“, unita alla successiva regola 13: “tutto ciò che scrivi potrà essere travisato e trasformato in altro“. Che è anche quello che è successo a Pepe The Frog, da webcomic a fumetto simbolo dell’alt-right trumpiana senza soluzione di continuità, con tanto di causa vinta dall’autore.

    Punti chiave della cultura woke

    Ecco alcuni punti chiave sulla cultura woke:

    1. Origini: Il termine è emerso nel contesto della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti, in particolare all’interno della comunità afroamericana, come espressione di consapevolezza riguardo alle ingiustizie sociali e alla necessità di restare vigili contro le discriminazioni.
    2. Evoluzione: Negli anni recenti, “woke” è diventato un termine più ampio utilizzato per descrivere chiunque dimostri una particolare sensibilità verso le questioni sociali e sia impegnato in movimenti per il cambiamento sociale e l’uguaglianza.
    3. Critiche: La cultura woke è anche oggetto di critiche. Alcuni ritengono che il termine venga usato in modo eccessivo o che porti a un atteggiamento di superiorità morale. Altri criticano il fenomeno della “cancel culture” associato alla cultura woke, dove persone o aziende vengono pubblicamente condannate e boicottate per comportamenti o opinioni considerati inappropriati.
    4. Impatto: La cultura woke ha influenzato vari settori della società, tra cui media, politica, istruzione e industria. Ha portato a un maggiore dibattito sulle politiche di diversità e inclusione, e a cambiamenti nelle pratiche aziendali e istituzionali.

    In sintesi, la cultura woke rappresenta un movimento che promuove una maggiore consapevolezza e azione contro le ingiustizie sociali, ma è anche oggetto di dibattito e critiche riguardo alle sue implicazioni e modalità di espressione.

    Monologo standup sulla cultura woke

    [Rivolgendosi al pubblico, con tono deciso e un po’ stizzito]

    Ah, questi “woke”… ma chi si credono di essere? Quando ero giovane io, il mondo andava avanti senza tutte queste storie, senza dover stare attenti a ogni parola che esce dalla bocca! Oggi sembra che non si possa dire più nulla senza offendere qualcuno. “Oh, non puoi dire questo, non puoi dire quello”, e perché mai? Perché qualche gruppo di ragazzini che vive su internet ha deciso che ora bisogna cambiare tutto? Che ora bisogna stare sempre sul chi vive per non urtare la sensibilità di qualcuno?

    I “woke”… mah, io li chiamo “svegliati”, ma non nel senso buono! Sembrano sempre pronti a saltare addosso a chiunque non si allinei con il loro modo di pensare. Hanno quest’idea che il mondo debba essere un posto perfetto, dove nessuno si offende mai e tutti si sentono sempre accettati. Ma vi pare normale? Quando ero giovane io, si cresceva affrontando le difficoltà, non scappando da esse. E invece questi qui cosa fanno? Si rifugiano dietro uno schermo e si mettono a fare le prediche su come dovremmo vivere, come dovremmo parlare, come dovremmo pensare. È tutto sbagliato!

    E poi, questa tecnologia! I social, internet… non fanno altro che amplificare le loro lamentele. Ai miei tempi, se avevi qualcosa da dire, lo dicevi in faccia! Adesso invece scrivono tutto su Twitter, Facebook, TikTok, e pensano che le loro opinioni siano l’unica verità. Non c’è più il rispetto per le opinioni altrui, non c’è più la discussione vera. Se non sei d’accordo con loro, sei automaticamente un nemico, un “bigotto”, un “ignorante”. E tutto questo per cosa? Per sentirsi superiori, per sentirsi moralmente migliori.

    E non parliamo di questa ossessione per i “pronoun”, per “inclusività”. Ora devi chiedere il permesso pure per usare “lui” o “lei”. Non si può più parlare di uomo o donna senza fare attenzione a non offendere qualcuno che magari non si identifica in nessuno dei due. Ma stiamo scherzando? Questo mondo sta diventando assurdo, vi dico! Ai miei tempi, le cose erano semplici. C’era un uomo, c’era una donna, e punto. Non c’erano tutte queste complicazioni.

    E sapete cosa mi fa più arrabbiare? Che queste idee stanno prendendo piede ovunque! Nelle scuole, nelle università, persino nei posti di lavoro. È come un virus che si diffonde e che non possiamo fermare. Io, però, non mi arrendo. Non mi farò piegare da queste sciocchezze. Non ho bisogno di un gruppo di “svegliati” che mi dica come vivere la mia vita. Ho vissuto abbastanza a lungo per sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato, e non sarà una moda passeggera a farmi cambiare idea.

    [Concludendo, quasi con rassegnazione]

    Ah, se solo potessero vedere quanto è ridicola questa loro battaglia… Ma tanto, tra qualche anno, quando cresceranno, si accorgeranno da soli di quanto tempo hanno sprecato a cercare di cambiare un mondo che, in fondo, non cambierà mai davvero.

  • Che vuol dire triggerare

    Che vuol dire triggerare

    Triggered (da cui deriva la forma italianizzata triggerato e triggerare, che si legge triggherare) nasce nel gergo informatico e, per estensione, in quello delle community, delle board tipo 4chan e dei social network in generale. Trigger in inglese significa grilletto, per cui triggerare si potrebbe tradurre come innescare, far scattare e (per estensione) far arrabbiare, stuzzicare, punzecchiare, far uscire di testa. Un esempio classico è quello dei troll, che sono i disturbatori nelle community online che ad esempio inseriscono un commento fuori luogo nel profilo di un politico giusto per il gusto di farsi bannare o di stuzzicare gli altri.

    Secondo l’urban dictionary, triggerato fa riferimento ad una reazione emotiva / psicologica causata da qualcosa che, con modalità variabili caso per caso, in qualche modo si riferisca ad un qualcosa che urti la sensibilità di qualcuno. Ad esempio, evocare ricordi scatenanti rispetto a persone che abbiano subito un trauma o un dispiacere profondo, in modo anche abbastanza sprezzante delle sensibilità altrui.

    In ambito informatico, nel web e lato Javascript, un trigger è un particolare metodo che emula il comportamento di un utenti che fa click su un componente, oppure apre un menù, tutto questo lato codice quindi come se lo facesse un bot al posto suo. Bot che, pertanto, viene triggerato lato codice JS.

    Triggerare in Arancia meccanica

    Il concetto di “triggerare” rappresenta un aspetto cruciale nell’ambito della psicologia e della salute mentale, poiché evidenzia la complessità delle risposte emotive umane e il legame profondo tra gli eventi del passato e le esperienze attuali. Nel romanzo distopico di Anthony Burgess, “Arancia Meccanica“, e nel film omonimo diretto da Stanley Kubrick, il protagonista Alex è un esempio emblematico di come certi stimoli possano scatenare risposte emotive e comportamentali intense, riflesso di una psiche tormentata e vulnerabile.

    Immagine tratta da IMDB.COM
    Immagine tratta da IMDB.COM

    La narrazione di “Arancia Meccanica” si snoda attraverso una serie di eventi straordinariamente violenti, nei quali Alex e i suoi “drughi” si impegnano in atti di estrema brutalità. Tuttavia, la violenza di Alex non è solamente il risultato di un impulso criminale, ma è radicata in un contesto più ampio, caratterizzato da traumi passati, dinamiche familiari complesse e una società disfunzionale.

    Cos’è un trigger

    Il concetto di trigger (letteralmente grilletto) si manifesta in diverse occasioni nel corso del racconto, poiché determinati stimoli o situazioni evocano ricordi dolorosi o reazioni emotive violente in Alex. Ad esempio, le immagini di violenza nei media, le melodie di Beethoven (utilizzate nel film come parte della tecnica di “trattamento” di Alex), o il confronto con figure di autorità possono attivare risposte viscerali che lo riportano ai suoi trascorsi di delinquenza e di punizioni brutali.

    La complessità di Alex come personaggio risiede proprio nella sua vulnerabilità e nelle sue contraddizioni interne. Se da un lato emerge come un individuo privo di empatia e incline alla violenza gratuita, dall’altro si intravedono tracce di sofferenza e fragilità psicologica, alimentate da un passato segnato da abusi e disfunzioni familiari.

    Il ruolo dei trigger nella vita di Alex sottolinea l’importanza di considerare il contesto psicologico e le esperienze passate di un individuo nel comprendere il suo comportamento presente. Le ferite emotive e i traumi non risolti possono permanere nell’inconscio di una persona, influenzando le sue reazioni e i suoi atteggiamenti di fronte a determinati stimoli.

    Inoltre, la figura di Alex solleva questioni più ampie riguardanti la natura della violenza e della criminalità. Sebbene sia indubbiamente responsabile delle sue azioni, la sua storia personale e il contesto sociale in cui vive mettono in luce le complessità della condizione umana e la necessità di approcci più compassionevoli nella gestione della devianza e del disagio mentale.

    Immagine tratta da IMDB.COM
    Immagine tratta da IMDB.COM

    In conclusione, il concetto di trigger ci ricorda che le nostre esperienze passate hanno un impatto profondo sul nostro presente e sulle nostre reazioni emotive. Attraverso l’analisi di personaggi come Alex in “Arancia Meccanica”, possiamo approfondire la nostra comprensione della psiche umana e dell’interazione complessa tra ambiente, esperienze personali e comportamento individuale.