AZIONE!_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori film d’azione usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Una squadra specializzata in missioni speciali capitanata da Dutch (Schwarzie) viene inviata in America Centrale, nel bel mezzo di una giungla, per salvare un ministro ed il suo collaboratore rapiti dai ribelli. Scopriranno che le cose non sono esattamente come avrebbero creduto, e che la foresta è popolata da un feroce predatore extraterrestre…

    In breve. Ibrido horror-fantascientifico ambientato nella giungla, che vanta una delle migliori interpretazioni dell’attore austriaco Schwarznegger e si segnala per il debutto dello Yautja, il crudele cacciatore di prede umane: inizia come un film di guerra dai toni ordinari, per poi evolvere in uno dei più cruenti body-count mai visti al cinema. Un culto assoluto per il genere.

    Predator di McTiernan, nato da un’idea inizialmente scherzosa (far combattere Rocky contro E.T.) e presa maledettamente sul serio nello sviluppo dell’intreccio, rappresenta uno dei pochissimi action-horror che non risente dell’età che ha: prese spunto dai film di guerra più in voga all’epoca (Platoon, ad esempio), e rielaborò lo stereotipo dei militari solidali in lotta non contro un nemico umano bensì uno misterioso, extraterrestre, a tratti sovrannaturale. A Schwarznegger, per una volta, viene relegato un personaggio con un buon livello di spessore (ovviamente relativo al contesto di cui si parla), che sarà naturalmente l’eroe indiscusso dell’intera vicenda e del suo indimenticabile finale. La lotta tra umani ed alieno, di fatto, prende inizio da una storia di tutt’altro tipo – una sorta di complotto militare ordito dalla CIA – un intreccio secondario che viene poi letteralmente abbandonato sul posto: non c’è tempo, nè modo, di occuparsene, dato che Predator è già sulle tracce degli umani. Le epiche musiche di Alan Silvestri sono semplicemente perfette a scandire i vari momenti del film, che si alternano tra fasi di meditazione e preparazione alla guerra ed altre di autentica violenza, che in certi momenti esita qualche istante prima di esplodere e mantiene sempre un filo di tensione molto equilibrato e gradevole. Un film essenzialmente d’azione, quindi, nel quale non mancano elementi prettamente horror (i corpi scuoiati, le esecuzioni al limite dello splatter), frammisti ad altri di fantascienza, guerra e più in generale dinamiche da survival movie; del resto la sopravvivenza, il vero leitmotiv del film, è evidenziato splendidamente dalla sequenza in cui il protagonista umano si cosparge di fango per non farsi vedere dall’alieno, coronando uno dei capolavori del genere (quantomeno degli anni 80). Privo di momenti di calo e con personaggi ben caratterizzati, si fa ricordare – oltre che per l’innovativa vista ad infrarossi della creatura aliena – per la figura del rude pellerossa (Billy) – silenzioso, meditativo e molto più sensibile dei suoi commilitoni alle bizzarrie ed ai pericoli della natura. Il male assoluto, l’alieno ostile agli uomini – e con i quali “gioca” esattamente come farebbe un cacciatore con le proprie prede – “el diablo cazador de hombres” fa intuire di esigere il proprio tributo di sangue periodicamente, stilando così i presupposti per un’ennesima saga orrorifica ottantiana, non sempre riuscitissima nella sua evoluzione per quanto subentrata nell’immaginario collettivo da molti anni.

    Un vero masterpiece del genere (nonchè uno dei miei film preferiti in assoluto) che ogni spettatore dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita.

    « Ho paura, Poncho. Laggiù c’è qualcosa in agguato, e non è un uomo. Moriremo tutti.»

  • Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    1944: cinque soldati americani vengono condannati a morte per motivi diversi in un campo nei pressi delle Ardenne; durante il tragitto si buca uno pneumatico…

    In breve. Film di guerra italiano, motivo di grande interesse e decisamente originale, con qualche inevitabile pecca.

    La storia è quella di un gruppo di disertori, durante la seconda guerra mondiale, che si trovano in Francia per essere fucilati: durante il tragitto si creerà per loro una nuova storia, ricca di avventure ed imprevisti. Una lotta per la sopravvivenza che li dovrebbe portare, dopo l’assalto ad un treno, verso la salvezza, nel territorio neutro della Svizzera. Una battaglia contro tutto e tutti, visto che il gruppo si troverà perennemente tra due fuochi, e sarà esaltato il senso di fedeltà tra i commilitoni accomunati dai medesimi problemi, rispetto alla fedeltà alla nazione o a qualsiasi bandiera prestabilità. Un senso di anomala solidarietà tipico del western, di fatto, e di tutto un filone di cinema realistico e di vendetta, da Distretto 13 a I guerrieri della notte e moltissimi altri.

    Molta della fama di questo film si deve, almeno in parte, a Quentin Tarantino, amante del cinema di genere e (ri)scopritore di talenti nascosti (spesso e volentieri italiani) che ne ha citato lo spirito ed alcuni passaggi (ma non la trama) all’interno dei suo Inglorious Basterds. Quando in seguito avrebbe diretto il suo Bastardi senza gloria, un film dal titolo identico ma con storia completamente diversa, volle acquistare solo i diritti sul titolo, giusto per evocare questo cinema, questi tempi e questi ritmi. Nel suo caso non si è trattata pertanto di un’operazione di remake, bensì del suo consueto gioco di citazioni: l’opera di Castellari si ricollega ad un filone ben consolidato, da cui eredita una componente di azione ricca di momenti intensi e di siparietti ironici, motivo di interesse sostanziale per il film. La sceneggiatura è stata affidata a Sergio Grieco, autore di film semi-dimenticati di genere prevalentemente poliziesco, tra cui il misconosciuto ed introvabile I violenti di Roma bene: qui, cronologicamente, si tratto dell’ultimo film da lui scritto, in collaborazione con lo stesso regista.

    Un film che è forse lontano dal capolavoro di guerra, ma che diverte, avvince e si fa seguire con una sceneggiatura azzeccatissima e varie trovate originali, tra cui i siparietti del baffuto Michael Pergolani (che interpreta il soldato Nick Colasanti) che nella versione italiana è stato doppiato in siciliano. Insomma un cult a tutti gli effetti, con qualche difetto riscontrabile quasi esclusivamente in alcune trovate improbabili, come le mitologiche infermiere tedesche che ovviamente faranno il bagno più sexy possibile nel laghetto. Per il resto, Quel maledetto treno blindato rimane impresso con tutti i suoi protagonisti, tra cui la superba, direi, interpretazione di Bo Svenson, il tenente Yeager attorno al quale ruota l’intera storia.

  • L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente: arti marziali all’ennesima potenza, con Bruce Lee alla regia

    L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente: arti marziali all’ennesima potenza, con Bruce Lee alla regia

    Stra-cult che vede l’esordio alla regia di Bruce Lee, il quale non perde occasione per sceneggiare la propria filosofia di vita ed esporla al pubblico: l’attore ha firmato inoltre anche il soggetto del film.

    “Non mi piacciono le rovine, mi ricordano la guerra”

    In breve: uno dei migliori film di arti marziali vecchia-scuola.

    L’irresistibile mimica dell’attore protagonista è accentatuata all’estremo in questo film: i suoi sorrisi sarcastici durante i combattimenti, le sue pose plastiche ed i suoi colpi fulminei di nunchaku non potranno non conquistare il pubblico, quasi a prescindere dalla trama in sè. “L’urlo di Chen…” del resto, non è semplicemente una sequenza di scazzottate a mani nude e bastoni: prima di tutto giustifica la violenza come ribellione all’oppressione (criminale, oltre che razzista) nei confronti dei cinesi in terra straniera (Roma). Successivamente riempie la sceneggiatura di personaggi ben caratterizzati, dei veri e propri “tipi”: l’amico-cameriere bonaccione, la brava ragazza innamorata del protagonista, la macchietta del collaboratore del boss (imbranato e servile, oltre che eterno capro espiatorio) e via dicendo.

    E poi c’è Bruce Lee: imponente, padrone della scena, freddo, deciso e quasi-invincibile. Assolutamente impeccabile nell’arte del kung-fu e, al tempo stesso, dalle caratteristiche debolezze umane che rendono facile l’immedesimazione. Farebbe l’entusiasmo, oltre l’invidia, di un buon Chuck Norris al meglio della forma: ed infatti – guarda caso che non è un caso – si troverà a doverlo fronteggiare nella parte finale del film, nella mitica scena dentro il Colosseo.

    In questa scena, peraltro, inizialmente Lee ha la peggio su Norris: viene inquadrato periodicamente un gatto, che inizia a giocare con una pallina nel momento esatto in cui Tang Lung ribalta la situazione ed inizia a dominare il proprio avversario, proponendo uno stile di combattimento libero dai vincoli estetici tradizionali del kung-fu e distraendolo con la propria imprevedibilità. Alla fine, dopo averlo eliminato, non mancherà di rispetto al nemico onorandone la morte.

    Il film narra la storia di Tang Lung (Chen nell’edizione italiana: ma nulla di strano nel paese in cui l’originale “Snake” Plinskii diventa “Iena”), un giovane artista marziale inviato dallo zio da Hong Kong a Roma per aiutare un ristorante gestito da cinesi con varie difficoltà: essi sono infatti minacciati di continuo da una banda del posto che vorrebbe prendersi la gestione del locale per gestire un enorme traffico di droga. Ci pensarà Chen, come sua consuetudine del resto, a ristabilire l’ordine e la giustizia in una sequenza di scontri che culminano, appunto, con quello contro il campione di arti marziali americano “Colt”, assoldato dai criminali per sconfiggere il fortissimo cinese.

  • Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Durante una serie di traffici illeciti nella Milano anni 70 una valigia piena di soldi scompare nel nulla. “L’americano”, un potentissimo boss locale (riferito con “amici influenti in alto, gente senza scrupoli in basso“), vuole vederci chiaro e inizia una ricerca del denaro, che si concluderà con conseguenze inaspettate.

    In breve. Poliziottesco cult, imperdibile. Per Tarantino è uno dei noir più epici del cinema italiano.

    Il film

    Fernando Di Leo firma uno splendido poliziesco a tinte noir che vede protagonisti attori del calibro (neanche a dirlo) di Barbara Bouchet, Mario Adorf ed un ambiguo Gastore Moschin, uno dei beffardi Amici miei di Monicelli.  L’azione si sviluppa in una Milano diremmo romanzesca, che vuole sembrare culla esclusiva del crimine organizzato e dove la polizia sta a guardare il proliferare di delinquenza e pacchi bomba in pieno giorno. Nel frattempo, con toni un po’ moralistici, un po’ di maniera, il nuovo vice-commissario (che sarà presto trasferito) non perde occasione per mettere l’accento sul sistema repressivo dello stato, sulla ricerca di capri espiatori facili e sulla giustizia sommaria che sembra accomunare polizia e criminalità.

    Moschin (alias Ugo Piazza) interpreta un personaggio indimenticabile: se da un lato favorisce l’identificazione con il “buono” della storia da parte del pubblico, dall’altro si mostrerà cupo e privo di scrupoli alla fine. E questo finisce per renderlo un personaggio cult, in definitiva. Meravigliosamente sexy nella parte della “femme-fatale“, dal canto suo, la Bouchet si mostra nella famosa scena della lap-dance vestita di sole perle, e Di Leo indugia su questo molto più del necessario, con sommo gaudio della parte più voyeouristica del pubblico.

    Da ricordare inoltre che una delle scene più crude (l’aggressione con il rasoio all’uomo dal barbiere) è rimasta nell’immaginario dei cineasti a tal punto da avere ispirato Tarantino, a quanto pare, nell’omologo taglio delle orecchie nel suo Le iene.

    E’ il secondo film del genere che ho storicamente avuto occasione di vedere, dopo Milano odia: in entrambi, probabilmente, la componente spietata dell’essere umano si sublima in un turbine di colpi di scena, mostrando inevitabilmente l’aspetto più animalesco dell’essere umano. Il pubblico riesce davvero a palpare la paura in varie situazioni, come nel momento in cui il figlio del barista esita prima di colpire a tradimento, come chi ha visto il film dovrebbe ricordare molto bene.

    Accerchiamento di Ugo Piazza

    Narrativamente parlando, Milano Calibro 9 è incentrato sull’accerchiamento paranoico di Piazza (Gastone Moschin) da parte sia della polizia – che lo fa pedinare – che del personaggio di Rocco, capofila del crimine organizzato convinto che i soldi scomparsi li abbia presi lui.

    La continua negazione da parte del suo personaggio riesce a convincere, di riflesso, anche il più navigato spettatore della sua innocenza, innescando un meccanismo molto simile a quello presente per il personaggio di Ugo Cucciolla in Cani arrabbiati: il twist finale è quasi analogo, per quanto nel film di Di Leo (soggetto tratto da un romanzo cult di Scerbanenco, per inciso) sia addirittura portato all’ennesima potenza.

    Milano calibro 9 e la sua valenza politica

    Mercuri… ma tu forse forse ce l’hai coi ricchi.

    Nonostante le apparenze di film puramente reazionario e “muscolare”, Milano calibro 9 è intriso di critica sociale: sull’amnistia, ad esempio, che è il punto di partenza della narrazione (Ugo Piazza esce dal carcere per questo motivo). Ma anche sulla condizione delle carceri italiane, in cui esiste una situazione problematica e si mette sociologicamente in dubbio – per bocca del “poliziotto buono” Mercuri, interpretato da Luigi Pistilli – la sua efficacia. Fernando Di Leo ha in seguito ammesso che, con occhio critico, le scene in Questura tra il Commissario “fascista” e il “comunista” Mercuri finivano per togliere forza alla storia principale. Ma il lavoro attoriale era così buono che optò per non farlo, alla fine.

    Resta anche da considerare che l’aspetto narrativo della trama, incentrato sulla figura sinistra de L’americano, è anch’esso fortemente politico: è un boss invischiato con i piani alti della politica, per quanto la cosa venga solo citata continuamente e non esplicitata, costringendo il pubblico a riflettere sulla sua natura e sull’ambiguità dei “buoni” e dei “cattivi” della storia.

    La morte di Frank Wolff

    L’attore Frank Wolff – già visto ne Il grande silenzio, ad esempio – muore tragicamente nel 1971, poco dopo aver completato le sue scene, suicidandosi a causa di una probabile depressione di cui soffriva da tempo. Il suo doppiaggio in inglese venne completato da Michael Forest.

    In definitiva, uno dei migliori polizieschi noir mai prodotti, assieme a Tony Arzenta ed alla maggiorparte dei film di Umberto Lenzi.

  • Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Diretto da Neil Burger, Limitless è un film del 2011 che, all’uscita, interessò moltissimo gli appassionati di cinema e dell’assurdo. La pellicola getta le radici in Territori oscuri, romanzo del 2001 di Alan Glynn. Un’opera affascinante, la cui trama, gira intorno ad una misteriosa droga in grado di incrementare la potenza del cervello negli esseri umani.

    Limitless risponde ad un interrogativo che attanaglia moltissime persone. Usando soltanto il 20% del nostro cervello, cosa accadrebbe se ne sbloccassimo tutte le capacità? Sono diverse le nozioni che si incastrano nei meandri più nascosti della mente, finendo molto facilmente nel dimenticatoio. In Limitless, per l’appunto, tutte queste barriere crollano attraverso una pillola apparentemente miracolosa che cambierà la vita del protagonista.

    La recensione di Limitless: premessa

    Limitless è la storia del decaduto scrittore Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, che, nei primi frame, si barcamena tra le strade affollate di New York. Un creativo senza storie, lontano dalle sponde più estrose del suo essere. Insomma, l’intera pellicola si muove sul cliché di una figura scapestrata che, giorno dopo giorno, tira avanti nella speranza di un’idea sensazionale che cambierà per sempre il corso della sua vita. Morra è assalito da un blocco micidiale, sopraffatto dallo squallore dei sobborghi newyorkesi.

    Il suo, è un personaggio devastato, abbandonato dai suoi affetti e dalla compagna, la Lindy di Abbie Cornish, in piena scalata sociale. Il controverso aiuto dell’ex cognato, Vernon Gant, interpretato da Johnny Whitworth cambierà il corso della sua esistenza. Quest’ultimo, infatti, suggerirà allo scrittore di fare uso di NZT-48, il farmaco che renderà la visione esistenziale di Morra vivida e positiva. Morra sistemerà casa sua e, nel giro di un giorno, guadagnerà le avance della moglie del suo padrone di casa, salvo poi tornare, il giorno successivo, alla solita vita.

    Da qui, il plot di Limitless si fa chiaro. Morra farà di tutto per procurarsi la pillola dei miracoli, consegnare il libro alla casa editrice e diventare la versione migliore di sé stesso. In men che non si dica la pellicola diventa una escalation dei migliori successi dello scrittore che, intanto, si sarà lanciato in borsa e sarà diventato una figura travolgente, non mancando di portare l’attenzione dello spettatore su una delle chimere che attanagliano il mondo moderno: la ricerca persecutoria e spasmodica di un irraggiungibile appagamento.

    I pregi della pellicola

    L’interpretazione di Bradley Cooper è ciò che colpisce maggiormente lo spettatore. L’attore ricopre il ruolo poliedrico di Morra alla perfezione, raccontando luci e ombre di un uomo ossessionato dalla realizzazione personale, eppure incapace di sfruttare le proprie potenzialità a pieno. Limitless è seducente adrenalina, ma anche inquietudine melancolica, specie grazie alla regia magistrale di Burger che permette allo spettatore di rimanere immediatamente coinvolto nelle vicende del protagonista.

    La fotografia gioca un ruolo chiave nella differenziazione delle fasi di Morra, accentuando i toni caldi nei momenti di esaltazione, quasi a rimarcare un aumento della temperatura. I cambi di scena sono dinamici, la trama si muove su una premessa semplice, senza mai risultare banale. Ci saranno delle conseguenze, aspre, a tutto questo. Lo scrittore lo scoprirà presto e, mentre lo spettatore comincia a interrogarsi sul futuro del protagonista, compare in scena Robert De Niro, nei panni dell’uomo d’affari Carl Van Loon, pronto a distruggere i sogni di gloria del neonato business-man Eddie Morra.

    La recensione di Limitless: conclusioni

    Insomma, il film si rivela spiazzante e lascia lo spettatore con un plot twist sorprendente o, meglio, con più interrogativi. Il primo, ovviamente, riguarda il destino del protagonista, ormai riavvicinatosi alla ex compagna e in corsa alla Casa Bianca e, l’altro, su sé stesso. Alla visione della pellicola, infatti, sovviene spontaneo chiedersi: “Cosa accadrebbe se potessimo usare il 100% del nostro cervello?”. Superficialmente si penserebbe di consultare le app casino online con bonus e stravincere, ma in realtà, fin dove ci spingeremmo pur di avere successo e quanti rischi saremmo disposti a correre? Se state cercando un lungometraggio che vi intrattenga in maniera dinamica e che vi lasci anche degli spunti di riflessione interessanti, allora Limitless è ciò che fa per voi. Da thriller psicologico, infatti, riesce a mutare in un fantascientifico assurdo, seppur verosimile, impreziosito da un cast ed una regia d’eccezione.