PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Le regole del gioco di Curtis Hanson

    Le regole del gioco di Curtis Hanson

    Le regole del gioco, titolo originale Lucky You, è un film del 2007 diretto dal regista americano Curtis Hanson, su soggetto e sceneggiatura di Eric Roth. Il gioco è da sempre uno dei temi più amati dall’arte, dalla letteratura e soprattutto dal cinema. Basti pensare a grandi pellicole come Cincinnati Kid di Norman Jewison, o a Casinò di Martin Scorsese. In particolare, il poker negli ultimi anni ha riscosso grandissimo successo, divenendo un fenomeno di costume. Il film è uscito proprio nel periodo in cui il poker ha raggiunto uno dei massimi picchi di popolarità.

    Protagonista della pellicola è Huck Cheever, un giocatore di poker professionista, interpretato da Eric Bana, da tutti conosciuto per il suo carattere difficile e per il suo fare da sbruffone. La passione e il talento per il gioco gli sono stati tramandati dal padre, L.C., ben due volte campione del mondo di Texas Hold’em. Quando siede al tavolo verde gioca sempre il tutto per tutto, osa moltissimo, ma nella vita ha un atteggiamento molto differente. È una persona molto cauta per tutto quello che riguarda il sentimento. Evita ogni coinvolgimento. È distaccato, freddo, scostante. Finché un giorno le cose cambiano radicalmente. Incontra Billie Offer, una ragazza che si è trasferita a Las Vegas sognando una carriera di successo come cantante. Lei è interpretata da Drew Barrymore.

    Fonte: Pixabay Autore: lindsayascott

    L’amore porterà grossi stravolgimenti, ma questa pellicola è molto di più che una semplice storia d’amore. Vediamo che Huck prova un forte rancore nei confronti di suo padre, colpevole di aver abbandonato la madre, morta poi solo dopo un anno dall’abbandono. Questo pensiero è una costante per Huck, che vince moltissimo al poker, ma puntualmente poi perde tutto per le ragioni più varie. Lui ha un’unica grande e potente aspirazione, ovvero quella di battere il genitore. Raccoglie 10.000 dollari e si iscrive al Main Event delle World Series of Poker. Grazie alle sue spiccate qualità di giocatore riesce a farsi strada nel torneo e a conquistare il tavolo finale. Proprio a questo tavolo, tra i suoi avversari incontra il padre. Inizia così una sequenza di fortissima tensione. Dopo aver eliminato i principali avversari, Huck si ritrova a giocare contro il genitore. La partita è molto tesa e dopo varie eliminazioni rimangono in gara solo Huck, un giocatore che aveva incontrato in passato (la prima volta che aveva partecipato a un torneo di poker dal vivo) e il padre. Nella pausa padre e figlio hanno un incontro diretto. L.C. approfitta del momento e racconta al figlio come sono andate veramente le cose tra lui e la madre. La cosa cambia di molto le carte in tavola. La posta in gioco è qualcosa di molto grande per entrambi.

    Il gioco tra i due diventa un simbolo. In un certo senso, le regole del poker diventano a tutti gli effetti una metafora delle regole della vita. È sano applicare strategia e tanta competizione nei rapporti personali? In diversi casi questo è un atteggiamento spontaneo, in altri casi meditare ogni mossa diventa un atteggiamento necessario. A fare da cornice a questa riflessione c’è Las Vegas, una città ritratta in modo piuttosto inedito. Niente sfarzo, niente insegne luminose, la Las Vegas di questo film è quella delle sale da gioco professionali, ben più raccolte delle grandi sale da gioco per turisti.

    La regia di Curtis Hanson è raffinata e ispirata ai grandi classici della tradizione cinematografica americana. I dettagli sono molto curati. Per certi versi la pellicola manca di sorprese e non tutte le sue parti sono sempre coerentissime con l’economia del film. Molto convincente la prova attoriale di Eric Bana, scelto da Eric Roth, che era rimasto molto sorpreso dalla sua interpretazione nel film Munich di Steven Spielberg. Drew Barrymore stupisce per le sue doti canore. Piccola gemma, il cameo di Robert Downey Jr.. Nel film appaiono inoltre dei veri e propri campioni del poker contemporanei, pokeristi riconosciuti a livello globale come Daniel Negreanu, Doyle Brunson, Phil Hellmuth, Sam Fahra, Cyndy Violette e molti altri ancora. Inoltre, il commentatore del torneo World  Series of Poker nella versione italiana del film è doppiato da Fabio Caressa. Questa pellicola, con tutti i suoi dettagli e le sue citazioni, è sicuramente una gioia per gli amanti del poker.

    Fonte: Pixabay – Autore: PixelAnarchy

  • War pigs racconta il mondo in cui viviamo ancora oggi

    War pigs racconta il mondo in cui viviamo ancora oggi

    “War Pigs” dei Black Sabbath è una canzone che affronta temi di guerra, politica e ingiustizia sociale. Pubblicata nel 1970 all’interno dell’album “Paranoid“, la canzone esplora la natura devastante e disumana della guerra, criticando i leader politici e le élite che traggono profitto dalle sofferenze dei soldati e dei civili.

    Il testo di “War Pigs” presenta una critica pungente nei confronti dei potenti che prendono decisioni di guerra, utilizzando i giovani come pedine nei loro giochi di potere. La canzone mette in discussione l’idea che la guerra sia un atto di giustizia o difesa, suggerendo invece che sia spesso motivata da interessi economici e politici. I “Maiali della Guerra” citati nel titolo rappresentano coloro che traggono beneficio dal conflitto, manipolando le masse per i propri fini egoistici. Nel corso della canzone, vengono esposte immagini di morte, distruzione e disperazione, sottolineando l’orrore e la brutalità della guerra. Il testo critica anche il cinismo e l’ipocrisia dei potenti, che si fingono angeli di pace mentre alimentano i conflitti e spargono il caos nel mondo.

    War Pigs” dei Black Sabbath è una canzone che critica apertamente la guerra e coloro che la promuovono, con un’analisi del suo impatto distruttivo sia sui soldati che sui civili. Il testo riflette una profonda avversione per le guerre motivate da interessi politici ed economici, e condanna i leader politici che sfruttano il conflitto a proprio vantaggio.

    Il ritornello, con il famoso “Generals gathered in their masses / Just like witches at black masses” (Generali radunati in masse / come streghe durante le messe nere), sottolinea il tema della corruzione e dell’oscurità che avvolge coloro che decidono di intraprendere la guerra. Viene altresì fatta una critica acuta all’ipocrisia dei potenti che si presentano come difensori della libertà, mentre in realtà sono i veri responsabili della sofferenza e della distruzione causate dalla guerra.

    Il testo continua ad esplorare il tema della disumanizzazione e della perdita di innocenti, con riferimenti a “Vittime di torture mentale” e “Animali assetati di sangue” che “Distruggono il tuo corpo e la tua mente”. Queste immagini evocano l’orrore e la brutalità della guerra, e denunciano la distruzione della vita umana e della dignità che essa porta con sé.

    “War Pigs” dei Black Sabbath è una canzone intrisa di rabbia e frustrazione nei confronti delle ingiustizie e delle violenze perpetrate nel nome della guerra. Anche se scritta più di cinquant’anni fa, la sua critica al militarismo, all’ipocrisia politica e alla manipolazione delle masse è ancora sorprendentemente attuale.

    Oggi, “War Pigs” continua a essere rilevante in un mondo segnato da conflitti armati, interessi geopolitici e disuguaglianze sociali. La canzone invita l’ascoltatore a riflettere criticamente sulle politiche belliche dei propri governi, sulla corruzione delle élite e sulle ingiustizie perpetrate nei confronti dei più vulnerabili. Essa rappresenta un richiamo all’azione contro le ingiustizie e un monito contro la cecità e l’indifferenza di fronte alla sofferenza umana causata dalla guerra e dal potere politico corrotto. Foto di copertina: Von Warner Bros. Records – Billboard, page 7, 18 July 1970, Gemeinfrei, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=27211119

  • Su quante volte andare dal terapeuta

    Su quante volte andare dal terapeuta

    Un articolo di Richard A. Friedman sull’Atlantic, ripreso qualche giorno fa anche da Internazionale, racconta che “molte persone potrebbero – o dovrebbero – abbandonare la terapia in questo momento, rimarcando la questione non come una minaccia, ovviamente, bensì come un’opportunità. La psicoterapia di tanti, in altri termini, è utile e costruttiva ma non può durare per sempre. Quanto deve durare, allora?

    Se ci si ragiona un attimo, da addetti ai lavori o meglio – nel mio caso – da semplici profani (meri lettori forti di psicologia e psicoanalisi, in terapia da anni, qualsiasi cosa ciò possa, o meno, implicare) ci si rende conto che la questione è forse più giornalistica che altro. Quante volte andare dallo psicologo o chi per lui? Ah, boh. Perché sarebbe come chiedere quante volte andare dal dentista, dal fisiatra o dall’oculista per il resto della nostra vita. Ci andremo, banalmente (la banalità a volte è salvifica) tutte le volte che ci servirà, tutte le volte che ne avvertiremo il bisogno, o tutte le volte che qualcuno più competente ci suggerità di farlo (il nostro Io, il nostro Es, il nostro SuperIo sono chiamati probabilmente in causa).

    La questione della durata della psicoterapia appare (forzosamente) connessa con quella dell’efficacia, in una sociatà apertamente capitalista e utilitarista come quella in cui viviamo. E non si tratta, quasi certamente, di una questione di upper bound temporali. Perchè io sono il capo di me stesso, dirigo l’azienda del mio inconscio, pago denaro sonante – e figa, esigo i risultati, da buon milanese imbruttito.

    Vale la pena riprendere l’incipit di quell’articolo, che traduco liberamente di seguito:

    Circa quattro anni fa, un nuovo paziente venne a trovarmi per una consulenza psichiatrica: si sentiva in qualche modo bloccato. Era in terapia da 15 anni, e continuava ad andarci nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo. Invece di lavorare sui problemi legati ai sintomi, lui e il suo terapista parlavano delle sue vacanze, dei lavori di ristrutturazione della casa e dei problemi in ufficio. Il suo terapista era diventato, in effetti, un amico costoso e soprattutto solidale. Eppure, quando gli ho chiesto se stesse pensando di interrompere la terapia, è diventato titubante, persino ansioso. “È semplicemente entrato nella mia vita“, mi ha detto.

    Friedman è un docente di psichiatria clinica e parla, evidentemente, a ragion veduta: si tratta di una situazione anomala da vari punti di vista – da profano, s’intende. E proprio perché si tratta di una casistica che – se anomala è in qualche modo discriminatorio definire – è quantomeno sbagliato generalizzare o renderla addirittura epitomica. Come sono a loro modo semplicistici, eppure ampiamente accettati socialmente, i vari commenti caustici sul senso della terapia: “un lusso per ricchi“, “tanto vale parlare con amico“, e per fortuna che qualche professionista si accorge che qualcosa non quadra e nei commenti lo fa presente. Dannati commenti dei social, così veri eppure così falsi. Eppure – dal 2020 in poi, soprattutto . sappiamo che la verità non si può stabilire, in nessun caso, a suon di like. Ammesso che ci sia un assoluto, una oggettività da ristabilire.

    In primis il terapeuta-amico (un ossimoro che farebbe rabbrividire molti addetti ai lavori) avrebbe dovuto interrompere la relazione a suo tempo e modo, ritengo. Ì una valutazione che faccio anche sulla base di quegli accenni di probabile auto-diagnosi che lo stesso Freud aveva mille dubbi a propinare (“nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo“: come facciamo ad esserne sicuri? Come facciamo a dire con certezza che erano davvero svanite? Perchè continuava ad andare in terapia, se la depressione e l’ansia erano sparite? Anche solo da un punto di vista logico, forse qualcosa non torna.).

    In secondo luogo questa storia è già fin troppo ingarbugliata, e parla di psichiatra che ascolta un paziente avere un problema ricorsivo col proprio terapeuta. Si parla di persone che hanno dei problemi, e si sta cercando di costruire un teorema su questa storia, giustp?  Come se non bastasse, è abbastanza vero che la terapia sia un lusso che – in Italia, ad esempio – non tutti si possono permettere, tra scuole di specializzazione che arrivano a costare migliaia di euro all’anno per gli aspiranti terapeuti e pazienti che – nella maggioranza dei casi – si pagano da soli la terapia, quando i bonus psicologo sono erogati poco e male (la regione Calabria, ad esempio, li ha erogati soltanto in parte, lasciando vari richiedenti / potenziali aventi diritto nel dubbio, ad oggi, se mai arriverà qualcosa per loro).

    “Tra coloro che se lo possono permettere – sottolinea l’autore – la psicoterapia regolare è spesso vista come un progetto che dura tutta la vita, come allenarsi o andare dal dentista. Gli studi suggeriscono che la maggior parte dei pazienti in terapia può misurare i propri trattamenti in mesi anziché in anni, ma una buona parte dei pazienti attuali ed ex si aspetta che la terapia duri indefinitamente. Sia i terapisti che i clienti, insieme alle celebrità e ai media, hanno approvato l’idea di andare in terapia per periodi prolungati o quando ti senti bene. L’ho visto io stesso con amici che sono fondamentalmente sani e pensano che avere un terapista sia un po’ come avere un coach.”

    È evidente che chi si affida a un terapeuta lo fa per propria volontà, ed è anche evidente che non si tratta di stabilire nuovi livelli di dipendenza ma creare autonomia. È un dubbio che ho esplicitato alla mia ex terapeuta qualche mese fa, il che è stato liberatorio almeno quanto averle confidato tantissime altre cose di me. Tutte cose che una buona terapia deve raccontare, accogliere ed elaborare, un po’ per definizione, perchè non si tratta di prestazioni occasionali e non si tratta di produrre un risultato nel massimo tempo X. Tipo una scadenza, un limite temporale da diagramma di Gantt, un upper bound, e poi vieni in ufficio che ti parlo del mio progetto. E poi, per carità, basta stravolgere i ruoli e capovolgere l’episteme: psicologia non è coaching così come un geometra non è un ingegnere, un dentista non è un podologo e così via.

    Si tratta di capire se effettivamente un terapeuta possa tenere in cura una persona che non ne ha bisogno solo per il vile denaro, ed è questa la domanda da farsi.  No, io non credo che ci siano lì fuori così tanti terapeuti disposti a fare una cosa del genere, perchè l’etica professionale ha il proprio peso e, se vogliamo, per lo stesso motivo per cui i chirurghi non operano al cervello solo per portare a casa la pagnotta. metterla su questo piano temo che sia anche frutto di un semplicismo de-ideologizzato, in cui la gente parla di queste cose senza sapere chi siano Jacques Lacan, Felix Guattari o Franco Basaglia. Non che sia obbligatorio saperlo, però magari uno si fa un’idea. Al limite, chiede a qualche terapeuta abilitato. E la sensazione generale è che possa esistere un forte movimento no psycho, che banalizza o irride la (portata/durata delle) sedute, considera dei poveracci quelli che lo fanno e via dicendo. Liberissimi di pensare quello che vogliono, altrettanto liberi noi pazienti di ignorare bellamente le loro (presuntuose) istanze.

    Persistono vari livelli di confusione, peraltro, in cui si può cadere. C’è un altro grande problema legato alla pretesa di oggettività della terapia, quando la disciplina è per sua natura soggettiva – e quello che vale per un caso clinico non vale per altri novecentonovantanove, di solito. C’è certamente l’aspetto a volte doloroso per alcuni del separarsi dal proprio terapeuta, un aspetto che per alcuni diventa tabù: ma è un passaggio necessario da affrontare con fiducia e coraggio, e che ho affrontato anche io. L’ho fatto nella mia piccola esperienza usando la soluzione sommessamente suggerita fin dai tempi di Freud: la terapia della parola, ovvero parlandone al mio terapeuta e identificando l’annesso demone. L’aspetto della dipendenza e della separazione fu oggetto di una critica esplicita già nell’anti-Edipo durante gli anni 70, e mi limiterò a ribadire che tanti problemi di questo tipo sono contestuali, e non tutto è controllabile o dipende da noi (lezione imparata con anni di terapia, peraltro).

    Nulla da obiettare sul fatto di scrivere articoli divulgativi su questi argomenti, qualcosa da obiettare sul fatto di renderli clickbait e di dar l’impasto alla solita folla informe e le boniana sui social, cosa per cui in effetti non mi sento di colpevolizzare nessuno. Non possiamo nemmeno farne una questione di durata, come se un muscolo dovesse abituarsi, come se fosse una questione di fare fisioterapia per 20 sedute o di allenare un po’ i bicipiti. Come se si trattasse di allargare le spalle o di scolpire il fisico, e tantomeno come se fosse normale che la terapia diventi una chiacchierata tra amici. Per favore: liberissimi di affidarvi a chi volete o meno, ma evitiamo il settarismo e soprattutto manteniamo (per il bene dell’umanità tutta) i limiti epistemologici. Non stiamo parlando di robot o macchine, ma di esseri umani. Al limite, di macchine desideranti. Senza peraltro scomodare questioni prettamente cliniche – che sono per l’appunto soggettive, e che ci risparmiamo di fare: per lo stesso motivo per cui non ci azzarderemmo a dare suggerimenti clinici a una persona che arriva in questo sito perché ha mal di denti, non ne abbiamo titolo e lo accettiamo pacificamente senza sputare sentenze sul prossimo.

    E poi sì, magari evitiamo l’altro equivoco molto italiano di confondere tra mille mondi diversi (sfumature diversissime: terapeuta, psicologo, motivatore, personal coach). Il problema di fondo delle terapie troppo lunghe è sostanziale ma non è risolvibile dall’esterno, per quello forse non era il caso di scriverci addirittura un articolo generalizzante e dal sapore pseudo-teorico, come se stessimo parlando della descrizione di un fenomeno fisico newtoniano che avviene sempre allo stesso modo, in un laboratorio di fisica del MIT come di fronte al bar sotto casa. L’errore di fondo è anche che viviamo in una società prettamente fideistica, ed è ormai radicato l’equivoco epistemologico, per lo stesso motivo per cui ci fidiamo meno dei medici e più dei santoni, meno dei terapeuti e più dei preti (forse), attribuendo una presunta “scientificità dura” ad una scienza che, al contrario, possiede la soggettività nel proprio statuto epistemologico, per quanto poi questo aspetto non sia ancora troppo valorizzato.

    Anche perché alla prova dei fatti la realtà è soggettiva e spesso più inosservabile di quanto vorremmo, quasi nessuno è davvero esperto di episteme, si relativizza la medicina e si oggettivizza la psicoanalisi e, nel mentre, nemmeno gli elettroni si fanno guardare. Suggerisco di leggere a riguardo, se interessa, sia l’articolo linkato che la sua versione ironico-parodistica: Guida pratica al gatto di Schrödinger. E soprattutto non banalizziamo i problemi nostri, tantomeno quelli altrui. Perchè ognuno ha i propri tempi, e vanno rispettati. (P.G.)

  • Gattopardismo!

    Gattopardismo!

    Il Gattopardo: storia, sinossi, sintesi, significato

    “Il Gattopardo” è un romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e pubblicato postum. È una delle opere più importanti della letteratura italiana del XX secolo ed è considerato un classico della narrativa storica.

    Anno di pubblicazione: 1958.

    Sinossi: Il romanzo è ambientato in Sicilia durante il periodo delle Guerre Risorgimentali, nel 1860. Narra la storia della decadenza della famiglia nobiliare dei Salina, guidata dal principe Don Fabrizio. La trama segue i cambiamenti sociali e politici che si verificano in Italia durante quel periodo, inclusa l’unificazione italiana. Il protagonista, il principe Don Fabrizio, è costretto a confrontarsi con il declino del suo ceto sociale, la perdita del potere e dell’influenza, e la trasformazione del paesaggio politico e sociale.

    Gattopardo e gattopardismo: significato metaforico

    Significato metaforico: “Il Gattopardo” è spesso interpretato come una metafora della trasformazione e dell’evoluzione sociale in Italia durante l’unificazione. Il titolo stesso del romanzo si riferisce al “gattopardo”, ovvero il leopardo, che rappresenta la famiglia nobiliare dei Salina. L’immagine del gattopardo riflette l’idea che, per sopravvivere in un mondo in cambiamento, è necessario adattarsi e trasformarsi, proprio come un gattopardo cambia il suo mantello per sopravvivere nel suo ambiente.

    Il personaggio del principe Don Fabrizio rappresenta la vecchia nobiltà, la quale deve affrontare la realtà del suo declino sociale e politico. La famosa citazione “Tutto deve cambiare affinché tutto possa rimanere come prima” sintetizza l’idea che, nonostante le apparenze di cambiamento, alcune cose fondamentali rimangono immutate. Questa frase riflette anche il tentativo di adattamento della nobiltà all’evoluzione politica senza perdere completamente la propria identità e privilegi. Inoltre,il romanzo affronta temi come il passaggio del tempo, la nostalgia, la perdita e la transitorietà della vita. La vicenda dei Salina diventa una metafora di un’intera epoca che sta lentamente scomparendo, e il romanzo cattura in modo suggestivo l’atmosfera di cambiamento e incertezza che accompagnò l’unificazione italiana.

    “Il Gattopardo” può pertanto essere interpretato come un’affermazione sulla natura ciclica della storia e sulla necessità di accettare il cambiamento inevitabile, pur preservando l’essenza della propria identità.

    Il film di Luchino Visconti

    “Il Gattopardo” è la trasposizione cinematografica  del 1963 del romanzo: un film diretto da Luchino Visconti basato sull’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La pellicola è ambientata in Sicilia durante il Risorgimento italiano e narra la storia della caduta della nobiltà feudale e dell’ascesa della borghesia.

    Regia: Luchino Visconti

    Interpreti principali:

    • Burt Lancaster nel ruolo del Principe Don Fabrizio Salina
    • Claudia Cardinale nel ruolo di Angelica Sedara
    • Alain Delon nel ruolo di Tancredi Falconeri

    Recensione: Il film è stato ampiamente lodato per la sua bellezza visiva, la profondità dei personaggi e la rappresentazione accurata dell’epoca. La regia di Visconti è considerata magistrale, così come le interpretazioni degli attori principali. È spesso celebrato per la sua cinematografia sontuosa e per il modo in cui cattura l’atmosfera e i dettagli storici dell’epoca.

    Trama: Il film segue il Principe Don Fabrizio Salina, capo di una famiglia aristocratica in declino, mentre naviga attraverso i cambiamenti politici e sociali del Risorgimento italiano. Il nipote del principe, Tancredi, si unisce ai rivoluzionari, mentre Don Fabrizio cerca di preservare il suo status e le tradizioni familiari durante un periodo di trasformazione tumultuosa.

    Note di produzione e curiosità:

    • Il film ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1963.
    • È stato girato in varie location in Sicilia, tra cui il Castello di Donnafugata.
    • La colonna sonora è stata composta da Nino Rota, noto per le sue collaborazioni con registi come Visconti e Fellini.

    Significato del film: “Il Gattopardo” affronta temi universali come il cambiamento sociale, la decadenza della nobiltà, la politica e l’amore. Il personaggio del Principe Salina rappresenta la vecchia classe aristocratica che sta perdendo potere mentre il mondo intorno a lui cambia. Il film esplora la natura effimera del potere e la necessità di adattarsi ai cambiamenti per sopravvivere. Il titolo stesso, traducibile in “Il Leopardo”, fa riferimento alla natura camaleontica del protagonista, che deve adattarsi al cambiamento pur rimanendo fedele a se stesso.