FUORI NORMA_ (31 articoli)

Storie d’eccezione, extra-norma, al di sopra (o al di sotto) della media.

  • Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Amarillo è sede di uno scontro sociale tra due modi di essere del mondo giovanile: da un lato punk, dall’altro jocks. Lo scontro finirà per esasperarsi fino alla tragedia.

    In breve. Splendido nella forma e devastante nella sostanza: un perfetto equilibrio tra realtà vissuta e romanzata, che rende Bomb City probabilmente uno dei migliori film a tema musicale mai girato.

    Questo film si basa sulla storia realmente accaduta a Brian Theodore Deneke, giovanissimo musicista punk morto nel 1997 ad Amarillo, Texas, per mano del coetaneo Dustin Camp. Non è l’unico film che racconta la sua storia (ci sono anche Criminal: Punks vs. Preps, trasmesso su MTV, e un episodio di City Confidential che ne parla), ma è quasi di sicuro quello che riesce a sintetizzare meglio lo scenario assurdo che si venne a profilare. Camp, infatti, ritenuto colpevole in prima istanza di omicidio volontario (investì il giovane punk con la propria auto durante una rissa), non scontò alcun anno di carcere e venne rilasciato.

    Il film è chiaramente una denuncia feroce contro il sistema giudiziario americano, e ne evidenzia l’ipocrisia e le contraddizioni a cominciare dal processo che viene presentato nei primi fotogrammi, a fatti già avvenuti, per poi ripercorrerne la storia attraverso un lungo flashback. Già l’arringa dell’avvocato difensore mette i brividi: pur difendendo un omicida, punta il dito contro l’immaginario punk ed i suoi slogan, strumentalizzandone i contenuti dei testi e ripetendo come un mantra negativo i suoi messaggi, ritenuti antisociali quanto anti-americani (“destroy everything“).

    Bomb City è il nickname di Amarillo dal duplice significato: da un lato “città esplosiva” per via dell’intolleranza e la contrapposizione middle-class tra giovani punk e ragazzi apparentemente per bene – in gergo jocks, ovvero gli archetipici giocatori di football “fighetti” tra cui Dustin Camp, chiamato Cody Cates nel film, evidenzia una cronica mancanza di carisma – dall’altro il nome deriva dalla presenza di una vecchia, spaventosa e suggestiva centrale nucleare.

    Il film, dotato di una fotografia oscura e suggestiva nel rappresentare un mondo stradaiolo realistico e difficile da vivere, evita il moralismo facile e punta il dito contro la situazione in sè, fatta di eccessi diversi da un lato e dall’altro, portando avanti un messaggio di rabbia ed un senso di ingiustizia che lascia, infine, lo spettatore annichilito. Esiste una lunga tradizione di horror, soprattutto anni 80 e 90, incentrati sulla middle-class USA e le sue mostruosità latenti (Society, ad esempio): ovviamente in senso stretto Bomb City non lo è, ma ne eredita buona parte del feeling rivoluzionario e di denuncia.

    Un film imperdibile, che potrà incuriosire anche chi non sapesse granchè sui fatti e non fosse necessariamente appassionato del genere musicale trattato. Molto fuori dalle righe, poi, la colonna sonora, fatta esclusivamente di musica hardcore punk del sottobosco underground dell’epoca.

  • Delicatessen: il mondo grottesco del futuro visto da Jeunet

    Delicatessen: il mondo grottesco del futuro visto da Jeunet

    In un imprecisato futuro post-apocalittico, il cibo viene utilizzato direttamente come denaro (mais e legumi, ad esempio), ed un inquietante macellaio vende direttamente carne umana: il Delicatessen del titolo (gastronomia) fa riferimento al suo negozio. Il palazzo è popolato da strani coinquilini dal comportamento grottesco, a cui si aggiunge un ex clown (Luison), il cui collega è stato rapito e divorato da ignoti. È evidente che il condominio non sia esente dalla macabra pratica, e naturalmente il macellaio si trova ad esserne direttamente coinvolto.

    L’idea del film venne a Jean-Pierre Jeunet mentre si trovava in vacanza negli USA, con il cibo servito nell’hotel a suo dire scadente – e che ricordava, affermava ironicamente, della carne umana. Secondo altre fonti, Jenuet viveva sopra una macelleria e, ogni mattina alle 7, sentiva il rumore dei coltelli del titolare (il che viene anche riprodotto all’inizio del film). Alla sua fidanzata venne in mente che, prima o poi, sarebbe arrivato il loro “turno” di finire macellati.

    Firmato dalla elaborata e studiatissima regia di Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, Delicatessen è un film grottesco dai tratti surrealisti, un’accoppiata che solitamente funziona e che, anche in questo caso, non fa eccezione. L’aspetto surrealista non è incidentale, ma molto ben studiato: basti pensare al modo in cui sono orchestrati i rumori del palazzo, a cominciare dal cigolio delle molle del materasso (il cui suono va in sincrono con la musica della violoncellista, quello di Luison che dipinge il soffitto e così via), da un semplice campanello (che suona contemporaneamente alla macchina da cucire di una delle inquiline) e così via. Espedienti tipici, ad esempio, del cinema di Svankmajer.

    C’è ampio spazio per l’amore platonico tra Luison e la figlia del macellaio, osteggiato dal cinismo di quest’ultimo e dalla sua marcata avidità. Anche a livello architetturale, del resto, l’edificio + ben congegnato: a parte poter comunicare con i sotterranei (con i Trogloditi, ribelli & naturalmente vegetariani), c’è un tubo che attraversa i vari appartamenti, in barba a qualsiasi privacy, mediante il quale il macellaio può sentire tutto quello che avviene all’interno. Molte situazioni del film, poi, anche le più potenzialmente cruente, sono animate da uno spirito da film comico modello slapstick e, come se non bastasse, di humour nero decisamente raffinato.

    Anche le tecnologie sono dichiaratamente surreali, e si ispirano all’immaginario steampunk caro ad esempio Terry Gilliam, e basterebbe citare a riguardo l’australiano (una sorta di pugnale-boomerang) e naturalmente il rilevatore di stronzate: un dispositivo con un piccolo perno, che ruota e suona non appena ne sente una (quella usata per testarlo, naturalmente, non poteva che essere quant’è bella la vita). Lo stesso Gilliam, con la sua tipica umanizzazione dei protagonisti e disumanizzazione degli ambienti, non avrebbe sfigurato alla regia, tant’è che negli USA il film uscì come “presentato da Terry Gilliam“.

    Luison, personaggio archetipico del sognatore incompreso (molto alla Gilliam anche lui, in fin dei conti), coivolge e crea empatia con il pubblico, mostrando un ingegno fuori dal comune per uscire dalle situazioni più disperate. Ma è soprattutto l’intelligente humor nero ad essere l’arma segreta legata al successo del film, che ironizza parecchio sull’attrazione e sugli amori più improbabili, perchè in fondo – citando letteralmente una sequenza – un australiano conficcato in testa è sempre meglio che le corna.

  • The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    Film dai toni post-apocalittici diviso in tre parti, raccontato da altrettante prospettive diverse, ed incentrato su un misterioso segnale audio, diffuso mediante radio, TV e cellulari, in grado di trasformere le persone in killer.

    In breve. Discreto horror dalla narrazione non lineare, capace di tenere alta la tensione fino alla fine. Da vedere.

    The signal, horror del 2007 (da non confondersi con l’omonimo, di genere fantascientifico uscito nel 2014) è stato ideato da tre registi che vantano una collaborazione dal 1999 e girato con un budget di soli 50.000 dollari, in 13 giorni. Parliamo del trio David Bruckner, Dan Bush e Jacob Gentry, che sono anche autori della sceneggiatura, ed hanno girato seguendo i dettami dell’ horror indie americano: nessun risparmio sul livello di efferatezze e colpi di scena, ed un trama abbastanza semplice infarcita, nonostante tutto, di passaggi notevoli o allucinatori (personaggi che scambiano altri personaggi) e flashback (personaggi che ricordano, o credono di ricordare, il passato).

    Se tutto questo potrebbe appartenere alla tradizione lynchiana del genere, The signal non si perde in simbolismi, e strizza più pesantemente l’occhio all’horror crudo anni ’70, fin dalle prime immagini: una sequenza da exploitation modello Non aprite quella porta / L’ultima casa a sinistra, che pero’ rimane come una specie di trailer autoreferenziale (alla Tarantino / Rodriguez per intenderci) per introdurci nel film, a malapena collegato alla trama principale (in realtà è uno spezzone di The Hap Hapgood Story di Gentry). Ed è proprio al regista di Pulp Fiction, con le dovute proporzioni, che sembra richiamarsi la dinamica della storia, suddivisa formalmente in tre parti – ricca di flashback e colpi di scena, in cui nessuno è quello che sembra ed i personaggi vivono, loro malgrado, in una sorta di incubo ad occhi aperti.

    Il film è suddiviso in tre parti – che avrebbero dovuto essere di più, almeno stando a quanto pubblicato su Vimeo da uno dei tre registi (assolutamente consigliato, tra l’altro, il video linkato per avere un’idea del film, senza “dire troppo” o spoiler vari), e si basa su un’idea semplice ed efficace: un triangolo amoroso tra la protagonista, il marito di lei ed il rispettivo amante, ed il progetto di rivedersi nella stazione di Terminus, binario 13. Peccato che, nel frattempo, uno strano segnale radio/TV inizierà a plagiare le menti di chi ascolta, giustificandone le efferatezze ed arrivando a rendere chiunque un feroce omicida, e trasformando la città in un deserto in cui la maggioranza cerca di uccidere il prossimo. Non è troppo chiaro, peraltro, quale sia il livello massimo di esposizione al signal senza impazzire, visto che molti personaggi si muovono brillantemente senza farsene condizionare – ma questo è volere essere pignoli, e questo non è il genere di horror declinato sulla precisione. Se i presupposti di The signal non sono nuovi (Essi vivono, forse addirittura Videodrome) la narrazione non lineare e l’uso di riprese multiprospettiva cercano di rendere adeguato, riuscendoci, quel tocco di originalità tale da rendere il film interessante, oltre che scorrevole.

    Del resto non si tratta di un post-apocalittico vero o proprio, ma di una storia che è quasi un mashup di tre feeling diversi. Le tre trasmissioni o episodi di cui si compone la trama, infatti, sono incentrati su tre sotto-storie dallo stile ben distinto: Crazy In Love di Bruckner è quello più visceralmente horror e sinistro, The Jealousy Monster di Gentry e strizza l’occhio alla dark comedy ed allo humour nero (il che aiuta a spezzare e non appesantire la trama), mentre Escape from Terminus di Dan Bush conclude con la parte (relativamente) romantica della storia, ovviamente declinata in modo post-apocalittico. L’intero film si rifà chiaramente alla tradizione horror più allucinatoria ed esplicita, con spudorati richiami a certo torture porn (sopratutto il secondo episodio) ed ai classici di ogni tempo del genere (da Shining a Resident Evil, passando per 28 giorni dopo): questo, di suo, tenderebbe a renderlo un prodotto di nicchia, anche se uno spettatore medio potrebbe comunque lasciarsi trascinare positivamente dal film che, in fondo, è una love story declinata in modo grottesco e noir.

    Questo, a mio avviso, mette in secondo piano, come tradizione vuole in questi casi, l’intero scenario in cui si ambienta il film, lasciando il focus attivo su sogno di due amanti, neanche a dirlo, di vivere assieme – nonostante il marito di lei, violento ed imprevedibile e letteralmente ossessionato dal tradimento. Il tutto con il rischio di disinnescare la trama (i personaggi sembrano “dimenticare” l’apocalisse in corso, in più momenti), intreccio di suo rinforzato da un ambiguo (e forse non troppo comprensibile) doppio finale, in cui non è chiaro cosa sia sogno e cosa, invece, sia (la dura) realtà.

    Nel frattempo il signal – di cui non conosciamo l’origine, ed in fondo poco importa – continua a mietere vittime, e a causare atti di violenza sempre più feroci, scatenati dopo l’esposizione al segnale e giocando su una paranoia molto diffusa anche nelle varie urban legend che circolano da sempre sul web (le onde radio o wireless utilizzate per controllare le persone, o capaci di provocare malattie). In questo senso il film è abile a leggere e rielaborare la realtà, attualizzarla e focalizzarsi sulle paure e le psicosi moderne.

    Anche questo, del resto, dovrebbe saper fare un buon horror.

  • Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Da non confondersi con il successivo Terrore dallo spazio profondo, Terrore nello spazio di Mario Bava è un film classico del puro fanta-horror.

    Ambientato interamente durante una missione spaziale, racconta di un equipaggio di venti persone dentro due navicelle, i cui astronauti si imbattono in una civiltà aliena ostile. Questo almeno è ciò che intuiscono dalle prime battute: la nave viene attratta da un pianeta sconosciuto ricoperto di nebbia, la gravità diventa quattro volte più del normale e fa perdere i sensi all’equipaggio, come se non bastasse – non appena atterrati – gli astronauti iniziano ad azzuffarsi tra loro senza una ragione apparente. Solo l’intervento di autorità del comandante riesce a evitare il peggio, mentre l’altro equipaggio è meno fortunato. Si prosegue la storia di un gruppo di sopravvisuti costretti a lottare contro alieni ostili (per quanto poi il finale suggerisca che non si trattava di terrestri, grazie a un piccolo colpo di genio della sceneggiatura), mentre l’eterna lotta tra Bene e Male è in realtà una lotta intestina, a causa della tendenza maggioritaria ad autodistruggersi da parte dell’uomo.

    Non è difficile accorgersi fin dalla prima visione che l’orrore di cui si parla in questa gemma della fantascienza italiana è puramente psicologica, interiore, accennata, ossessiva – tant’è che a un certo punto una delle persone dell’equipaggio afferma che l’alieno parassita è come se ingaggiasse una “lotta interiore” dentro se stesso. Questo naturalmente serve anche a compensare la scarsità di effetti speciali per un film che riesce, con pochi mezzi e tante idee, a risultare comunque visionario: il pubblico viene sorpreso alle numerose trovate che vengono tirate fuori, inclusa la presenza di corpi posseduti da alieni parassiti che si comportano di fatto come zombie (La notte dei morti viventi, vale la pena ricordarlo, uscirà solo tre anni dopo questo film). Come ulteriore nota di merito si può rilevare che i protagonisti seguono una sorta di religione materialista, ispirata ai principi di natura scientista e che parla degli atomi delle particelle come se fossero espressione di volontà divina (scena del funerale degli astronauti), con preghiere che sembrano tratte da uno scritto di Deleuze e Guattari. Questo dettaglio non è un vezzo, ma possiede una funzione specifica all’interno della storia – come sarà possibile osservare visionando il film per intero. In tal senso ci sentiamo di dire che terrore nello spazio sia sicuramente uno dei film di sci-fi più avanguardistici mai girati, sia per lo svolgimento della storia che per le conseguenze tutt’altro che ovvio della conclusione della stessa. La sceneggiatura sempre guardare a un futuro prossimo in cui bisognerà liberarsi dell’ottica e egocentrica che caratterizza gli esseri umani, in favore di una sorta di internazionalismo spaziale che sembra peraltro possedere vaghi spunti accelerazionisti (civiltà aliene che cercano posti in cui poter sopravvivere, più rapidamente possibile e per evitare di estinguersi).

    Visto negli anni successivi, gran parte della critica ha suggerito che questo film possa aver grandemente ispirato Ridley Scott, e questo sia per Alien (1979) che per Prometheus (2012). Non ci sentiamo di dar loro torto: per quanto i film di Scott brillino l’uso di effetti speciali e per la componente smaccatamente horror, è assodato che questa caratteristica sia archetipica di già di questo film, ricordando che siamo nel 1965, tre anni prima che uscisse un film avvenieristico come 2001 Odissea nello spazio. Gli elementi narrativi sono del resto analoghi: si tratta sempre di missioni di astronauti alla ricerca di vita su pianeti sconosciuti, nei quali troveranno resti di antiche civiltà – e soprattutto alieni parassiti. Quest’idea del parassitismo come villain della storia è naturalmente comune a un altro cult del periodo come l’invasione degli ultracorpi, con la differenza che il clima claustrofobico viene costruito all’interno di una angusta astronave e, soprattutto, come poi farà John Carpenter ne La cosa, il pubblico non sa quale degli astronauti sia infetto dal parassita quale invece no.

    Gran parte del film viene girato all’interno di un teatro di posa in condizioni proibitive – Bava ebbe a dire, in una celebre intervistaVorrei che la gente, la critica, si rendesse conto delle condizioni nelle quali sono costretto a girare i miei film.
    Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma realmente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido, perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e messe in mezzo al mio set, poi per coprire il pavimento ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due rocce da un posto all’altro ho girato il film. Le sembra possibile?” – costringendo il regista a ricorrere a stratagemmi di vario genere.

    La fantascienza pre-ballardiana come questa sa essere un genere decisamente complesso dal punto di vista scenografico, chiaramente, ma il fatto che si noti poco la mancanza di mezzi depone per far credere che si tratti, a ragione, di uno dei migliori film di fantascienza italiani mai girati. Tanto più che si tratta dell’unico esperimento di Mario bava nel genere, da lui molto amato eppure prodotto soltanto in questo unicum. Una tradizione che in Italia non ha mai mai preso troppo piede, in effetti, e sicuramente le prime avvisaglie si vedevano già allora: motivo per cui questo film rimane un piccolo gioiello del genere, ricco di trovate creative e sottile ironia (il finale del film è l’apoteosi in tal senso: per non rischiare di perdersi nello spazio, l’equipaggio alieno decide di atterrare proprio sul pianeta Terra).

    Distribuito negli USA con il titolo Planet of the vampires, incassa 251 mila dollari dell’epoca (per un film di fantascienza del 1965 sembra ancora più notevole), mentre la sceneggiatura è tratta da un racconti di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore, disponibile integralmente su altrimondi.org). Il film viene coprodotto da AIP e Italian International Film, con il finanziamento della spagnola Castilla Cooperativa Cinematográfica.

    La locandina dell’edizione americana, per inciso, promette senza mantenere: si vedono gli astronauti combattere con le creature di cui, nel film, vediamo solo gli scheletri (probabili esseri di altri pianeti non scampati al peggio).

    Immagine tratta da https://hotcorn.com/it/film/news/alien-40-terrore-nello-spazio-mario-bava-film-cult-ridley-scott/
  • I nuovi mostri: il film collettivo a episodi che raccontava l’Italia anni 70

    I nuovi mostri: il film collettivo a episodi che raccontava l’Italia anni 70

    Nel 1977 esce I nuovi mostri, sulla falsariga de I mostri e nuovamente incentrato su film costruiti a micro-episodi. Se il primo lavoro di questo tipo era stato diretto da Risi, questo è una regia collettiva, in cui curiosamente (ma non era insolito, per l’epoca) manca l’attribuzione degli episodi ai singoli registi coinvolti: Risi, Monicelli e Scola. Il film è stato anche recentemente proposto su Rai Movie qualche giorno fa, in una versione “intermedia” a livello di tagli, e come vedremo più avanti si tratta di uno dei film più arbitrariamente tagliuzzati dalla censura mai prodotti in Italia, e non è neanche chiaro se esista una versione realmente uncut.

    I nuovi mostri è anche l’espressione di un umorismo che stava cambiando nel cinema (e non solo lì): quello che all’epoca del suo omologo di metà anni sessanta era, al massimo, humor nero accennato ed implicito, qui si decide di renderlo esplicito. Nel 1974, ad esempio, gli USA avevano prodotto Fritz il gatto, anche lì un umorismo inedito e anti-moralista, destinato a fare scuola e a rendersi a suo modo memorabile. Certe forme di enfasi, peraltro, sono da sempre state considerate eccessive e fuori posto sia dalla critica media che dal pubblico, e questo sicuramente non ha sancito un successo che, probabilmente, il film avrebbe meritato. È quantomeno paradossale, nonostante tutto, che la critica dell’epoca denigrasse lo scarso valore sociologico degli episodi (che sono effettivamente più che altro riflessioni nichiliste sulla natura umana), che in confronto de I mostri di dieci anni prima è sicuramente difficile da paragonare.

    Il format in questione, per la verità, questa volta sembra reggere solo in parte: al netto di regie sempre solide ed efficaci, alcuni episodi sembrano “annacquati” ed appaiono quasi sconclusionati. Tant’è che la critica dell’epoca non si espresse in modo benevolo sul film, indicando al massimo un paio di episodi realmente memorabili (tra cui il pluri-citato Hostaria!), mentre il pubblico sembrò vedere il film con la stessa rapidità con cui lo dimenticò.

    Se una mancanza di ispirazione può per certi versi essere tollerabile (i film episodici con più registi ne soffrono quasi inevitabilmente, anche in altri contesti), quello che andrebbe valorizzato in questo film del 1977 è il sentimento anarchico che lega gli episodi, quasi da autentici Monty Python all’italiana, ed in cui è evidente che in molti degli episodi si sia alzata l’asticella dell’azzardo, dell’osare e di conseguenza del potenziale scandalo.Il film è questo, alla fine, ed esprime le proprie potenzialità in modo penalizzato anche per via dei tagli superficiali che, negli anni, impedirono di apprezzarlo come unicum.

    Gli episodi migliori de I nuovi mostri

    Come dimenticare L’elogio funebre con un incredibile Alberto Sordi? Il funerale apparentemente commosso e solenne del capocomico di una compagnia cede il passo al ricordo del repertorio dello stesso, che poi fa degenerare il funerale in un delirio di doppi sensi, battute di bassa lega e balletti, ed infrange uno dei tabù più classici: quello di ridere irrazionalmente durante le esequie di qualcuno, in omaggio ad uno dei cardini della Satira con la “S” maiuscola (che deride alternativamente politica, sesso, religione e morte).

    Senza parole è uno degli episodi forse più belli del film: una hostess a Fiumicino viene sedotta da un giovane mediorientale, mentre sentiamo due brani tipici di quegli anni per creare l’atmosfera (All by myself di Eric Carmen e Ti amo di Umberto Tozzi). L’amore sembra esclusivamente platonico e pare travolgere la donna, che riceve un mangiadischi con una delle due canzoni come dono: imbarcandosi poco dopo, provoca l’esplosione dell’aereo in volo dato che conteneva un ordigno. L’episodio è ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, conclusosi fortunatamente senza vittime: con la stessa dinamica descritta nell’intreccio, fu un volo in partenza da Fiumicino ad essere bersaglio dell’attentato, che tuttavia fece in tempo a rientrare in aeroporto, a causa di un’esplosione nel bagagliaio qualche minuto dopo il decollo.

    Impossibile non citare, infine, Hostaria!, dove Gassman e Tognazzi interpretano il cuoco ed il proprietario di un’osteria tipica romana. I due sono estremamente litigiosi (e si capirà in seguito che sono una coppia) e, mentre discutono, continuano a preparare dei piatti che diventano disgustosi, in cui fanno cadere mozziconi di sigarette e scarpe: servono comunque quelle portate, e la clientela chic mostra comunque di apprezzarli.

    Gli episodi censurati de I nuovi mostri

    Il punto importante da inquadrare, a questo punto, è che la censura ha colpito duramente I nuovi mostri, e molti episodi, ancora oggi, si conoscono esclusivamente per le sinossi presenti su Wikipedia: quasi nessuno, di fatto, sembra averli visti. I nuovi mostri ad oggi, purtroppo, per la maggioranza degli italiani è una rubrica di Striscia la notizia, e ben pochi conoscono il film da cui quel nome è stato tratto quel nome.

    La censura è quasi sempre inaccettabile, in effetti, nella misura in cui decide arbitrariamente, sulla base di criteri del tutto soggettivi, cosa si possa vedere e cosa invece non si debba vedere – e ciò ha risvolti più pesanti di quello che sembra: in molti casi la censura ha colpito, in passato, cose ed aspetti sui quali oggi si sorvola tranquillamente. Del resto si tratta solo di film, ed il cinema non dovrebbe mai avere un ruolo troppo didascalico o “essere da esempio”, proprio perchè – citando il personaggio di Volontè in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto – se ci convinciamo che il popolo è minorenne, diamo spazio a possibili espressioni di potere autoritarie e, soprattutto, quello che “ci va bene” censurare oggi, potrebbe rivoltarsi contro i nostri stessi gusti o preferenze un domani.

    Il vero punto critico del film è l’episodio Pornodiva: una storia amara e decisamente crudele, in cui una coppia viene ingaggiata per girare un porno contenente sesso con animali, e si scoprirà che arriveranno a coinvolgere la figlia di sette anni, con una piccola scimmia, per guadagnare il massimo dall’ingaggio. Non una storia per bambini, ovviamente, quanto molto realistica, che venne brutalmente rimossa nel passaggio televisivo, e a quanto pare anche in alcune versioni in DVD del film.

    Oppure pensiamo ad Autostop, dove Ornella Muti interpreta una avvenente autostoppista che viene molestata più volte dall’automobilista che le ha dato un passaggio, arrivando a fingere di essere evasa da un carcere femminile e di essere armata per difendersi. Senza troppi complimenti, a quel punto, l’uomo la uccide, facendo emergere un dramma di sessismo e prepotenza. Peraltro, resosi conto che la donna era disarmata, non mostra alcun rimorso davanti ai carabinieri (nella versione cut manca questo finale).

    Anche Cittadino esemplare è stato censurato ed è tremendamente incisivo, probabilmente inibito alla visione per via del suo pessimismo antropologico: vediamo un uomo assistere ad un delitto e rientrare a casa come se nulla fosse, gustandosi un bel piatto di amatriciana. Il sospetto è forse uno degli episodi meno efficaci del film, ma manca anch’esso da varie uscite in TV: si parla di un carabiniere infiltrato in un gruppo di contestatori dell’epoca, che durante un arresto di massa, propina una goliardica pernacchia contro il proprio superiore, venendo rimproverato bonariamente – e lasciando immaginare al pubblico cosa gli sarebbe successo se fosse stato un autentico contestatore.

    La cosa anomala del film, peraltro, è che molti episodi anche “innocenti” sono stati rimossi, forse perchè considerati inefficaci: molti italiani non hanno pertanto potuto godere dell’episodio Mammina e mammone, ad esempio, in cui Tognazzi è uno strepitoso caratterista che vive di espedienti. Stesso discorso per Sequestro di persona cara, in cui si evidenzia l’ipocrisia di un uomo a cui è stata rapita la moglie, che fa un appello accorato ai rapitori per riaverla indietro, quando in realtà aveva staccato i fili del telefono.