PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    Ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, Cronenberg racconta la relazione semi-clandestina tra un diplomatico francese ed un cantante dell’opera…

    In due parole. Uno dei film meno noti di David Cronenberg: per la prima volta tanto lontano dall’estetica horror/sci-fi quanto intenso. Non cambia la poetica della mutazione (che in questo frangente è di natura prettamente sessuale) e si mostra la trasformazione umana e psichica di un protagonista: in parte, quella che il regista stesso stava attraversando.

    Il drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film in questione) scrive la pièce teatrale M. Butterfly ispirandosi ad un singolare fatto di cronaca: un diplomatico francese venne accusato di spionaggio per via del rapporto con un’attrice dell’Opera di Pechino, la quale in sede giudiziaria si rivelò essere un uomo. Cosa ancora più singolare, l’uomo si convinse dell’impossibile, ovvero di avere avuto un figlio dalla compagna/compagno con immaginabili conseguenze sul piano mentale e psicologico: un terreno particolarmente fertile per un regista come David Cronenberg, che già in “Inseparabili” aveva giocato sul confronto tra due gemelli identici ma interiormente differenti, e che aveva a suo tempo sviscerato le proprie ossessioni in termini mentali (Scanners), medico-chirurgici (Rabid sete di sangue, Il demone sotto la pelle), ginecologici e sessuali. Un cinema improntato ad una fortissima passionalità di fondo, dunque, che in questo film mostra un’ennesima debolezza umana: noi siamo conquistati prima ancora dall’idea dell’amore e dell’amata che dalla sua concreta materialità.

    Un tema profondo che ha trovato sfogo, ad esempio, nella concettualizzazione della donna ideale da parte dell’impiegato Sam di Brazil (che immagina essere un angelo dai capelli biondi) e la sua materializzazione (una mascolina e rude camionista): in “M. Butterfly” la donna amata, che ha procurato piacere fisico e mentale al protagonista René Gallimard, si rivela essere un uomo. Questo scatena una crisi ulteriore nel personaggio, in bilico tra il dover riconoscere l’abbaglio e la fuoriuscita di una omosessualità probabilmente repressa. Del resto la visione del sesso nei film del regista canadese, almeno fino a quel punto, era improntata a mostrarne dilemmi, virtualizzazioni (Videodrome) e contraddizioni, e questo ad esempio nell’ottica della maternità, comunemente considerata l’aspetto più rassicurante del mondo femminile che assume invece parvenza da incubo (vedi il finale di Brood).  In questa sede il focus sembra spostarsi sull’uomo, sul suo dramma interiore e su un amore impossibile che si risolve nello splendido monologo finale di Jeremy Irons (che vale forse da solo l’intera visione del film).

    Non credo di scrivere eresìe se premetto, a questo punto, che probabilmente “M Butterfly” è uno dei meno immediati film, in termini di intenti, mai girati da David Cronenberg (senza parlare di vera e propria complessità). Quello che intendo prescinde da un discorso prettamente visivo o allucinatorio tipico del cinema del regista canadese (e che qui manca del tutto): l’intensità della storia, un dramma che si sviluppa inesorabile con i punti interrogativi che assillano lo spettatore fino alle ultime sequenze, rendono questo film in qualche modo un unicum. Non è la prima volta che Cronenberg si rifà a modelli letterari pre-esistenti, ma è probabilmente il primo caso in cui l’orrore non viene “esploso” brutalmente sullo schermo ma rimane splendidamente interiore. Del resto la storia ruota su un evento che cambierà per sempre la vita del protagonista, spazzandone via illusioni, equilibrio mentale e identità: una dinamica che ricorda la progressiva demolizione dei personaggi di una tragedia classica (oltre che di altri capolavori del regista, su tutti “La mosca”), e che non lascerà indifferente lo spettatore.

    Un film giocato sulle consuete ambiguità cronenberghiane, a cominciare dal titolo “M Butterfly” che sembra rimanere volutamente sospeso tra “Madame” e “Monsieur”, e che esprime senza retorica o virtuosismi inutili il dramma di un uomo (o di una donna) e di un amore impossibile.

  • Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

    Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

    Tokio Fist è la trasfigurazione in chiave realistica di buona parte delle tematiche affrontate da Tetsuo: alienazione, incomprensione umana e sopraffazione fisica del forte sul debole. Le macchine sono qui sostituite dalla forza del pugilato, che diventa metafora di superamento e schiacciamento dell’altro, oltre che di smascheramento delle sue debolezze. I

    l film piacque molto all’epoca dell’uscita per l’efficace rappresentazione di tre caratteri umani, ma probabilmente risulta sopravvalutato e troppo “ordinario” rispetto al resto della filmografia di Tsukamoto.

    Un girantesco ring nel quale i tre protagonisti continuano a proporre scontri diretti e a darsele di santa ragione, senza tregua: è forse una metafora un po’ scontata per un film che ha come argomento collaterale la boxe. Tsuda è un brillante agente assicurativo di Tokyo, vive un rapporto difficile ed pieno di incomprensioni con la mite fidanzata Hizuru. La vita nella metropoli lo assorbe completamente, e lo ha trasformato in una sorta di succube alienato, che conosce l’efficenza ma non le basilari regole di sopravvivenza. Un giorno intravede a un incontro di pugilato Takuji, un vecchio compagno del liceo (quasi certamente un bullo), ormai rude pugile professionista che è l’esatto contrario di lui: sicuro di sè, forte fisicamente, prepotente nei confronti dell’altro. I rapporti tra i due diventano difficili non appena Takuji inizia ad intendersela con la fidanzata dell’amico, creando un turbolento triangolo di emozioni.

    Il “pugno di Tokio” (traduzione letterale del titolo) colpisce in faccia lo spettatore, toccandolo da subito nello stereotipato orgoglio maschile colpito mortalmente da un rivale in amore più forte. Gli scontri fisici tra i vari personaggi sono estremizzati, l’atteggiamento guerriero del personaggio protagonista – regolarmente riempito di botte, nonostante la sua apparente convinzione e “carica” iniziale – tende a degenerare nel parossismo: e se la cosa farà un po’ ridere lo spettatore meno abituato e più malizioso, si pensi che è stato fatto allo scopo di spazzare via la plastificata apparenza che è costretto ad indossare qualsiasi “colletto bianco”. Insomma i temi del film sono i soliti di Tsukamoto, sempre magistrale a rappresentare la conflittualità umana, l’alienazione metropolitana ed il suo gusto per lo sciacallaggio facile.

    Come sempre verso questa categoria di lavoratori “disumanizzati” Tsukamoto si pone non tanto come liberatore, quanto come possibile lenitore del loro dolore interno. E’ evidente che il male principale di Tsuda, che lo rende incapace di rapportarsi nel migliore dei modi con la propria compagna, è proprio la divisa che è costretto ad indossare, che lo rende pacifico, inerme ed incapace di reagire. E’ questo, probabilmente, diventa uno dei mali del millennio.

    Per il fatto che la storia sia inserita nella normalità di un contesto quotidiano, e perchè i tre personaggi sono tre “uno qualunque“, probabilmente, Tokio fist presenta a mio parere delle debolezze: per la sua ostentata ordinarietà, per la sua leggermente pretenziosa pretesa di scaricare la tensione dello spettatore in liberatori scontri all’arma bianca (e senza scomodare troppo la nostalgia ci sono altri film orientali che riuscirono a farlo in modo più credibile).

  • Essere sapiosessuale

    Essere sapiosessuale

    Una volta un amico mi ha confidato di “essere sapiosessuale” – di sentirsi attratto da partner con cui possiede interessi in comune in termini culturali. Il sapiosessuale è infatti attratto dal cervello dell’altra persona, al punto di sognare di farlo proprio, di farselo, di renderlo organo sessuale.

    Il concetto mi sembrava affascinante e, qualche mese dopo, mi è capitato di metterlo alla prova: per mesi ho frequentato assiduamente una collega con cui vado molto d’accordo e c’è tuttora intesa mentale considerevole. Ogni aspetto del reale era motivo di confronto, diventava la scusa per parlare di libri, di film, di musica; per raccontare di noi, aprirci l’un l’altro. E poi condividere conoscenza, raccontarci storie, essere trasparenti, sinceri l’uno con l’altra, infarcite di autori che avevamo letto e cose che avevamo studiato. Sembrava il preludio di una delle più belle storie sapiosessuali mai raccontate, ma non è andata come si sperava: la persona in questione si è rivelata più attratta dai miei ragionamenti che da me, e il suo interesse era sinceramente lavorativo e non sentimentale o sessuale. L’altra persona che parlava di sapiosessualità, del resto, non ha mai esibito troppa cultura con la propria compagna, anzi ha sempre insistito su un registro colloquiale anche piuttosto banale, stantìo, nulla di elaborato. Mi venne il dubbio, a quel punto, che la sapiosessualità di fatto non esista, o al limite che si tratti di un modo per abbellire la propria narrazione emotiva (nulla di male nel farlo, intendiamoci).

    Di per sè, se andiamo ad indagare, la sapiosessualità sembra un neologismo senza alcun fondamento scientifico, al contrario di altri fenomeni come la demisessualità che sono attualmente allo studio. Può anche darsi che in futuro vengano fatti studi approfonditi anche sulla sapiosessualità e si possa saperne di più, ma ad oggi è bene sapere che il termine “sapiosexualcompare sul web sul finire degli anni Novanta, sul blog dell’utente con nickname wolfieboy. L’autore si considerava “entusiasta della sapiosessualità“, e del fatto “che parecchie persone stiano annoverando la sapiosessualità come interesse“. Nel blog, l’autore si attribuisce di aver “inventato” questato parola nel 1998, a seguito di una discussione con una blogger (nickname Jadine), con cui – in era pre-social / web 1.0 – era solito comunicare e scambiarsi idee.

    La sapiosessualità veniva definita da wolfieboy come un qualcosa di diagonale rispetto al sesso biologico, dato che (scrive l’autore)

    Non mi interessa molto “l’impianto idraulico”

    nel senso che non gli interessava il sesso del partner, probabilmente. L’autore specifica poco dopo la propria lista della spesa in fatto d’amore:

    Vorrei una mente incisiva, curiosa, perspicace e irriverente. Qualcuno per cui la discussione filosofica sia un preliminare. Qualcuno che a volte mi faccia venire il voltastomaco per la sua arguzia e il suo senso dell’umorismo maligno. Qualcuno che possa raggiungere e toccare dove capita. Qualcuno con cui potermi fare le coccole.

    Ho deciso che tutto ciò significa che sono sapiosessuale, conclude in modo lapidario.

    Se ammettiamo che questa dichiarazione possa essere una sorta di “manifesto” della sapiosessualità (termine popolarizzato ulteriormente, per inciso, dalla scrittrice erotica Kayar Silkenvoice), bisognerebbe premettere che quella wishlist interminabile di desiderata per un partner sia probabilmente irrealistica. Questo anche solo per il fatto che si basa su una lista della spesa discorsiva, poco applicabile alla realtà, e perchè – da che mondo è mondo, diremmo – ognuno trova i partner che trova, senza programmi, senza scadenze e soprattutto se li trova. Questo ci riconduce a pensare il problema della sapiosessualità in termini cognitivi, perchè sembrerebbe plausibile che si tratti di un paravento, un bias cognitivo che ci risparmia di fare i conti con la realtà e la sua irriducibilità ad una formula matematica. Molto più semplice pensare, per intenderci, che sono un/una nerd incallita e voglio un/una nerd incallita come me.

    Viene altresì il sospetto che la sapiosessualità possa essere un costrutto sociale, dai tratti molto semplicistici nel suo concepimento, in netta opposizione alle caratteristiche sfuggenti della realtà in cui viviamo. Una realtà in cui – lo sappiamo bene – è complicato trovare un partner adeguato, soprattutto (ma non solo) in pianta stabile e se le nostre esigenze cozzano con le tendenze maggioritarie della società. Molti trovano subito in modo spontaneo nonostante varie disregolazioni emotive e caratteriali, altri lavorano su se stessi per anni senza trovare nulla. Questo aspetto è fonte di sofferenza per tanti, e spiega il discreto successo di cose come i corsi di seduzione online che, il più delle volte, si prefigurano come saggi incel riduzionisti per maschi bianchi etero. Sono dotati di dialettica argomentativa accattivante quanto semplificata, che sia in grado di catturare la mente delusa del single, ma non rendono (ed è questo il loro limite sostanziale) l’idea della soggettività dell’incontro, dell’irripetibilità della circostanza, della risonanza del contatto fisico e forse neanche della possibilità che possano esistere molte forme di amore, tra cui quelle non necessariamente sessuali. Non è poco, ed è sempre meglio di nulla per chi non trova davvero nient’altro. Viene insomma il dubbio che dire “sapiosessuale” sia un travestimento emotivo per suggerire alle persone che “mi considero degno e voglio una persona degna come me“. Vale la pena seguire la falsariga dell’anti-semplicismo e provare a capire meglio dove ci porta, a questo punto.

    Nel saggio “Abitare la complessità” Mauro Ceruti e Francesco Bellusci evidenziano come sia cresciuta, negli ultimi anni, la diffidenza generale nei confronti della complessità del reale, in favore di una tendenza a trovare una logica forzosa in ogni cosa. Al netto dei complottismi che giustificano sempre qualsiasi cosa, si finisce spesso per applicare criteri brutalmente cartesiani ad un mondo che, di suo, rifiuta questa categorizzazione, perchè è troppo sfuggente e complesso perchè si possa esprimere in termini deterministici. Gli autori si spingono a scrivere, in merito, che

    il semplice non esiste, ovvero è sempre il semplificato

    nel senso che qualsiasi schema mentale applichiamo alla realtà rivela null’altro che la nostra utilità, ciò che a noi serve, o anche la nostra ansia nell’accettare o meno quella benedetta complessità. Complessità che, a sua volta, non vuole essere sinonimo di complicanza, bensì rilancia la propria effettività in favore di scelte operate, in risposta alla giungla del reale, in maniera più flessibile, dalle conseguenze imprevedibili e non per forza funzionali ad una narrazione preconcetta.

    “La prima regola del club di Dunning–Kruger è che non sai di farne parte” (D. Dunning).

    Al tempo stesso, gli studi di David Dunning e Justin Kruger avevano analizzato ad inizio anni Novanta un campione di studenti universitari che sostenevano un esame, osservando un singolare fenomeno: la performance media effettiva, a confronto di quella auto-percepita, tendeva a presentare un divario sostanziale. Più nello specifico, sembrava che i meno studiosi tendessero a sopravvalutarsi e, al contrario, quelli con voti più alti a sottovalutare le proprie capacità.

    Un fenomeno dai tratti grotteschi che i due autori citano nel proprio articolo “Non qualificati e inconsapevoli: come le difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza portano a autovalutazioni esagerate“, diventato un vero classico del pensiero razionale, dello studio dei bias cognitivi e del debunking in genere. Chi riferisce la sapiosessualità come una caratteristica di se stesso e del proprio potenziale partner (o meglio, del proprio io ideale e della proiezione idealizzata del futuro partner) potrebbe essere parte del club di cui nessuno è consapevole di essere, quello di Dunning e Kruger: potrebbe insomma considerarsi più intelligente di quanto non sia, e sovrastimare le doti del (o della) partner.

  • Mi hanno tolto il match su Tinder

    Mi hanno tolto il match su Tinder

    Quando ho visto il match con Anna mi era sembrata una di quelle piccole vittorie che ti strappano un sorriso nella monotonia dello swipe. Bionda, inglese, nickname PJ, foto intriganti e non costruite, un mix di mistero e semplicità. Devo aver pensato: “Ok, forse qui c’è qualcosa di interessante.” Abbiamo iniziato a scriverci, sembrava ricettiva, rispondeva in modo rapido, qualche battuta, un accenno alla musica che le piaceva e che ci accomunava. Poi, all’improvviso, senza preavviso, sparisce. Il match non c’era più. Le avevo appena scritto quello che facevo nella vita. Soprattutto non avevo risposto “trafficante di organi“. Nessuna spiegazione. Ci sono rimasto male. Non perché fossi innamorato dopo dieci messaggi, ma per quella sensazione di essere stato scartato senza un perché: un oggetto messo nel carrello e rimosso all’ultimo secondo.

    Se ci pensi, in un’ottica evoluzionista, è un comportamento che ha perfettamente senso. Su Tinder e simili, la selezione è brutale e rapida, proprio come lo era per i nostri antenati nella scelta del partner. Solo che loro avevano tempi e contesti diversi, mentre oggi un match dura pochi minuti e può essere annullato due secondi dopo. La selezione sessuale ha sempre favorito chi sa ottimizzare le proprie risorse: scegliere il miglior partner possibile con il minor dispendio di energie. Se dopo un paio di scambi qualcuno sembra meno interessante del previsto, meglio eliminarlo e non investire tempo in una conversazione destinata a morire. L’abbondanza di opzioni amplifica questo comportamento. Quando sai che bastano due swipe per trovare qualcun altro, ogni interazione diventa meno preziosa, più sacrificabile.

    C’è un ulteriore aspetto legato alla gratificazione immediata. Tinder stimola il nostro cervello con continue micro-ricompense, come una slot machine: un match, un messaggio, un piccolo scambio di attenzioni. Ma spesso non c’è un vero interesse dietro, solo il piacere effimero di essere desiderati per un istante. E proprio per questo, il ghosting o il togliere il match senza motivo sono così comuni: non comportano conseguenze sociali reali, nessuno deve dare spiegazioni. Nel mondo reale interrompere una conversazione in modo brusco avrebbe delle ripercussioni, ma online il costo sociale è nullo. Si può sparire senza guardarsi indietro, senza affrontare il minimo disagio emotivo.

    C’è anche chi lo fa per evitare un coinvolgimento, al limite senza nemmeno rendersene conto. Alcune persone, dopo un primo scambio, sentono che si sta creando un’interazione più concreta di quanto vorrebbero e chiudono tutto di colpo, come un meccanismo di autodifesa. Altre semplicemente vogliono testare il loro “valore di mercato”, accumulare conferme, senza mai avere l’intenzione di approfondire.

    Forse Tinder non fa per me, soprattutto se lo usi (come riconosco di fare ogni volta) come strumento compensativo di delusioni e sportellate varie che continuo a prendere dal vivo. Il dating è un’arena dove vince chi sa giocare senza coinvolgersi, chi sa prendere e lasciare senza rimanerci male. Alla faccia di chi racconta di essersi sposato usando app di dating. Forse non faceva per me, semplicemente. Non lei, l’inglese, mi riferisco all’app di dating. (A. P.)

  • Manuale digitale del Cinema Dissacrante

    Manuale digitale del Cinema Dissacrante

    “Dissacrante” è un aggettivo che indica qualcosa che è in grado di oltraggiare, sfidare o violare deliberatamente le norme, le convenzioni o i valori sacri, sia religiosi che culturali. Questo termine viene utilizzato per descrivere qualcosa di provocatorio, irriverente o che mette in discussione idee o istituzioni considerate intoccabili o sacre dalla società o dalla cultura in cui si inseriscono. L’etimologia del termine “dissacrante” deriva dalla combinazione del prefisso “dis” (che indica un’azione negativa o contraria) e dal termine “sacro” che ha radici latine e fa riferimento al concetto di santo o consacrato. Un sinonimo di “dissacrante” potrebbe essere “irriverente”. Entrambi gli aggettivi descrivono qualcosa che manca di rispetto per le norme, le istituzioni o le convenzioni, solitamente in modo provocatorio, sfidando le aspettative sociali o culturali. Altri sinonimi potrebbero essere “scorretto”, “sacrilego”, “provocatorio” o “sfacciato”, a seconda del contesto in cui vengono utilizzati.

    Quindi, letteralmente, “dissacrante” significa “che toglie la sacralità o il carattere sacro a qualcosa”, con una connotazione di sfida o oltraggio nei confronti di ciò che è considerato sacro o intoccabile. Questo aggettivo è spesso usato per descrivere opere artistiche, opere letterarie, film o azioni che mirano a mettere in discussione dogmi, valori tradizionali o concetti considerati sacri dalla società. Il cinema non poteva fare eccezione ed in questo articolo abbiamo raccolto i 10 film tra i più dissacranti mai realizzati.

    Brian di Nazareth

    Diretto da Terry Jones, questo film dei Monty Python affronta temi religiosi in modo satirico, seguendo la storia di un uomo di nome Brian che vive nell’antica Giudea e viene letteralmente scambiato per il Messia.

    Arancia meccanica

    Diretto da Stanley Kubrick, questo film si concentra sulla violenza giovanile e sulla psicologia del male, esplorando il tema del libero arbitrio attraverso un protagonista violento e disturbato.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Diretto da Pier Paolo Pasolini, il film affronta temi di potere, sadismo e perversione attraverso una rappresentazione estremamente cruda e provocatoria.

    La montagna sacra

    Diretto da Alejandro Jodorowsky, questo film surrealista e simbolico mette in discussione le istituzioni religiose, sociali e politiche attraverso una serie di immagini e simbolismi visivi.

    Dogma

    Diretto da Kevin Smith, questo film presenta una visione satirica e irriverente della religione e dei dogmi religiosi attraverso una trama che coinvolge angeli, un’apocalisse e un gruppo di personaggi umani connessi a temi spirituali.

    Borat 2

    Borat Seguito di film cinema: il ritorno del giornalista kazako che diverte (e fa arrabbiare) chiunque

    This Is the End

    Questo film, diretto da Seth Rogen e Evan Goldberg, è una commedia apocalittica che vede diversi attori interpretare versioni di sé stessi in una situazione di fine del mondo, utilizzando humor oscuro e autoironico.

    “The Wolf of Wall Street

    Diretto da Martin Scorsese, questo film segue la storia vera di Jordan Belfort, un broker di Wall Street, mostrando il suo stile di vita eccessivo e immorale, mettendo in discussione il mondo della finanza e della moralità.

    Postal

    Un film che entra di diritto nell’universo del cinema più dissacrante di sempre.

    American Psycho

    Basato sul romanzo di Bret Easton Ellis, il film diretto da Mary Harron segue la vita di Patrick Bateman, un giovane banchiere con tendenze psicopatiche, critica la società degli anni ’80 e le ossessioni materialistiche.

    Fight Club

    Diretto da David Fincher, questo film basato sul romanzo di Chuck Palahniuk mostra una critica al consumismo e alla società moderna attraverso un club segreto che promuove (direttamente o indirettamente, pur sempre in maniera provocatoria) la ribellione contro lo status quo.