CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    All’interno del suggestivo documentario del 2009 intitolato Videocracy, diretto da Erik Gandini, emerge un’affascinante teoria espressa dal regista del Grande Fratello Fabio Calvi. Secondo Calvi, il flusso ininterrotto di immagini che pervade la televisione di Silvio Berlusconi (1936-2023) rappresenterebbe il riflesso stesso della sua personalità: una sorta di finestra sulla sua mente, sui suoi sogni, sulla sua visione del mondo.

    Jean Baudrillard, uno dei più influenti teorici della postmodernità, ci offre una visione straordinariamente critica e provocatoria del mondo contemporaneo. Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la realtà stessa è stata sostituita da simulacri, copie senza un originale autentico. La sua teoria mette in discussione il concetto di verità oggettiva e ci invita a considerare il mondo come una serie di rappresentazioni, di simulazioni che mascherano la realtà stessa. Questo specchio mediatico, dove donne dai tratti sinuosi ed estenuanti, ricchezze sfavillanti e opportunità senza fine prendono vita, si è rapidamente trasformato nell’immaginario collettivo degli italiani. Baudrillard sosteneva del resto che nel nostro mondo ipermediatizzato, i media e le immagini giocano un ruolo centrale nella costruzione della nostra percezione della realtà. Attraverso la proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, siamo immersi in un flusso incessante di immagini, informazioni e segni che ci pervadono. Tuttavia queste immagini non ci offrono una rappresentazione accurata della realtà, ma sono piuttosto una distorsione, una finzione che ci viene presentata come realtà (iperrealtà). Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la simulazione ha preso il sopravvento sulla realtà stessa.

    Per i giovani millennial, che hanno vissuto la loro infanzia immersi in programmi televisivi iconici come Bim Bum Bam e si sono abituati a donne che danzano in costumi succinti mentre cenano durante i game show serali, Berlusconi si è insinuato nella loro coscienza come un’incarnazione dei loro ricordi più cari.  Nel contesto un ipotetico affascinante romanzo cyberpunk, Videocracy ci permette di entrare nel mondo virtuale dei canali televisivi di Berlusconi e nei misteri che nasconde, prima ancora che quest’ultimo avesse una qualsiasi accezione di mondo virtuale dominato da internet. Svelerà le verità nascoste dietro le immagini e i suoni che hanno permeato le nostre vite, e seguiremo il percorso di un giovane ribelle che lotta per riportare la verità e la libertà nella società.

    Ho avuto modo di visionare questo discusso prodotto italo-svedese, del quale ho apprezzato lo stile documentaristico, mentre ho trovato realmente spiazzanti alcune sue parti (da film dell’orrore, in tutti i sensi). Non sono certo dalla parte dell’attuale presidente del consiglio: eppure, senza scadere ina affermazioni che potrebbero apparire qualunquiste, il punto è che guardando questo film si colpisce duramente un modo di pensare per intero (altro…)

  • Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Agli occhi di una bambina (che lo disegna nella prima e nell’ultima scena del film) non sarà altro che uno scheletro un po’ naive, con una semplice corona in testa, dal quale sembra non debba esserci nulla da temere. I vari suicidi sembrano causati dalla lettura della lettera della setta (il vecchio sito di Exxagon riportava il contenuto esatto, che ho ricopiato di seguito), ma questa in fondo è solo una spiegazione razionale (o quasi) di una catena di suicidi-omicidi che mostrano la pochezza della natura umana: fragile, contraddittoria, e come se non bastasse spesso anche violenta.

    In breve: uno dei capolavori di Buttgereit, il re del cinema orrorifico tedesco low-cost.Concettualmente studiatissimo, macabro, estremamente violento e senza tregua. Data la tematica trattata (7 modi per suicidarsi), alcune scene molto forti e lo stile “amatoriale” (molto, molto realistico) puo’ risultare decisamente inadatto ai più sensibili. Gli altri, forti e cinici, si accomodino pure a visionare.

    Il cadavere in putrefazione in vista nel film ha fatto scatenare interpretazioni di ogni genere, anche se quello che rimane è la cruda, realistica e se vogliamo agnostica verità: la morte non è altro che la decomposizione di un cadavere, cosa che spesso funerali pomposi e bare benchiuse ci fanno dimenticare. I vermi che divorano il cadavere sono ancora più disgustosi perchè sono affiancati a gesti banali e comuni nella vita di ogni giorno, come scrivere una lettera, mangiare cioccolatini, vedere un film, fare un bagno, spiare i vicini dalla finestra o sfogarsi con un conoscente.

    Ingannata dalla vita, questa creatura cerca di dare un ultimo segnale, di darealla sua vita un significato postumo con la sua morte. La frustrazionedella sua stessa esistenza e la negligenza di una società spietatamente progressista si manifesta in questo atto universale di vendetta. Il suicida sembra puntare a tutti quelli che l’hanno sempre ignorato. Per una volta LUI fa la storia, è alle luci della ribalta, e finalmentele persone sono interessate alla sua vita. Fugge da una vita “morta” verso una morte “viva”, sapendo che, per lo meno per qualche giorno, avrà quasi l’intera attenzione del pubblico. Questoassurdo desiderio… è probabilmente molto più autentico e genuino di tutta la sua virtuale non-esistenza precedente. Egli, “assassino-di-massa-senza-movente”, è il martire del Post-modernismo (tratto dal video-testamento di sabato)

    Se non avete visto questo film, spero che queste righe possano stimolarvi a farlo: vi avviso comunque che non è  assolutamente un’opera per tutti, ed ha la capacità di lasciare profondamente scossi, se non si guarda con cinismo. Si tratta di un film molto bello, che riesce a dare profondità ad una marea di argomenti (e a tratti quasi a commuovere), a patto di NON avere come pubblico persone troppo sensibili o impressionabili, gente che vuole essere allegra a tutti  i costi, aspiranti suicidi reali ed i famigerati tizi che credono nella “iella”.

    Lunedì: un impiegato, prima di licenziarsi definitivamente dal lavoro, scrive una lettera. Tornato a casa, primi piani su una palla di vetro con  un pesce rosso all’interno.: l’uomo (che viene impietosamente paragonato ad un animale acquatico intrappolato in una vasca, ovvero casa sua) mangia una scatoletta, fa un bel bagno  caldo e si ingozza di medicinali fino a morire annegato.

    Martedì: un ragazzo noleggia il film nazisploitation “Vera – Todesangel der Gestapo” presso la videoteca “Videodrom” (dove peraltro c’è “Nekromantik” in bella vista!). Jorgi Butti & Francesco Tortellini sono i beffardi  (!) pseudonimi dei registi del  (falso)film, che rappresenta varie atrocità naziste tra cui l’evirazione di un prigioniero (che, casomai interessasse qualcuno, avviene con una cesoia non troppo affilata e viene mostrata in primo piano!). Nel frattempo rientra la fidanzata del nostro cinefilo, il quale non trova di meglio da fare che sopprimerla con un colpo di pistola in testa, ed incorniciare la macchia di sangue sul muro. Per qualche motivo la scena è stata vista in un televisore (il regista gioca un po’ col meta-cinema, e gli riesce anche bene) di un appartamento in disordine, con un gatto nero che divora delle briciole sul letto mentre un uomo (non inquadrato) si è appena impiccato.

    Mercoledì: una donna cammina tristemente sotto la pioggia, tormentata da ricordi  non precisati che lascia cadere da una lettera in una pozza d’acqua . Uno sconosciuto seduto su una panchina le racconta dei problemi  sessuali con la moglie, in un lungo sfogo  di frustrazione mai sopita. Il problema sembra peraltro toccare più lui che la consorte, in quanto colpito nel suo orgoglio maschile che degenera previdibilmente in sopraffazione violenta (“non potevo più sopportare la sua gentilezza“). Il marito personifica, in un monologo delirante, le aspirazioni subdole di un certo maschio-medio che, portando la moglie al museo ed “in un ristorante costosissimo“, insomma rispettando lo stereotipo del “bravo marito gentile“, pretende di avere una macchina da sesso al proprio servizio. Le sue aspettative l’hanno condotto all’omicidio della consorte (per sua stessa ammissione mediante decapitazione): a questo punto la mora vista all’inizio spara al violento, il colpo non è in canna, quest’ultimo prende la pistola, carica il colpo e si suicida (non inquadrato). Da notare l’effetto rallentamento utilizzato dal regista nel momento più intenso del racconto, al fine di distorcere la voce del protagonista, manipolare le immagini in modo “cinematografico di vecchio stampo” ed eliminare, soprattutto, il riferimento-audio all’arma utilizzata.

    Giovedì: viene mostrato un ponte mentre passano in sovraimpressione nomi di persone, età e professioni a formare un’anagrafica di suicidi. Quello che colpisce è la gamma di professioni mostrate (apprendista, attore, casalinga, pensionato, …) e delle età (da 17 a 71 anni), quasi a voler dimostrare che nessuno di noi è immortale. Il sonoro è un macabro naturale proveniente dal posto, nel quale si sentono correre le macchine sull’asfalto e nient’altro rende più sostenibile la visione. Semplice, geniale e raggelante. Ancora di più se si considera l’ironia – abbastanza macabra – celata dietro l’episodio: i nomi sono delle storpiature demenziali come Bettina “Pfister” (“scoreggia”). Suicida per un orribile cognome mai voluto: non è ancora peggio?

    Venerdì: si passa a mostrare l’appartamento di una signora di età avanzata, la quale spia con interesse una giovane coppia che abita di fronte. Ancora una volta la solitudine è causa di depressione e di morte: in preda ad una sorta di frustrazione, la signora prova a telefonare nell’appartamento, e non ricevendo risposta inizia a leggere la lettera di una setta che ha appena ricevuto. Successivamente beve da una bottiglietta, mangia qualche cioccolatino e si addormenta, sognando di vedere i propri genitori fare sesso. Al risveglio l’occhio dell’inquadratura ritorna sulla finestra della coppia, che viene poi inquadrata a letto, dove entrambi i ragazzi sono morti dopo essere stati probabilmente seviziati. Non è chiaro il collegamento, ma sembra che l’omicidio l’abbia commessa l’anziana signora.

    Sabato: dopo una dichiarazione delirante lasciata su una bobina – come una sorta di video-testamento – una ragazza indossa una specie di imbragatura con una cinepresa sulla spalla, in modo da poter riprendere in soggettiva l’omicidio che sta per commettere. Recatasi in un cinema dove si sta svolgendo un concerto rock (il gruppo si chiama “Overture Socialdeath”), spara l’uomo all’ingresso, il cantante del gruppo e ripetutamente il pubblico. La scena viene inquadrata prima in soggettiva, poi dal fondo del cinema: primo piano sulla ragazza, e fine dell’episodio.

    Domenica: torniamo in un appartamento nel quale un ragazzo si è appena svegliato.  Dopo aver fissato il vuoto, inizia a piangere senza dare spiegazioni ed a contorcersi nel proprio letto con le mani sulla testa.  Avvolto nella disperazione più cupa, la sua soluzione sarà di iniziare sbattere la testa al muro con violenza. Dopo un’ulteriore angosciante attesa di colpi ripetuti, gli ultimi urti lo portano alla morte.

    Quasi a volerci rassicurare (come se fosse possibile!), nella scena finale viene mostrata la bambina della scena iniziale che proclama con innocenza: “questo è il re della morte, che fa desiderare alle persone la morte”, mentre mostra il disegno che ha appena fatto. Successivamente foto del re della morte in bianco & nero, con teschio in mano e bambino seduto ai suoi piedi: fine del film. I titoli di coda – spoiler alert, ma in questo caso credo non abbia troppo senso avvisare, tanto risulta sovvertita la narrazione – mostrano foto di bambini (probabilmente i vari protagonisti degli episodi da giovani), quasi a lasciare un monito. Un messaggio: non perdere mai l’innocenza del tutto, al fine di non affogare nella melma ipocrita delle relazioni umane degli adulti che il pubblico ha avuto modo di vedere nel film: depressi, chiusi in se stessi, potenziali-stupratori, invidiosi, omicidi, pervertiti e quant’altro. Quantomeno, questa è l’interpretazione che mi sento di dare dopo averlo visto tre (!) volte: spero che non sia troppo diversa dalla realtà.

    La mia traduzione del pezzo succitato è riportata di seguito, assieme al brano originale, per cui ho cercato di rispettare lo stile di scrittura abbastanza asciutto (quanto inquietante).

    PERDIAMO LA VITA CON GIOIA (Lautréamont). Questa è una catena di Sant’Antonio (chain-letter nell’originale, ndt). E questo è un messaggio. E questa è la parola finale, per finire una lunga lotta. Quando riceverai questa lettera, SAREMO MORTI. E vogliamo che tu, dopo aver inviato più copie possibili ai “non ancora morti”, TI SBARAZZI DELLA TUA VITA senza esitazione. Secondo la nostra percezione: MUOIO, QUINDI SONO!! La vita è illusione e diventa ridicola e priva di significato una volta che la affrontiamo. L’unica sicurezza che è in grado di offrire è LA MORTE. Miriamo tutti A LUI, siamo promessi A LUI e prima ci sono solo agonia ed assurdità. L’uomo viene al mondo da solo, e resta solo. La sua vita è una lotta senza fine su di lui, una lotta contro questo antico desiderio, l’impulso più dolce, che ci tiene TUTTI nelle sue mani: THANATOS, il desiderio di morire. Tutto ciò che vi chiediamo è di seguire questo desiderio. È quasi ora … La vita è un anacronismo. In sei giorni, dio ha creato il cielo e la terra. Il settimo giorno si è suicidato … LASCIATECI MORIRE Il vangelo secondo “La fratellanza del settimo giorno”. (Originale: WE LOSE OUR LIFE WITH JOY (Lautréamont). This is a chain-letter. And it is a message. And it is the final word, to end a very long struggle. When you get this letter, WE ARE DEAD. And we want you, after you have sent as much copies as possible to the “not-yet-dead”, TO TAKE YOUR OWN LIFE without hesitation. According to our realization: I DIE, THEREFORE I AM!!. Life is an illusion and become ridiculous meaningless once we face it. The one security life has to offer is DEATH. We aim towards HIM, we are promised to HIM and before there’s just agony and absurdity. Man comes alone and remains alone. His life is an endless fight put upon him, a struggle against this ancient desire, the sweetest urge, that holds ALL of us in its hands: THANATOS, the longing for death. All we demand of you is to follow this longing. It’s about time… Life is an anachronism. In six days, god created heaven and earth. On the seventh day he killed himself… LET US DIE The gospel according to “The Brotherhood of the Seventh Day”.)

  • Nightmare – Dal profondo della notte è l’atto di nascita del mostro di Elm Street

    Nightmare – Dal profondo della notte è l’atto di nascita del mostro di Elm Street

    Un gruppo di adolescenti americani scopre di avere un sogno ricorrente in comune: un uomo che li perseguita e che sembra in grado di trasformare ogni incubi in realtà.

    In breve. Uno degli horror storicamente più importanti per atmosfera, storia, interpretazioni e “morale”. Standing ovation per la regia.

    Commentare un film del genere a (più di) quaranta anni dalla sua uscita (1984) è un’impresa che richiede, come primo passo, la piena comprensione filologica del contesto in cui nasce: diversamente si rischia di ritenere che Fred Krueger sia nato come un villain da fumetto. La regia di Craven veniva dall’esperienza precedente (1982) di aver diretto la versione cinematografica di Swamp Thing (fumetto della DC Comics) il quale, guarda caso che (forse) non è un caso, parlava di un personaggio assassinato che torna in vita da una palude. La filmografia del regista che diventerà di culto per questo film è fino ad allora molto tormentata: ci sono due grandi successi exploitation: Le colline hanno gli occhi e L’ultima casa a sinistra, autentici saggi di pessimismo sociologico, almeno un film per adulti e qualche altro titolo poco noto o mal distribuito. Partire dalla cronaca che ispirò la scrittura del soggetto è forse il modo migliore per introdurci in una saga che la cultura pop ha declinato – forse erroneamente – più come un’icona fumettistica che come un simbolo di un orrore profondo, inesprimibile, atavico. In effetti Nightmare – come Venerdì 13 – è più noto come saga che come film originale, e questo naturalmente deriva dall’averlo reso un brand: ma sarebbe un delitto non sottolineare i meriti di questo cult del genere, invecchiato benissimo e ancora oggi spaventoso e sorprendente.

    Una citatissima cronaca di fine anni Settanta raccontava di un gruppo di rifugiati cambogiani della tribu Hmong: sfuggiti alle persecuzioni di Pol Pot, si erano nascosti negli Stati Uniti. Molti di loro soffrivano di frequenti incubi, al punto di rifiutarsi di addormentarsi, pur di non farne. Fu ritenuto opportuno curare la loro insonnia con dei medicinali, e l’unico risultato che si ottenne fu farli dormire brevemente, farli risvegliare urlando e – a quanto sappiamo – morire sul colpo poco dopo. Ad essere vittime di questo singolare caso che Wes Craven sicuramente conosceva (e che stimolò la sua fantasia) fu il caso di un ragazzino scomparso senza una causa clinica evidente. Moltissime creepypasta e leggende urbane, del resto, hanno a che fare sia con un uomo misterioso che aggredisce le proprie vittime, approfittando (spesso e volentieri) della loro curiosità, sia con dipartite più o meno bizzarre, accidentali o casuali.

    «One, two, Freddy’s coming for you,
    three, four, better lock your door,
    five, six, grab your crucifix,
    seven, eight, gonna stay up late,
    nine, ten, never sleep again!»

    Quando si addormentò, i suoi genitori si erano forse illusi che il problema fosse risolto. Poi sentirono delle urla nel cuore della notte e lo trovarono morto. Morto nel mezzo di un incubo” – raccontava Craven in un’intervista. La storia del piccolo rifugiato dal genocidio, terrorizzato dal dormire per paura di essere attaccato nei sogni e di non svegliarsi mai più, fu la molla che fece inventare Fred Krueger, vittima a sua volta di abusi da piccolo e diventato un mostro vendicativo che si muove dentro gli incubi.

    Nell’atmosfera familiare in cui si ambienta il film la storia di Freddy sembra stonare malamente: solo i ragazzi si accorgono della sua presenza, facendo tutti lo stesso sogno con il medesimo “uomo nero” a tormentarli. Quelli che sembrano comuni incubi che lasciano scossi per qualche minuto per poi dileguarsi diventano casi di omicidio: alcuni ragazzi muoiono nel sono nei modi più cruenti, e uno di loro viene anche accusato dell’omicidio della fidanzata. Sarà Nancy, la giovane figlia dello sceriffo, a sfidare apertamente il mostro, mentre i genitori mostrano di nascondere qualcosa (sono stati loro a uccidere Freddy, si scoprirà). Il tema della giustizia sommaria è ampiamente trattato in questo Nightmare come già avvenuto, del resto, in altri celebri film del regista, e in un caso avevamo assistito a dei genitori che si imbattono casualmente negli assassini dei figli. In questo caso la logica è invertita, perchè sono i genitori ad aver ceduto alla vendetta: Fred era stato condannato per aver molestato e ucciso dei bambini, ma è uscito dal carcere per un errore burocratico. A quel punto i genitori della città hanno stabilito di ucciderlo dando fuoco alla fabbrica in cui si trovava, per poi seppellire il gesto nel proprio inconscio e dimenticarlo.

    È frequentissimo, infatti, che la madre di Nancy inviti la figlia sempre più irrequieta a riposare, a nascondersi nell’oblio del sonno a dimenticare tutto, come se questo potesse cancellare quanto avvenuto ed evitare che possa rivoltarsi contro. Nightmare non è, a questo punto, solo una di saga del villain crudele che colpisce in modo seriale e senza limiti: è la materializzazione del senso di colpa di una generazione di genitori che non solo si sono fatti giustizia da soli, ma rifiutano di dare spiegazioni ai figli anche quando ci vanno di mezzo le loro vite.

    Basandosi su quella storia in bilico tra cronaca e urban legend, Wes Craven costruisce una saga horror tra le più famose e citate al mondo – oggetto in questo primo capitolo di un remake di qualche anno, di tutt’altro sapore e fattura –  e consegnando al pubblico una storia dai tratti epici o addirittura mitologici: un assassino che opera tra sogno e realtà, in grado di fuoriuscire dagli incubi delle sue vittime e diventare carne e ossa. Un qualcosa che solo la cultura classica di Craven (che nel film cita anche Shakespeare, ad un certo punto) poteva concepire, aspetto che rende l’idea dell’originalità del film già di per sè.

    In questo primo Nightmare i personaggi si muovono tra incubo e realtà, e questo confine viene apertamente valicato dal mostro che, ad un certo punto, sembra essere entrato nel nostro mondo. Cosa di cui lo spettatore non è mai sicuro, in effetti: come tradizione amava girare in quegli anni, non si fa capire allo spettatore dove cominci l’incubo e dove finisca la realtà, conferendo così molto hype alla storia e rendendola affascinante. Tale caratteristica rende spaventoso un film che, senza questo accorgimento, poteva essere uno dei tanti slasher ottantiani (prodotti spesso senza infamia e senza lode). Nightmare è un rarissimo slasher sovrannaturale come pochi ne sono stati girati: un’ombra impalbabile, un uomo nero che sbuca da ogni angolo e terrorizza per vendetta i figli di chi l’ha ucciso. È uno dei leitmotiv più celebri dell’arte, quello delle colpe dei padri che ricadono sui figli, e non sorprende che sia arrivato anche in film non propriamente horror come Il sacrificio del cervo sacro. Quel senso di colpa, forse, non si è mai estinto sul serio.

    Con la partecipazione di John Saxon (Donald Thompson), dell’icona del cinema horror Heather Langenkamp (la giovane Nancy) e la comparsa di Johnny Deep appena ventenne (Glen), Freddy (ovviamente Robert Englund) tormenta i sogni dei figli di coloro che lo hanno ucciso, attivando una singolare vendetta varcando le porte del sonno, senza perdere mai quel suo tocco di humor nero che lo rendono “più villain” di qualsiasi altro. Da un lato, infatti, le gag di Freddy servono ad accentuare la sua componente malvagia e aumentare il distacco dallo spettatore, dall’altro è piuttosto chiaro che questo personaggio simboleggi, più di qualsiasi altro, il senso di colpa collettivo che grava sull’umanità, colpevole di ergersi al di sopra degli altri, giudicandoli e spesso addirittura eliminandoli sulla base di un giudizio inappellabile. Ovviamente nessuno riuscirà mai a simpatizzare per un villain del genere – eccezion fatta, naturalmente, per i cinefili di vecchia scuola – o potrà mai essere colto dal dubbio che Freddy paghi per una colpa che non ha mai commesso. Non è questo il punto e probabilmente non vale la pena discuterne: eppure l’essenza di Freddy come personaggio rimane stregonesca, tant’è che viene mandato al rogo e poi torna in vita (in forma di demone) per farla pagare all’umanità.

    Questo primo episodio è un film incalzante, spaventoso e con numerose scene cult: l’artiglio che esce fuori dalla vasca da bagno durante il bagno di Nancy, ad esempio, oppure il povero Glen che viene “risucchiato” nel proprio letto. Tutte scene non semplicemente “di cassetta”, ma cariche di valenza simbolica, con riferimenti alla scoperta della sessualità, al passaggio traumatico all’età adulta e al classico evergreen degli adulti che non ascoltano i ragazzi (ogni segnalazione della presenza di Freddy viene regolarmente bollata come una stupidaggine, o viene comunque minimizzata dai genitori). In questo senso Nightmare esprime la propria grandiosità come una critica sferzante a certa genitorialità, ai figli fatti per onorare le aspettative sociali, ai figli da esporre come trofei senza mai badare alla loro vita, ai loro problemi, ai loro incubi. E viene il forte sospetto che Freddy esprima esattamente questo tipo di orrore, a livello quantomeno inconscio, anche in considerazione del fatto che si tratta di un film moderno, veloce, atmosferico e senza fronzoli, per il quale il tempo non sembra essere trascorso.

    Il fatto che sia stato ripreso nel 2010 nel remake di Samuel Bayer – il regista di Transformers, ad esempio – suggerisce ovviamente che, nell’industria cinematografica moderna, le idee scarseggino da un po’: per certi versi rifare “Nightmare – Dal profondo della notte” oggi è come chiedere a una persona di ringiovanire di quaranta anni, aspettandosi che lo faccia all’istante ed indignandosi se non riuscisse. Il film di Bayer non è male, a ben vedere, ma non riesce a ricalcare l’ombra autentica di questo originale, che è pur sempre un horror ispirato ad un fatto di cronaca e che ha fatto scalpore all’epoca, come farebbe oggi qualsiasi film si ispirasse a un fatto di sangue avvenuto in Italia, immaginando che l’assassino sia prima linciato dalla folla e torni a vendicarsi dei giornalisti che scrivevano titoli clickbait. Un’idea articolata del genere, probabilmente, poteva funzionare solo nei vecchi anni Ottanta, dove l’horror viveva una delle sue ennesime crisi creative e per rilanciarlo ogni regista era spesso costretto a ricorrere al surreale.

    In fondo lo spessore di Nightmare conferito da Wes Craven in questo primo episodio, che aveva fatto scomodare più di un critico a riguardo, era annesso allo scherno sarcastico delle sue vittime, con il quale esacerbava la propria immoralità. Sebbene i temi principali del film siano la perdita dell’innocenza e la mancanza di comunicazione tra generazioni, Freddy diviene  simbolo di un Male che, come spesso in Craven, finisce per ritorcersi contro giovani sprovveduti, mentre gli adulti stanno semplicemente a guardare.

    Nel nostro paese esistono due versioni del film: una più corta di circa con il taglio delle scene più violente, e la “Director’s Cut” integrale che comprende varie scene censurate, inserite nella versione digitale, dove si nota che alcune parti non sono state nemmeno doppiate in italiano (sono in lingua originale). Per quanto riguarda la questione del finale, esiste una notissima “happy end” razionale che suggerisce si sia trattato di un semplice incubo, e due versioni “pessimistiche” in cui Freddy sbuca fuori in due modi imprevedibili (tutto questo materiale è disponibile nel DVD come “alternate endings“).

    Per chi volesse tuffarsi nella croni-storia del personaggio, trovate su questo sito le recensioni di tutti i film “ufficiali” della saga (ad esclusione dei vari spin-off): Nightmare – Dal profondo della notte, Nightmare – La rivincita, Nightmare – I guerrieri del sogno, Nightmare – Il non risveglio, Nightmare 5 – Il Mito, Nightmare La fine.

  • Zardoz è la fantascienza proto-accelerazionista ambientata nel 2293

    Zardoz è la fantascienza proto-accelerazionista ambientata nel 2293

    2293. Zardoz, una divinità che comunica con gli uomini mediante un idolo di pietra, sta soggiogando la razza umana dei Bruti. Deciso a scoprire la verità su questo dio, Zed (il guerriero protagonista) si introduce all’interno della testa.

    Nel suo celebre libro “Cult movies 2” Dannis Peary scrive, splendidamente, su questo film: “un promemoria affascinante di ciò che è stata la fantascienza prima di Star Wars”, salvo considerare quel “risibile miscuglio di allusioni letterarie, pornografia cervellotica, fantascienza classica, intellettualismi riusciti e un sincero desiderio di realizzare qualcosa di portentoso manca il bersaglio di un centinaio di miglia, ma possiede elementi – e sua badness è uno di questi – che lo rendono bizzarramente avvincente“.

    Basterebbero questo a raccontare Zardoz, una delle tante produzioni weird dei gloriosi anni 70, proprio partendo dalla considerazione che di fantascienza si parlava quando, a ben vedere, George Lucas avrebbe tirato fuori il primo episodio della sua saga solo tre anni dopo. Il film è considerato di culto ed è stato oggetto di un curioso equivoco sul web: un utente su Reddit, infatti, ha sostenuto (sbagliando di “soli” 270 anni) che sia ambientato nel 2023. Questo ha comunque avuto un effetto virale, perchè in molti hanno pubblicato una foto di scena con Sean Connery preannunciando che tutti, quest’anno, vestiremo così. Preferiamo metterlo in chiaro da subito: il thread è stato cancellato dai moderatori del subreddit, e per dovere di cronaca lo abbiamo screenshottato di seguito a memoria dei posteri, per preservare da futuri eventuali equivoci.

    Tornando al film, sono molte le cose che si possono raccontare: quella di Zardoz è una fantascienza surrealista, ricca di momenti onirici (non sempre comprensibilissimi e, a dirla tutta, avvolti da un pizzico di auto-indulgenza di troppo), che pero’ non riguarda alieni e astronavi bensì, ballardianamente, l’umanità ordinaria in un futuro prossimo. Un mondo in cui, anzichè droghe e carestie, l’umanità è vittima di mondi chiusi e non comunicanti, in cui gli uomini sono divisi in tribù primitive, e sono mutate le caratteristiche biologiche (una su tutte: non si muore più).

    In questa ennesima distopia di un prossimo futuro, pertanto, la Terra viene contesa tra più gruppi di esseri umani: su tutti i Bruti, che vivono nella terra desolata omaggiando il primivitismo e la violenza, e gli Eterni, pseudo-borghesi che vivono di rendita (e vorrebbero sottomettere i primi). Anche gli dei, del resto, sono stati inventati dall’uomo, ed è questo il motivo per cui la creazione di Zardoz viene presentato come un subdolo diversivo per incentivare l’estinzione dei Bruti. Sarà il personaggio di Zed (Sean Connery, in un singolare e iconico costume rosso, con un ruolo ben diverso da quello a cui siamo stati abituati vedergli interpretare), emblema della razionalità, a scoprire la verità sul mondo.

    Se di fantascienza si tratta, è fantascienza di concetto, coltissima e raffinata (basti pensare alla scena onirica in cui Zed si aggira nella biblioteca, prima leggendo e poi distruggendo tomi su tomi), che spesso cede il passo al sesso softcore (il che è sempre misurato e sembra quasi ineluttabile, considerando che il Connery d’epoca si trova in un mondo popolato da donne immortali che hanno scelto, bontà loro, di non praticare più il sesso).

    Qui dentro non vedo altro che la mia perplessità: il sapere non basta.

    Ambientazione

    Zardoz è ambientato in un singolare mondo (forse più di uno) post-apocalittico (non sappiamo cosa sia successo prima) che Boorman specifica chiaramente essere di natura matriarcale (asessuata o sessuofobica), che rappresenta un vortex (vortice), un mondo dominato da esseri immortali dai poteri telepatici. Zed (il protagonista interpretato da Sean Connery) ha violato deliberatamente le regole e si è introdotto in questo mondo, venendo catturato ed accolto con diffidenza. Per questo verrà tenuto prigioniero e introdotto lentamente in quella società: un universo fantasy che sfoggia statue della cultura classica, tavole imbandite, porte che si aprono in automatico, anelli in grado di proiettare ologrammi e schermi giganti.

    Il vortex è comunque un mondo chiuso, in cui è molto difficile entrare e sembra quasi impossibile uscire, dato che è confinato da una cupola trasparente, che nessun uomo, da solo, può spostare o disattivare in alcun modo.

    Zardoz peraltro (il che fa forse sorridere, visto oggi) si vede nella prima sequenza, e molto didascalicamente (per preciso volere della produzione dell’epoca) Boorman fu costretto ad aggiungere a titolo di “spiegone” per il grande pubblico.

    Lo stesso dio dichiarerà esplicitamente, poco dopo, la natura matriarcale di quel mondo: il fucile è il bene, lo sperma è il male (nell’originale “The gun is good! The penis is evil!“).

    Ti piace dormire?

    Sì.

    Perchè?

    Faccio dei bei sogni.

    Zardoz è un film bizzarro – e lo è ad ogni livello, il che non sarebbe male se non fosse per alcune evitabili lungaggini, una narrazione diluita all’infinito, oltre che fin troppo figlia dell’epoca (c’è la parte onirica tipo Il serpente di fuoco – e anche un po’ alla Lynch ante-litteram – mentre tanti personaggi si comportano irrazionalmente come hippies sotto LSD, e più volte si ha la sensazione che gli stessi vivano in una comune o setta). Del resto non si tratta dell’ennesimo post apocalittico metropolitano e ostinatamente violento, bensì (in modo più lavorato) un qualcosa che immagina più mondi a se stanti, comunicanti tra loro, che l’eroe Zed (un po’ come il samurai Izo, in grado di viaggiare nel tempo e nello spazio) ha osato violare.

    Sono peraltro riconoscibili almeno cinque diversi gruppi di umani: i Bruti (a cui appartiene Zed), gli Eterni, i Rinnegati, gli Apatici e gli Sterminatori. Una vera e propria mitologia inventata da zero, con tutto il fascino e tutti i rischi del caso (in mancanza di riferimenti precisi, in effetti, il film galleggia in una bizzarra dimensione psichedelica che a volte, specie nella seconda parte, tende a disorientare il pubblico).

    Nulla di strano se si pensa che John Boorman, all’epoca, era reduce dalla delusione di non aver potuto finire Il signore degli anelli di Tolkien, un film a cui dovette rinunciare via degli eccessivi costi a cui si era opposta la United Artists. Zardoz, sulla falsariga dell’idea di girare un fantasy di quel tipo, venne scritto a quattro mano assieme a William Stair, collaboratore storico del regista. Nel farlo, la coppia si ispira ad una curiosa filosofia proto-accelerazionista: concepisce una trama sui problemi di un’umanità che si precipita nel futuro, e che lo fa a velocità talmente elevata che le emozioni sono rimaste indietro. Ed è proprio questa la chiave di lettura del mondo passivamente egualitarista, asessuato, impassibile e matriarcale che discrimina Zed, considerandolo poco più di una bestia da soma.

    Del resto, viene detto nel film, il mostro è uno specchio, e quando lo guardiamo vediamo i nostri volti segreti, a testimoniare la potenziale interpretazione psicologica della trama, sulla base delle teorie di Freud e Lacan, per quanto imbellettata da trovate forzatamente new age. Del resto il conformismo di quel mondo, che arriva a bandire l’unico dissidente ad un tavolo mediante telepatia, fa anche pensare alle trovate di Scanners di David Cronenberg. Il pensiero uccide, ed è la caratteristica forse più inquietante del mondo in cui deve muoversi Zed. Che scoprirà, curiosamente, nella Morte il senso dell’esistenza, unico modo per demolire la crisi di valori del vortex, popolato da immortali che non danno (estremo paradosso) alcuna importanza alla vita che vivono.

    Il finale misticheggiante, in effetti, a ben vedere è ben più materialista, e sembra evocare grottescamente quello del massacro della Guyana. Non è un finale allegro, ma sembra l’unico possibile – e va valutato in chiave concettuale anch’esso, probabilmente. Quel materialismo non è che il concretizzarsi di una pulsione di morte, frutto della rimozione delle brutture in nome dell’apatia o del doverci essere. O forse è semplicemente il ciclo di accettazione della nascita, vita e morte, che il resto del film (magia del cinema) ci aveva quasi fatto dimenticare per qualche ora.

  • Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Un gruppo di militari italiani durante la seconda guerra mondiale finisce in un’isola greca, e decide di rimanerci per diversi anni, perdendo ogni contatto con il mondo esterno. Nel frattempo la guerra finisce e il gruppo viene a saperlo solo a cose fatte: non tutti, a quel punto, decideranno di tornare, e chi tornerà non rimarrà pienamente soddisfatto.

    Parlare oggi di un film del genere, uscito nel 1991 e ambientato in piena seconda guerra mondiale – un periodo storico con cui l’Italia non è riuscita a pacificarsi nemmeno oggi, dato che rappresenta una delle memorie storiche più divisive di sempre – è un’operazione tutt’altro che banale. Ne possiamo cedere alla malsana tentazione di considerare Mediterraneo un film romantico o una commedia come tante, a dispetto di alcune locandine che all’epoca forse suggerivano questo, quantomeno a livello iconografico. Certo, l’aspetto relazionale è al centro della trama, e la regia è abile a delinare fin da subito una serie di rapporti e relazioni tra commilitoni puramente umane, in tensione al punto giusto e mai macchiettistiche. Ma il punto del film è la fuga di qualcuno da qualcosa, ed è il tema che attraversa l’intera pellicola.

    Per quanto possa sembrare secondario, in effetti, ciò che fonda Mediterraneo è il saggio Elogio della fuga scritto dal medico e filosofo Henri Laborit, sulle parole del quale si apre il film: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare“. È questo il tema portante del film, e la narrazione vuole sembrare puramente metaforica in tal senso, senza peraltro sforare nel didascalico. Il riferimento è a tutti gli aspetti essenziali della vita umana, che vanno dalla ricerca dell’amore al lavoro che siamo costretti a svolgere per sopravvivere, per i quali la fuga – intesa come necessità di cambiamento – è spesso l’unica via d’uscita possibile.

    I soldati protagonisti non sembrano credere pienamente in ciò che fanno, e progressivamente smantellano le proprie certezze alla ricerca della propria identità di fondo: cosa che alcuni non troveranno mai, o continueranno a cercare, mentre il mondo continuerà a girare a modo proprio e nostro malgrado. Sembra anche interessante notare come si tratti dell’ennesimo film ambientato in un isola deserta, un po’ come travolti da un insolito destino in grande, con la comunanza narrativa di protagonisti che prima sembrano essere nel panico all’idea di restare su un’isola che sembra ostile e scollegata dalla civiltà, salvo poi prenderci gusto e cambiare opinione. In un certo senso Mediterraneo è anche un saggio sul cambiamento d’opinione, sulla modifica di una prospettiva solida o cristallizzata, ed è un film che sa affrontare la tematica del cambiamento politico-sociale con una lucidità che pochi altri possono vantare. Molte sequenze sono peraltro potentissime evocativamente: basti citare quella in cui i militari incontrano lo spacciatore di oppio, lasciandosi andare a considerazioni beffarde contro il regime fascista, facendosi rubare le armi poco dopo, per poi arrivare a concludere che il mondo sarebbe migliore se si trovasse dell’oppio al posto degli arsenali da un giorno all’altro. Siamo nel pieno degli anni Novanta, del resto appena un anno dopo l’uscita di Mediterraneo avremmo scoperto Tangentopoli – neanche il tempo di riprendere fiato dal tragico periodo terroristico. Quello di Salvatores non è un film spezzettabile o “memetico” (visionarlo a spezzoni, come proposte da alcune pagine social di cinema, rischia di essere particolarmente inefficace): va visto dall’inizio alla fine, rinviando ogni considerazione all’ultima, tragica eppure bellissima conclusione del film. E se vi state chiedendo come si inseriscono l’amore in tutto questo e subito detto: l’amore è l’emblema del desiderio, per soddisfare il desiderio bisogna bisogna seguire le linee di fuga, o forse quelli che Deleuze e Guattari chiamavano flussi. Ci attiviamo in base a ciò che viviamo, siamo creature interiormente “situazioniste” e siamo in grado di ricostruire l’esistenza anche da un piccolo villaggio abbandonato, emblema di un paradiso terrestre (oggi devastato dal turismo, sembra suggerire quel meraviglioso finale). Sono insomma i flussi del cambiamento e delle nostre esistenze ad essere in gioco: fanno parte anch’essi della politica (e dello sconforto che ingenera periodicamente), e ci costringono a deviare dai percorsi safe proprio perchè, come suggeriva Laborit, la fuga è anche sinonimo di coraggio.

    A questo punto l’analisi del film potrebbe proseguire dal finale, che ci sentiamo liberi di spoilerare dopo tutti questi anni (chiunque non abbia mai visto Mediterraneo dovrebbe farlo prima di continuare a leggere, in teoria): partiamo dalle parole pronunciate dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono (il sergente Lo Russo) il quale, ormai vecchio e disilluso, scopriamo aver abbandonato l’Italia in cui desiderava ardentemente rientrare, il tutto perchè “non me l’hanno fatta cambiare“. Quasi come il soldato sopravvissuto di Nato il quattro luglio, Lo Russo diventa l’emblema di ciò che in Italia non cambia, del favoritismo cristallizzato e del conservatorismo sopravvissuto a due guerre. Perchè nulla non può cambiare, sembra suggerire una sconsolata narrazione, e perchè già nel dopoguerra si era deciso di annettere l’Italia ad una esclusiva e auto-referenziale comfort zone. Ed è riavvolgendo a ritroso il film che ci rendiamo conto in maniera limpida del senso della storia, delle scelte che sono state fatte dai soldati italiani finiti per caso su un’isola (quella di Megisti, nella realtà): dopo aver perso i contatti con il centro di comando, e superato il panico iniziale, si adeguano allo stile di vita posto. Non solo: scoprono usi e tradizioni del posto, fanno nuove amicizie, fanno nascere amori e relazioni che li segneranno.

    Ma i loro sforzi sembrano vanificati dal mondo in cui viviamo, da un lato simboleggiata della morte improvvisa inaspettata dell’ex prostituta che si era sposata con uno di loro (come a dire: nulla dura quanto vorremmo), dall’altro con un’Italia che secondo il regista non cambia non cambierà mai, e che Lo Russo – inizialmente ombroso e ligio al dovere, poi progressivamente più “libertario” – rappresenta come metafora vivente a pieno titolo. Si tratta anche una delle interpretazioni di Diego Abatantuono più lontane dagli stereotipi dei personaggi a cui siamo abituati, e che conferisce un’ulteriore nota di merito ad un lavoro che, per inciso, è stato tratto dal romanzo Sagapò di Renzo Biasion.

    Salvatores è un regista attivo e prolifico anche oggi, peraltro. E tutte le volte che diciamo che il cinema italiano è morto, a questo punto, ci facciamo forse trascinare da un’enfasi astratta, continuiamo a predicare nel deserto che il vero cinema è finito e che ormai vanno di moda solo le commedie. Probabilmente solo quest’ultimo aspetto è vero, ma è anche possibile che si tratti di un riflesso di noi stessi, di ciò che noi vogliamo vedere. Vediamo commedie perchè vogliamo farlo! Del resto, le alternative non mancano.

    Nessuno ci impone di vedere commedie romantiche ad ogni costi, eppure sembra che ogni volta nelle discussioni non si parli d’altro, o peggio ancora, non si voglia parlare d’altro. Questo probabilmente era vero anche nel 1991, anno in cui Salvatores finisce di girare Mediterraneo e lo distribuisce nei cinema (verrà trasmesso in TV alla fine dell’anno successivo), per cui facciamo i conti con questo effetto collaterale ma guardiamo la sostanza, che ci suggerisce che Mediterraneo non è “il” capolavoro ma è sicuramente un gran film. E ciò che rende Mediterraneo una piccola gemm è proprio questo suo porsi in maniera antagonista, come critica sostanziale al mondo in cui viviamo, quasi in senso primitivista, sottendendo che la politica non è un’astrazione, fa parte della vita di ognuno di noi, o se preferite: chi non fa politica, alla fine, semplicemente la subisce.

    L’analisi del film sarebbe incompleta se non citassimo la critica sullo stereotipo sugli “italiani, brava gente” che il film sembra (forse inconsciamente) promulgare: i soldati sono infatti insolitamente buoni, non hanno parvenza da militari indottrinati al fascismmo e, anzi, in molte fasi il film strizza l’occhio allo spettatore puntando sull’empatizzazione – rischiando, secondo alcuni, di sminuire la tragica realtà della Seconda Guerra Mondiale. Da qui a parlare di revisionismo probabilmente ce ne passa, anche solo per la scena dell’oppio di cui dicevamo. L’accusa di revisionismo, in sostanza, è quantomeno rivedibile, anche perchè i presupposti del film suggeriscono che i soldati siano stati abbandonati dall’inizio e che credano molto poco in ciò che fanno (Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero. Era una missione OC, di osservazione e collegamento. Eravamo stati incaricati di prendere l’isola e segnalare eventuali avvistamenti. Mi avevano dato un gruppo di uomini presi qua e là. Superstiti di battaglie perse, vagabondi di reggimenti sciolti, un plotone di coscritti, come me, che erano sopravvissuti fino a quel momento per puro caso.“). Senza dimenticare che il tenente si augura di non dover sparare in arrivo nell’isola, ciò dovrebbe ricordare che Mediterraneo non è un film propriamente di guerra, ma ricorda più una via di mezzo tra i toni di Train de vie e (viene in mente) Underground di Emir Kusturica (anche in quel caso si tratta di un gruppo di persone che si isolano durante una guerra, e non vengono a sapere per tempo della sua conclusione). Senza contare la figura quasi mitologica di Corrado, disertore dichiarato (Claudio Bisio), che si allontanerà in barca seguendo, anche qui, il flusso del desiderio che lo caratterizza dall’inizio, e del quale non conosceremo nè l’esito del viaggio nè se sia ancora vivo in seguito. Sembra insomma che, come si diceva all’inizio, il film sia più filosofico che materialistico, e che offra un solido patto regista-spettatore da rispettare.

    Non bisogna dimenticare che la direttiva principale ed il nucleo tematico del film è incentrato sulla fuga, sull’allontanamento volontario dalla comfort zone, utilizzando il linguaggio autentico e privo di fronzoli del cinema nostrano, quello più vicino al cinema verità, quello che rappresenta eroi ben lontani dall’ideale e, in modo forse paradossale, umanamente anti-eroici. Le storie dei soldati sono vicine a quelle che ognuno di noi, nella vita, potrebbe essersi trovato a vivere. Ed è questo che rende totalmente di culto questo film di Salvatores, e mai abbastanza visto e lodato.