PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Il pianeta Melancholia minaccia di avvicinarsi alla Terra; nel frattempo, Justine sta celebrando il proprio matrimonio…

    In breve. Incursione del regista nel genere apocalittico, ovviamente a modo proprio: si parte dal ricevimento del matrimonio della protagonista, e si prosegue la narrazione sui più cupi toni. Sullo sfondo, un pianeta che minaccia di andare in collisione e distruggere la Terra. Rientra nel genere del “più discusso che visto“, soprattutto per via delle dichiarazioni controverse di Von Trier che lo fecero espellere da Cannes.

    Un film ingiustamente sottovalutato per via della concomitanza con le dichiarazioni shockanti del regista a Cannes, che gli valsero l’espulsione dal festival; questo ha finito per mettere in ombra la sostanza del lavoro, per cui certa critica (ad esempio Maltese) è arrivata a farlo passare con disprezzo per apologia di nazismo, evitando accuratamente di menzionarne i meriti (la forza del personaggio protagonista, la narrazione apocalittica stravolta rispetto alla tradizione, il riferimento a Shakespeare), e dando un’immagine sostanzialmente fuorviante del tutto, maltrattato neanche fosse realmente aderente al cinema del Terzo Reich.

    Ovvio che le frasi del regista pro-nazismo (in risposta provocatoria ad una domanda sulle sue origini tedesche) sono state problematiche ed imbarazzanti, ma resta il fatto che i film vanno visti e vanno giudicati per quello che sono, non sulla scia di dichiarazioni di contorno – per quanto controverse (e poco chiarite in seguito) siano state. Il rischio, infatti, è quello di farsi strumentalizzare una virgola ed oscurare il restante 99%, caso tipico, peraltro, di molti degli artisti più meritevoli.

    Se è vero che il cinema di propaganda rappresentava realtà artefatte al fine di mantenere alto l’umore della folla, quest’opera di Von Trier fa l’esatto contrario: immerge senza pietà il pubblico negli spaventosi fantasmi della depressione, canalizzandoli come un pianeta portatore di distruzione. Un male che è risaputamente difficile da raccontare, e che il regista decide di accompagnare con l’esposizione, ben nota, della sua consueta filosofia nichilista: è questo a rendere forse “indigesto” questo Melancholia che, come valore assoluto, resta un film pregevole e di grande livello. Il regista decide di narrare la storia mediante discorsi prevalentemente indiretti, facendo affidamento sulla mimica della Dunst e su relazioni tra i personaggi sempre ambigue e bivalenti: può piacere o meno, ma dal punto di vista artistico la scelta è impeccabile.

    La narrazione lavoro molto sugli accenni, sui riferimenti detto/non detto, soprattutto attraverso l’interpretazione magistrale della protagonista, per cui il pianeta Melancholia, in inesorabile avvicinamento alla Terra (probabilmente ispirato al pianeta ipotetico Nibiru), diventa un simbolo puro di ineluttabile autodistruzione. Cosa ancora più significativa, il finale viene subito mostrato al pubblico, con la sequenza di Melancholia che ingloba il nostro pianeta e scatena l’Apocalisse, anticipando un finale che poteva essere clamoroso (ed obbligando il pubblico a concentrarsi sul resto del film). In quest’ottica, l’interesse di Justine per l’astronomia da un lato, e la cieca fiducia nella scienza del cognato dall’altro, assumono una valenza tragica e grottesca al tempo stesso, ed andrebbero letti esclusivamente in quest’ottica.

    Melancholia simboleggia la più crudele depressione (la stessa vissuta in prima persona dal regista, all’epoca) nella figura controversa di Justine, sposa solo apparentemente felice, che senza una reale ragione si farà sopraffare da un malessere nichilista giusto il giorno del suo matrimonio. Lo stesso personaggio che, quasi incredibilmente, saprà mantenere la calma più assoluta pur consapevole della fine imminente, emulando così il comportamento tipico degli affetti da depressione. Personaggio di grande spessore, peraltro, poichè ispirato all’Ofelia di Shakespeare così come rappresentata nel dipinto di Millais (e che nel film possiamo vedere rievocata all’inizio). Non siamo ai livelli sublimi delle conflittualità espresse in Antichrist, per intenderci, e questo film soffre di qualche problema di ritmo (tutto, nello svolgimento, è rallentato fino all’inverosimile): perdonabile, tutto sommato, se si considera quale pregevole incursione – solita fotografia spettacolare, per inciso – di Von Trier nel genere apocalittico puro, passata purtroppo inosservata da molti, oltre che snobbata per via dei problemi sopra menzionati.

    Ho molta paura di quello schifo di pianeta.

    Quello schifo di pianeta? Quel meraviglioso pianeta vorrai dire. Prima era nero, adesso è blu, copre Antares…

  • Gran Torino: un film profondo che vale la pena riscoprire

    Gran Torino: un film profondo che vale la pena riscoprire

    Un’eccellente opera che eredita qualcosa del Clint vecchia maniera, e rielabora un personaggio di spessore per un film indimenticabile.

    Un’altra grande pellicola di un regista di enorme intelligenza, che si esplica attraverso una trama fittissima di dettagli, rappresentando realisticamente la miseria e la sofferenza di un uomo troppo vecchio – e troppo solo – per combattere contro un mondo ostile: tutto questo è, in estrema sintesi, Gran Torino, opera di Clint Eastwood uscito in Italia nel febbraio 2009. La trama racconta di un reduce della guerra in Corea (Walt Kowalski), rimasto vedovo, che si vede tartassato da familiari indifferenti e parassiti: la giovane nipote, ad esempio, ambisce ad avere null’altro che la Gran Torino custodita nel garage del nonno. L’autovettura diventa simbolo dell’immobilismo del personaggio: cinico all’estremo, fieramente misantropo, incattivito dalla guerra, diffidente verso le superstizioni che un giovane ed ingenuo prete cerca di inculcargli, e soprattutto biecamente razzista. Una descrizione molto poco politically-correct, che da un lato fa capire da cosa “fugga” il personaggio, ma dall’altro rende fin troppo scontato associare la figura al Clint western, guerriero solitario che si fa giustizia da solo. Walt, che è in cattive condizioni di salute, ha deciso di rimanere ostinatamente solo, mentre la famiglia di uno dei figli cerca di chiuderlo in ospizio: trova così il tempo ed il modo di socializzare con una famiglia asiatica (precisamente Hmong), superando l’ostilità iniziale e mostrando l’animo nobile derivante delle sue esperienze. Alla fine arriverà a capovolgere il proprio odio per prendere le difese dei due giovani ragazzi di famiglia, Sue e Thao, continuamente tormentati da una baby-gang di cui è capo il loro cugino maggiore.

    Sebbene la rappresentazione delle gang sia abbastanza stereotipata, essa ricorda vagamente quanto suggerito da Spike Lee in “Fa’ la cosa giusta“: tuttavia il “fight the power” si trova ad essere completamente ribaltato negli assunti, per mostrare, più che reali implicazioni sociali, il clima insostenibile in cui alcuni deboli si trovano a soccombere, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Eastwood sviscera il disagio della solitudine da più sfaccettature, e le prepotenze della crudele gang in questione compaiono, alla fine, “solo” come un macabro surplus. Un film che, peraltro, riesce a tenere viva l’attenzione dello spettatore per ben due ore senza sbavature, senza pecche e con diversi dettagli aggiuntivi: tra di essi l’educazione tradizionale, la ribellione disperata della pecora sul lupo, l’importanza della figura paterna e la cupa rassegnazione che questo mondo necessiti sempre e comunque di eroi.

  • La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    Settembre 1975, Roma: un gruppo di ragazzi benestanti frequenta una scuola cattolica, in cui ogni insegnamento è erogato alla luce della religione, mentre le contraddizioni non mancano, a nessun livello, e presto esploderanno. Si tratta del contesto in cui emergeranno i fatti tristemente noti della strage del Circeo.

    In breve. Un film tragico e realistico, ispirato a fatti realmente accaduti, che lascia un profondo segno nelle coscienze, tra mille irrisolti e ingiustizie.

    La scuola cattolica racconta una Roma anni ’70 parzialmente atipica, lontana dal contesto generale in cui si muoveva la società dell’epoca ed in cui un delitto, alla fine, sarà commesso quasi come fosse un gioco come un altro.

    Il focus del film dovrebbe coincidere con quello del romanzo di Albinati da cui è tratto, vincitore di un Premio Strega nel 2016. Se la cinematografia di genere ha raramente raccontato la strage del Circeo nella storia, resta vero che si è ispirata a quei fatti a più riprese, ispirando – anche solo a grandi linee – film controversi di fiction come La casa sperduta nel parco o Morituris. Ma il parallelismo finisce lì, perchè sembrano molto diverse le motivazioni: se quei lavori erano (in alcuni casi) finalizzati allo shock dello spettatore e ad una filosofia nichilista,  in questa sede la sofferenza interiore dei personaggi (e la loro violenza malcelata) è frutto del contesto sociale, a cui il regista conferisce grande rilievo. Gran parte del film, infatti, è abile a mostrare contraddizioni innate: padri autoritari che picchiano i figli, una società poco aperta agli scambi con l’esterno, un perbenismo di facciata che si specchia narcisisticamente nella finta sicumera dei giovani protagonisti. Giovani che si ritrovano immersi in un contesto asettico e machistico, che era destinato, in effetti, a lasciare il segno anche sulle generazioni successive.

    Questo vale non solo dal punto di vista della storia narrata (alcuni dettagli di cronaca mancano, come ad esempio il fatto che i ragazzi avessero inizialmente offerto dei soldi alle ragazze per avere del sesso, le stesse abbiano rifiutato e da lì sia degenerato il tutto in violenza), ma anche del contesto in cui si muovono i personaggi: si evidenzia come fosse svolta l’educazione cattolica, come il clima di repressione sociale avesse finito per creare uno strato di polvere sotto il tappeto, impossibile da nascondere ulteriormente, ma anche di come la sessualità – in fondo – finisse per spaventare tutta quella generazione, vedi ad esempio il coming out del padre di uno di quei ragazzi, abbastanza per destabilizzare la serenità familiare. Insomma, regia e sceneggiatura sembrano suggerire che il contesto irreprensibile e benestante non sia stato sufficente a prevenire quei fatti. Il sequestro delle due giovani donne, di cui solo Donatella Colasanti riuscirà a salvarsi (come noto, fingendosi morta), è il picco a cui si perveniene in modo quasi inaspettato, per un film che ha il chiaro intento di porre domande tuttora irrisolte, nonchè oggetto di infiniti dibattiti parlamentari (lo stupro venne considerato reato contro la persona – e non solo contro la morale pubblica – dal 1996 in poi).

    La regia di Mordini è abile a contestualizzare la trama, peraltro, anche dal punto di vista delle uscite cinematografiche dell’epoca: la madre sessualmente repressa è distratta per strada dalla locandina di un film erotico (molto in voga all’epoca), mentre il cinema in cui sarebbero dovuti andare i ragazzi, ad esempio, mostra di sfuggita la locandina di Profondo rosso. Mancano invece riferimenti politici veri e propri, dai movimenti extra-parlamentari alle vicende socio-politiche dell’epoca, scelta forse dettata dal voler sottolineare l’ambiente ovattato in cui quei ragazzi erano cresciuti, oltre ad una mirata critica a quella forma di educazione cattolica. E fa una certa sensazione, forse, che manchino del tutto i riferimenti agli estremismi politici dell’epoca, che condizionarono almeno in parte la cronaca, cosa che il film cita solo di sfuggita (uno dei ragazzi viene ripreso dal professore di italiano per aver svolto un tema elogiativo di Hitler, ed un suo compagno accenna un’invettiva contro il “socialismo” per difenderlo). Resta il dubbio sull’efficacia della scelta, ma al netto di questo il film colpisce nel segno, oltre ad essere vittima di un (abbastanza clamoroso) episodio di censura.

    Il ministro Franceschini, qualche tempo fa (inizio aprile 2021) aveva annunciato l’abolizione della censura cinematografica, considerando pertanto “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” (lo stesso meccanismo che aveva colpito il succitato lavoro di Raffaele Picchio, Morituris, oltre a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco). Di fatto ha l’aria di essere, nella pratica, un’abolizione – che semanticamente implicherebbe la scomparsa in toto del meccanismo – solo formale, perchè alla fine dei conti essa finisce per scaricare la responsabilità della classificazione (attraverso divieti ai minori di 6, 14 o 18 anni) sulla produzione, mentre una Commissione unica composta da varie personalità (tra cui psicologi, pedagogisti e ambientalisti) può confermare la scelta o, al limite, suggerire la propria. Un riassemblamento di regole precedenti, insomma, rivedute e corrette, che forse cambiano meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

    Nel caso del film in questione, la Commissione ha ritenuto di vietare La scuola cattolica ai minori di 18 anni, per via della (presunta) equiparazione tra vittime e carnefici proposta dal soggetto. Vale la pena di ricordare che questa motivazione (“Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice […] incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti“) non è troppo diversa dal feeling totalizzante e distruttivo che bocciò Morituris (ben più feroce: “la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversività e sadismo gratuiti“), e fa riflettere che il secondo giudizio, sia pur su un’opera di fiction, abbia addirittura bloccato l’uscita nelle sale dell’opera.

    Nonostante il feeling dei due film sia diverso – il lavoro di Picchio è un horror surreale contenente un climax apocalittico di violenze, che evoca un senso di colpa collettivo, quasi lovecraftiano, sull’intera umanità, quello di Mordini narra fatti reali, mostra una società in crisi, non insiste sulla violenza, la tratta con il giusto equilibrio – qualche riflessione possiamo farla. Nonostante La scuola cattolica non sia un film per bambini, vietare ai minori un film del genere, che tratta di delitti reali avvenuti tra ragazzi giovanissimi, tra cui un minorenne, appare quantomeno paradossale, proprio perchè non sembra esattamente favorire un qualsiasi dibattito in merito, che invece sarebbe stato fondamentale. Il problema di fondo della censura, a questo punto, risiede forse nell’arbitrarietà delle sue scelte, al netto dei cavilli burocratici che la caratterizzano volta per volta, i quali possono sconfinare in giudizi di merito sulla parte artistica. La sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice di cui si parla in quelle motivazioni, a mio parere, è una considerazione arbitraria o discutibile, tutt’altro che assodata: se fosse così, da un certo punto di vista, avremmo assistito ad una shoxploitation cruda, cinica o sessista, cosa che il film si guarda bene dall’essere.  Impedire la visione ai minorenni di un film del genere, come risulta ad oggi, rischia di essere definitivamente fuorviante rispetto alla sostanza dell’opera, spostando inesorabilmente l’attenzione sul dito, per non guardare la luna che stava indicando.

    Di fatto La scuola cattolica è diretto in modo lineare, cupo e con la sensazione costante che qualcosa non quadri, che ci sia qualche scheletro nell’armadio di quelle vite apparentemente irreprensibili, lasciando un monito di profondo vuoto nella coscienza degli spettatori. Gli sguardi fissi di molti personaggi, quasi ad annunciare la loro definitiva degenerazione (e che ricordano quelli dei pazienti psichiatrici, per certi versi), rimarranno impressi nella memoria degli spettatori per molto tempo, evocando un senso di nulla, di mancanza di tutele, di mancanza totale di sensibilità di una società che certe idee di quei gruppi sociali le ha quasi interiorizzate, fuorviata dal benaltrismo imperante. Un vuoto spaventoso che, ancora oggi, non si è colmato, soprattutto sulla falsariga dell’eco della frase finale del film, che cito a memoria: per molto tempo molti genitori si preoccuparono che i propri figli potessero fare lo stesso. Poi, tutto tornò come prima.

  • Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Un giorno apparentemente ordinario ad Austin (Texas), raccontato in mezzo ad una folla di disadattati, emarginati, amanti della letteratura ed artisti.

    In breve. Piccolo cult in costante bilico tra dramma e commedia, ed a cui numerosi cineasti si sarebbero ispirati in seguito. Sicuramente rientra nei 10 film “fuori dalle righe” da non perdere.

    Con una innovativa struttura – quasi certamente per l’epoca in cui uscì – Linklater ci introduce nel mondo degli under-30 durante gli anni 90, la “Generazione X” che tanto ha subito in termini di snobistici pregiudizi. Uno slacker, in inglese, non è altro che una persona che rifiuta deliberatamente di svolgere un lavoro – e condurre una vita – normale, pur essendone perfettamente in grado di farlo; secondo l’Urban Dictionary il termine può anche fare riferimento a qualcuno che, pur essendo intelligente, non se la senta di fare nessun lavoro in particolare, oppure “una persona che tenda a rinviare le cose all’ultimo minuto, e non appena arriva quel momento… decide che non fosse così importante. Così se ne dimentica“. Viene in mente, in soldoni, un ibrido di più personaggi, incostante ma al tempo stesso vigile e – direi – con la lucidità del Jack Torrance di kubrickiana memoria, in particolare quando afferma (poco prima di impazzire) che “è il senso del dovere che ci frega, amico mio“: è questo ibrido, in fondo, ad essere il protagonista di Slacker, e ne vedremo diverse caratterizzazioni attraverso i suoi numerosi personaggi.

    Fannulloni, depressi, apatici e disperati di ogni genere si riuniscono in una “giornata tipo” collegata per semplici flash ed accostamenti spazio-temporali, senza raccontare una vera e propria storia o meglio, forse, raccontandone parecchie. Il loro rifiuto per il senso del dovere indotto dalla società consumistica li porta in una direzione autarchica, che predilige i rapporti umani e le disquisizioni filosofiche alle attività produttive o puramente lucrative. La tragicommedia, del resto, risiede proprio nel non avere idea di come concretizzare quelle idee, che restano così tali e sono destinate a rimanerci. Nel far svolgere il film, che non possiede una trama ma è l’unione di più storie (spesso incomplete, ma poco importa), Slacker non cede al citazionismo fine a se stesso, o peggio all’astrattismo su cui avrebbero virato molte produzioni indipendenti successive: semmai mantiene un focus equidistante, tanto calcolato da sembrare scientifico, sulle varie storie, e rende il clima suburbano di Austin, la città del Texas, il vero protagonista.

    In questo, Slacker potrebbe avere anticipato qualcosa del falso documentario o mockumentary, e ciò lo rende ulteriormente affascinante. Al regista andrebbe ufficialmente riconosciuto l’enorme merito di aver realizzato ciò che viene considerato uno dei più importanti film indipendenti della storia del cinema, ad oggi. Lo stesso Linklater, nel ritagliarsi il ruolo del passeggero del taxi (alle prese con un soliloquio da autentico “filosofo urbano” sugli universi paralleli: “ad ogni scelta che fai o decisione che prendi, la cosa che scegli di non fare si separa e forma una sua realtà, sai, e prosegue all’infinito, da lì in poi“) erge una sorta di manifesto sull’eterna indecisione di quella generazione, nata negli anni 70, che ha studiato meticolosamente l’evoluzione della letteratura, del rock e delle sue sperimentazioni (“Una volta ho pranzato con Tolstoj…un’altra volta ero un roadie di Frank Zappa“), ha fatto nascere un nuovo tipo di cinema ed avrebbe assistito allo sviluppo di una tecnologia che, di lì a breve, sarebbe diventata di massa,  alla portata di chiunque.

    Il racconto di vite decomposta e allucinata di un’intera generazione, verso una rivoluzione che mai sarebbe arrivata, ed un mondo del lavoro – già all’epoca – scheggia impazzita e disumana, per cui si sente inadeguata o fuori misura (“A tutti voi, lavoratori là fuori: ogni singola merce che producete è un pezzo della vostra stessa morte“), tra più sogni e realtà che finiscono grottescamente per perdersi nella propria autocommiserazione (“il sogno che ho appena fatto era come questi, solo che non succedeva niente di strano, cioè… non succedeva proprio nulla“). E se mediamente in un film, nella fase di montaggio, secondo IMDB possono contarsi fino a 1000 tagli, in Slacker ce ne sono solo 163, al fine di dare massima continuità ambientale alle scene, limitando così i passaggi bruschi. Potremmo affermare, pertanto, che Linklater ha realizzato un esperimento unico nel suo genere, che in mano a potenziali imitatori sarebbe facilmente risultato caotico, o peggio poco comprensibile al pubblico.

    Grandissima importanza, nel film, tendono ad assumere i fitti dialoghi, quasi sempre permeati di riferimenti alla cultura underground: lo stile metropolitano-bohémien, ciò che in seguito sarebbe stato chiamato grunge in contrapposizione agli yuppies, l’emarginazione, la solitudine, le macchinazioni in piccolo (il figlio che ha investito la madre) ed in grande (le teorie del complotto su JFK), i sogni, le passioni, le piccole band con cui provare ad ammazzare il tempo, ma anche le teorie sugli UFO e sugli allunaggi – molto prima, per inciso, che questi argomenti divenissero un fenomeno di massa come poi, di fatto, è avvenuto grazie al web. Slacker finisce per essere un manifesto degli anni ’90 realistico, a volte crudo e dall’elevato contenuto poetico, per chi all’epoca cercasse un lavoro, una vita, un’identità, il tutto sfruttando un espediente narrativo tipico della letteratura moderna come il flusso di coscienza (Joyce viene citato in almeno un’occasione) e le associazioni di idee.

    In questo apparente caos di citazioni e vite sconnesse emerge una sorta di manifesto generazionale: quello della Generazione X, sbandata e priva di riferimenti eppure, al tempo stesso, parte integrante del cambiamento radicale indotto da internet e dal web 2.0 che sarebbe arrivato, a livello globale, di lì a breve. Ed è questo, forse, il senso finale – e più plausibile – di Slacker: quello espresso dal personaggio in una delle ultime battute del film: “…i film sono fotografia, 24 volte al secondo. […] Da giovani si piange per una donna. Poi, quando invecchiamo… per le donne in genere. La tragedia della vita è che un uomo non è mai libero: eppure si sforza di essere ciò che non sarà mai. Ciò che è segretamente temuto… succede sempre. La mia vita, i miei amori, cosa sono adesso? Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma. La bellezza essenziale nella vita sta nell’arrenderti completamente ad essa. Svegliati, America”

  • Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Amarillo è sede di uno scontro sociale tra due modi di essere del mondo giovanile: da un lato punk, dall’altro jocks. Lo scontro finirà per esasperarsi fino alla tragedia.

    In breve. Splendido nella forma e devastante nella sostanza: un perfetto equilibrio tra realtà vissuta e romanzata, che rende Bomb City probabilmente uno dei migliori film a tema musicale mai girato.

    Questo film si basa sulla storia realmente accaduta a Brian Theodore Deneke, giovanissimo musicista punk morto nel 1997 ad Amarillo, Texas, per mano del coetaneo Dustin Camp. Non è l’unico film che racconta la sua storia (ci sono anche Criminal: Punks vs. Preps, trasmesso su MTV, e un episodio di City Confidential che ne parla), ma è quasi di sicuro quello che riesce a sintetizzare meglio lo scenario assurdo che si venne a profilare. Camp, infatti, ritenuto colpevole in prima istanza di omicidio volontario (investì il giovane punk con la propria auto durante una rissa), non scontò alcun anno di carcere e venne rilasciato.

    Il film è chiaramente una denuncia feroce contro il sistema giudiziario americano, e ne evidenzia l’ipocrisia e le contraddizioni a cominciare dal processo che viene presentato nei primi fotogrammi, a fatti già avvenuti, per poi ripercorrerne la storia attraverso un lungo flashback. Già l’arringa dell’avvocato difensore mette i brividi: pur difendendo un omicida, punta il dito contro l’immaginario punk ed i suoi slogan, strumentalizzandone i contenuti dei testi e ripetendo come un mantra negativo i suoi messaggi, ritenuti antisociali quanto anti-americani (“destroy everything“).

    Bomb City è il nickname di Amarillo dal duplice significato: da un lato “città esplosiva” per via dell’intolleranza e la contrapposizione middle-class tra giovani punk e ragazzi apparentemente per bene – in gergo jocks, ovvero gli archetipici giocatori di football “fighetti” tra cui Dustin Camp, chiamato Cody Cates nel film, evidenzia una cronica mancanza di carisma – dall’altro il nome deriva dalla presenza di una vecchia, spaventosa e suggestiva centrale nucleare.

    Il film, dotato di una fotografia oscura e suggestiva nel rappresentare un mondo stradaiolo realistico e difficile da vivere, evita il moralismo facile e punta il dito contro la situazione in sè, fatta di eccessi diversi da un lato e dall’altro, portando avanti un messaggio di rabbia ed un senso di ingiustizia che lascia, infine, lo spettatore annichilito. Esiste una lunga tradizione di horror, soprattutto anni 80 e 90, incentrati sulla middle-class USA e le sue mostruosità latenti (Society, ad esempio): ovviamente in senso stretto Bomb City non lo è, ma ne eredita buona parte del feeling rivoluzionario e di denuncia.

    Un film imperdibile, che potrà incuriosire anche chi non sapesse granchè sui fatti e non fosse necessariamente appassionato del genere musicale trattato. Molto fuori dalle righe, poi, la colonna sonora, fatta esclusivamente di musica hardcore punk del sottobosco underground dell’epoca.