FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Nosferatu 1979: il principe della notte secondo Herzog

    Nosferatu 1979: il principe della notte secondo Herzog

    Recensione di Nosferatu – Il principe della notte

    Regia: Werner Herzog
    Cast: Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Walter Ladengast

    Al sole non attribuisco più nessuna importanza, né alle scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto. Io adoro solo l’oscurità e le ombre, dove posso essere solo coi miei pensieri. Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti, i secoli vengono e vanno. Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose.

    Nosferatu di Werner Herzog si apre su una inquietante sequenza di mummie all’interno di una cripta (si scoprirà o meno dove?): uomini, donne, bambini. Il gusto del dettaglio mostra le loro espressioni di orrore, gli stivali che indossano, la degradazione del corpo dovuta al tempo. Poco dopo un pipistrello fa la sua comparsa nel cielo più scuro di sempre, e un urlo di Lucy fa sobbalzare lo spettatore: ha avuto un incubo, ne parla al marito Jonathan, e sembra che non sia la prima volta che le capita.

    Nel frattempo Jonathan dovrà partire per lavoro e recarsi al castello del conte Dracula, sui monti Carpazi. Il presentimento di Lucy è la principale chiave di lettura sottesa al film: se in questa sede Herzog sembra insistere sull’aspetto mistico della sensazione, nella riedizione di Eggers il male viene ricondotto ad un problema di salute mentale da parte della donna. Messe a confronto, le due edizioni del film – che hanno 45 anni di differenza – sono simili ma sostanzialmente diverse: Eggers realizza una sorta di studio d’atmosfera sulla trama, mentre Herzog favorisce il ritmo, la sequenza degli avvenimenti, l’incedere della maledizione del vampiro sull’uomo. Non solo: Herzog rappresenta i personaggi secondari (gli zingari, il taberniere, …) come miti e collaborativi nei confronti di Jonathan, il quale si reca ostinatamente al castello di Dracula spinto dalla prospettiva di guadagnare denaro. Eggers, dal canto suo, sembra focalizzare un personaggio solitario, solo contro tutti, immerso in un mondo estraneo e ostile, che non vuole neanche che stia lì – peggio che peggio che vada dal conte Orlok.

    Werner Herzog reinventa il mito di Dracula in Nosferatu – Il principe della notte, che diventa un omaggio e al contempo una reinterpretazione dell’iconico capolavoro di F.W. Murnau del 1922. Con la fine dei vincoli del copyright del romanzo di Bram Stoker, il regista decide di ripristinare i nomi originali dei personaggi, infondendo al film un’aura di autenticità e gotico puro. La dimensione onirica non è peraltro solo figurata: Jonathan scrive alla moglie di aver fatto un brutto sogno, e di cercare di dimenticarlo. I personaggi sono condotti alla rovina, in qualche modo, anche da questa incapacità congenita di introspezione, di scoprire ciò che Freud avrebbe chiamato interpretazione dei sogni (1899), immersa indefinitamente tra contenuto manifesto e contenuto latente. L’horror di Nosferatu è ancora una volta raffinato quanto inquietante, prettamente letterario, raramente esplicito, quasi sempre fatto di accenni, riferimenti, simboli, riconoscimenti dall’immenso potere di suggestione. Basta anche solo analizzare una singola, emblematica scena per capacitarsene: quando il conte penetra furtivamente nella stanza da letto di Jonathan è una sublimazione assoluta dell’orrore. Sulle prime, infatti, la vittima resta immobile, come se fosse incerta di sognare o essere sveglia. Il minimo movimento del conte Dracula lo fa sobbalzare, capiamo che si tratta di realtà e poco dopo vediamo il conte avventarsi su Jonathan. A questo punto, il montaggio non ci fa vedere cosa succede, ma riusciamo ad immaginarlo. Vediamo la reazione a distanza della moglie, in preda a febbre e allucinazione, e subito dopo il conte che ha appena morso Jonathan sul collo.

    La parola Nosferatu – per la cronaca – presenta un’origine etimologica incerta: la sua diffusione si deve principalmente al romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) e al film espressionista tedesco Nosferatu (1922) di Morneau. Stoker attribuì l’origine del termine alla scrittrice Emily Gerard, che lo avrebbe menzionato nel saggio Transylvanian Superstitions (1885) e nel suo libro di viaggio The Land Beyond the Forest. Lo studioso Gerard aveva descritto Nosferatu come una parola rumena sinonimo proprio di “vampiro“.  Tuttavia, il termine era già apparso in un articolo del 1865 di Wilhelm Schmidt, che lo identificava come un termine folkloristico risalente alla regione della Transilvania. Altre ipotesi collegano l’etimologia del termine al greco nosophoros (“portatore di malattia”), un’idea che potrebbe aver ispirato la rappresentazione del vampiro come diffusore di pestilenze già a partire dal film del 1922. Altre teorie suggeriscono una connessione con il latino spirare (“respirare”) o con termini rumeni come necurat (“impuro”), nesuferit (“insopportabile”) o nefârtat (“nemico”). Come se non bastasse, si ipotizza che Nosferatu possa essere una variante dialettale o una trascrizione imprecisa di un termine rumeno dell’epoca, in un contesto in cui la standardizzazione della lingua era ancora in corso nel XIX secolo. L’ambiguità e la ricchezza delle interpretazioni riflettono la complessità culturale e linguistica del termine. Al netto delle varie possibilità, nessuna di esse sembra confermata da fonti linguistiche certe.

    Klaus Kinski regala un’interpretazione memorabile nei panni di un Dracula inquietante, dall’aria innocua, quasi malinconica. Siamo al cospetto di una delle migliori interpretazioni di sempre del ruolo del vampiro, per un film che è diventato iconico e che è calato nel contesto del folk horror ante-litteram: l’orrore è letterario, tradizionale, affidato alla storia o all’antropologia, è quasi parte di un rituale che sembra ripetersi da sempre.  L’atmosfera del film è avvolgente, spesso onirica, molte sequenze non hanno consequenzialità – soprattutto quando Jonathan rimane intrappolato nel castello, trovandosi in un luogo e risvegliandosi in un’altro senza rendersi conto. Il castello di Dracula descritto è qui una dimensione a metà tra sogno e realtà, che sembra voler comunicare a distanza con Hellen, qui interpretata dall’icona del cinema e della musica Isabelle Adjani. Tutto o quasi è nebbia, nel Nosferatu di Herzog: perchè non è mai solo un aspetto materiale o puramente estetico, ma rappresenta la confusione dei personaggi nella lotta disperata contro un vampiro portatore di peste. Un vampiro dai modi apparentemente affabili e signorili, come nella sequenza dell’accoglienza di Jonathan – l’arrivo al castello del personaggio è dettagliatissimo, interminabile, attraversando asperità e paesaggi ostili all’interno dei Carpazi. Un vampiro che si scompone esclusivamente alla vista del sangue, come nella celebre sequenza in cui – a pranzo col Conte – Jonathan si ferisce a un dito mentre cerca di tagliare il pane.

    Nosferatu – Il principe della notte è in definitiva un’opera che unisce l’attenzione ai dettagli estetici a un profondo rispetto per le radici del mito. Un capolavoro del cinema gotico che non solo rende omaggio al passato, ma lo reinventa con uno stile unico e visionario.

  • Natale di sangue è l’horror definitivo su Santa Claus

    Natale di sangue è l’horror definitivo su Santa Claus

    Il giovanissimo Billy Chapman, dopo aver parlato con il nonno (o aver immaginato di averlo fatto), diventa ossessionato dal lato punitivo di Babbo Natale; poco dopo, rimane traumatizzato da un killer vestito da Santa Claus, che uccide entrambi i genitori davanti ai suoi occhi. Cresce così in un orfanotrofio…

    In breve. Un classico dell’horror natalizio, uno dei migliori mai realizzati; perfetto nella storia come nei ritmi, nella regia e nei tocchi di horror ed erotismo, mai gratuiti quanto davvero traumatizzanti. Da non perdere.

    Something terroristic about Christmas: è questa una delle lettere più risentite da parte di genitori indignati che, all’uscita del film nel 1984, contestarono nei cinema questo lavoro di Charles Sellier, regista e produttore cinematografico molto prolifico, qui alle prese con uno dei più celebri film della sua sterminata produzione. Piuttosto che impedire la diffusione del film, queste polemiche contribuirono ad elevarne il livello cult. C’è da chiarire che le polemiche potevano essere giustificate all’epoca, dal punto di vista del pubblico più perbenista o bigotto; ad oggi, probabilmente, parte di quella carica sovversiva finirà forse per lasciare indifferenti. Quelle polemiche non consideravano, in ogni caso, i veri punti di forza del film, quelli che lo hanno reso a mio parere uno dei migliori mai realizzati in questo sotto-genere.

    Di Davy1509 - screenshot catturato personalmente da un'edizione in DVD del film, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4329945
    Di Davy1509 – screenshot catturato personalmente da un’edizione in DVD del film, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4329945

    Natale di sangue è una favola nera moderna, che riesce a sconvolgere il pubblico quale horror di ottima fattura, nichilista e crudele nelle sue conclusioni, in grado di turbare anche il pubblico più disilluso. Il trauma infantile diventa, in questo, non solo la scintilla da cui parte la storia, ma anche il feeling con cui si chiude l’intreccio, lasciando un senso di sospensione perfetto (oltre che terreno fertile per un sequel). Con una sorta di ciclicità innata (che infatti giustificherà almeno un seguito), i bambini restano profondamente affascinati e, al tempo stesso, turbati dalla presenza di Santa Claus, che potrebbe essere l’assassino insospettabile della porta accanto, e colpire da un momento all’altro. Questo è il sentimento che il film finisce per trasmettere, per quanto ovviamente non si tratti di un prodotto adatto a dei bambini. Vediamo Billy crescere in un mondo complicato, tra un evento che segnerà la sua vita per sempre ed un’educazione severa. La sua vita potrebbe davvero cambiare in meglio se non fosse che, lavorando in un negozio di giocattori, un bel giorno gli viene richiesto di vestirsi proprio da Babbo Natale. Cosa che il protagonista fa senza conseguenze, ma che poi innesca una paurosa reazione a catena, in grado di evocare antichi orrori vissuti in passato.

    In questo, appare chiaro l’intento rivoluzionario della pellicola: un film sostanzialmente blasfemo nei confronti della figura del classico Babbo Natale, quanto ragionato e ben congegnato, convinto della tesi che nulla sia sacro nel Natale consumistico e buonista, e che – soprattutto – un’educazione punitiva e repressiva (come quella che subisce Billy) non possa che portare a risultati nefasti. In effetti, il protagonista non si compiace di violenza gratuita giusto per fare qualcosa nella vita: la sua trasformazione in killer seriale è maturata, anzitutto da un trauma profondo (un ladruncolo vestito da Babbo Natale gli ha ucciso i genitori), si consolida con le punizioni corporali (la severità dell’orfanotrofio in cui cresce), arriva allo zenith nel momento in cui la ragazza che sogna di portarsi a letto finisce tra le braccia di un collega. Proprio questo climax, questo accumulo di elementi negativi che pongono paradossalmente Billy soggiogato al killer (un killer qualsiasi ed insignificante, non un villain: questo è forse l’aspetto più inquietante) diventa il vero punto di forza del film.

    Natale di sangue è portatore sano di horror ottantiano puro: quello fatto da un mix di erotismo (mai inutile nè volgare, sostanzialmente gradevole) e di violenza (mai gratuita, e sempre ragionata: si veda la sequenza grottesca del “regalo” del taglierino insanguinato alla bambina “buona”). A questo si aggiunga la spettacolarità di alcune sequenze, destinate a rimanere nella storia per il loro tasso di trovate originali, e per la caratterizzazione del mutamento di Billy, sempre graduale e sostanzialmente realistica quanto spaventosa. Per percepire la teatralità macabra e completamente priva di sbavature di Silent Night, Deadly Night, del resto, basterebbe sentire la voce del killer in originale, che fa sobbalzare dalla sedia urlando “Punish!” prima di ogni delitto (ovviamente evocando l’educazione repressiva che ha subito). Chiaro che il film è influenzato da Halloween (per il tema del baby-killer) e Venerdì 13 (per quello del trauma infantile), ma possiede nel proprio DNA una originalità che lo fa spiccare, soprattutto rispetto ad una sovrabbondanza di epigoni natalizi a volte insulsi, e non sempre significativi.

    Natale di sangue è un film Horror con la “H” bene in vista, che potrà certamente piacere o meno – ma che sicuramente resta un ottimo lavoro, ben girato ed interpretato, la cui tesi di fondo è che non esiste nulla di sacro, e che bisognerebbe sempre dialogare coi bambini facendo in modo che la loro scala di valori non vada a corrompersi senza che se ne accorgano. In definitiva, uno dei migliori horror natalizi mai realizzati, con la giusta dose di tutte le componenti e perfettamente equilibrato nella resa visiva. Certo il pubblico più puritano in fatto di tradizioni natalizie farebbe bene a restarne alla larga, ma tutti i veri appassionati di horror possono accomodarsi, e gustarselo appieno. Non troppo reperibile in italiano sul mercato dei DVD, esiste una certa confusione tra una marea di titoli simili: questo film circola col titolo originale Silent Night, Deadly Night, ma non è Silent Night, Bloody Night (che è pure un buon horror natalizio, ma non è quello di cui parliamo); non si tratta neanche di Christmas Evil – Un Natale macchiato di sangue, bensì si può trovare su Amazon in lingua inglese (abbastanza comprensibile se masticate la lingua).

  • El hoyo – Il buco è un horror concettuale molto potente

    El hoyo – Il buco è un horror concettuale molto potente

    Il film “The Platform” (noto anche come “El Hoyo” in spagnolo) è un film di genere horror / fantascienza diretto da Galder Gaztelu-Urrutia. Il film è uscito nel 2019, ed è una produzione spagnola.

    Trama / Sinossi

    Goreng accetta di farsi rinchiudere in una singolare prigione verticale, regolamentata da rigidi rapporti di gerarchia: un’unica tavola imbandita, che rimane ferma su ogni piano per pochi minuti. Chi abita ai piani superiori, di fatto, cede un’arbitraria razione di cibo a quelli dei piani successivi.

    In breve. Horror claustrofobico, simbolista e ricco di suspance, che riporta il genere alla sua dimensione più estrema.

    Recensione

    Il giurista e filosofo Jeremy Bentham, tra i padri fondatori dell’utilitarismo e del liberalismo, intorno alla fine del 1700 scrisse il Panopticon, un saggio che ideava un particolare tipo di prigione: alla base della sua progettazione vi era una sorta di “grande fratello“, insito nella struttura stessa dell’edificio, e costruito in modo tale che ogni detenuto non potesse mai sapere, di fatto, se venisse sorvegliato o meno. Sono gli stessi principi che ispireranno 1984 di Orwell, ma anche Sorvegliare e punire di Michel Foucault: tutti alla base di buona parte del sottogenere del cinema distopico ispirato alla detenzione. In questo film, come di consueto, traspare una consueta visione cupamente pessimista, del tutto estranea a qualsiasi spirito di solidarietà ed ispirata all’homo homini lupus, che poi degenera in un misticismo esistenzialista e rimette in discussione il concetto di lotta di classe.

    Un panopticon nella forma immaginata da Jeremy Bentham, ricostruito artificialmente con Midjourney

    Con questo elaboratissimo spirito di fondo, il regista Galder Gaztelu-Urrutia (classe 1974, al suo primo lungometraggio) ci proietta in una dimensione claustrofobica e surreale, con questo lavoro distribuito su Netflix e l’unico primordiale difetto di un titolo fin troppo ermetico: Il buco (El hoyo), che in inglese è stato reso fose più significativamente come The platform. Fin dall’inizio i richiami a Cube di Vincenzo Natali sono evidenti, sia a livello narrativo che architettonico: i personaggi sono in trappola, disorientati e confusi, mentre la struttura della prigione non è labirintica, bensì interamente in verticale. Emblematico, ovviamente: gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero hanno posto il focus su una struttura che dovrebbe simboleggiare quella della nostra società, fatta di rapporti di forza e gerarchie insindacabili. Rapporti di sudditanza, insomma, guerre tra poveri e ancora più poveri – che vengono resi particolarmente grotteschi e sgradevoli: fin dall’inizio è chiaro che si gioca, infatti, sulla tortura mentale e fisico-corporali di ogni detenuto, e fa davvero impressione accorgersi che ogni coppia di essi sia costretta a nutrirsi di ciò che avanza dai livelli superiori.

    “I cambiamenti non si producono mai spontaneamente”

    Mentre inizialmente scorrevano le immagini della cucina di un ristorante, ci viene ricordato che esistono tre categorie di persone: quelli che stanno sopra, quelli che stanno sotto e quelli che, invece, precipitano. Nell’idea del brillante regista, l’architettura riflette una relazione rigidamente gerarchica, in cui gli abitanti dei piani alti sottomettono quelli dei piani bassi: e a nulla vale, in tal senso, qualsiasi tentativo fatto dal protagonista (Goreng) di familiarizzare, chiedere collaborazione o solidarizzare. Piuttosto dovrà difendersi da subito da un inquietante compagno di cella, l’avido Trimagasi che pensa solo a divorare qualsiasi cosa e che, probabilmente, ha pure praticato il cannibalismo. Il parallelismo con le atmosfere exploitation modello The human centipede, a questo punto, sono lampanti: con l’unica differenza che i corpi cuciti chirurgicamente sono stati rimpiazzati da un edificio sinistro e impersonale, in cui semplicemente si agisce per la rispettiva sopravvivenza (e spesso a spese altrui).

    Perchè i personaggi sono rinchiusi nella prigione?

    Non è chiaro cosa ci facciano lì i personaggi, se non a grandi linee: ma è interessante accorgersi che si risveglieranno, in giorni differenti, in livelli apparentemente casuali, sperimentando così sia il punto di vista degli oppressi che quello degli oppressori. Ogni punto di riferimento ulteriore è stato rimosso: a differenza di un altro film analogo come The experiment (e viene in mente, per certi versi, anche l’ottimo The divide), la poetica di Galder Gaztelu-Urrutia non è troppo esplicita, e c’è ovviamente da augurarsi che ciò avvenga nelle sue prossime produzioni. Se si tratti di un test di volontari, cosa rappresenti il ristorante (se fossimo negli anni 70 non ci sarebbero dubbi: la società capitalista) non sarà del tutto chiaro, in favore di un’atmosfera sempre più lugubre, che diventa mistica sul finale. Quello che riusciamo ad intuire, per quello che vale, è che la struttura è popolata sia da volontari che da vittime, che esiste un’amministrazione (rappresentata da un’algida e sinistra signora che propone un colloquio conoscitivo al protagonista), che vengono (forse) rilasciati dei “diplomi” a chi riesce a sopravvivere e che, infine, il passaggio tra i vari piani non sembra seguire una logica meritocratica di alcun genere.

    Piani del buco come allegoria della lotta di classe

    La “lotta di classe” è un concetto chiave nella teoria marxista e in altre teorie politiche e sociologiche. Rappresenta il conflitto o la tensione sociale che sorge dalla divisione della società in classi socioeconomiche con interessi e obiettivi divergenti. Nel film in questione viene mostrata in modo sottinteso, non citata esplicitamente, ma è presente una struttura che potrebbe richiamarsi a quel ruolo, soprattuo nei termini delle disparità sociali ed economiche tra molto ricchi e molto poveri.

    Nei livelli inferiori, pertanto, si lotta nichilistamente per nulla, dato che il cibo scarseggia e perché nessuno dei detenuti, di fatto, ha razionato il cibo in precedenza: semplicemente, non c’è più niente per cui combattere. Tra un inciso cannibalico, qualche allucinazione lynchiana e l’onnipresente riferimento all’opera Don Chisciotte, si discende eroicamente fino al numero 333, facendo dedurre che il numero di carcerati, che sono due per piano, sia esattamente 666: il biblico Numero della Bestia. I casi sono due, a questo punto: che il regista abbia voluto infilare una sorta di easter egg nel suo film, oppure che il tutto abbia una valenza effettivamente mistica (come effettivamente suggerirebbero gli ultimi minuti dell’opera ed il suo finale). Questo viene legato ad una spiegazione numerologica del finale, che è abbastanza chiaro: la risalita rappresenta la redenzione, mentre gli altri, vittime o carnefici che siano, rimangono all’inferno, che viene quindi messo a fuoco con la  simbologia dantesca dei gironi.

    Sono anche dell’idea che un’ulteriore chiave di lettura possa, materialisticamente, essere quella dell’opera di Miguel de Cervantes Saavedra, i cui versi conclusivi sembrano adattarsi bene al personaggio protagonista (l’hidalgo è un nobile, per inciso).

    Giace qui l’hidalgo forte

    che i più forti superò,

    e che pure nella morte

    la sua vita trionfò.

    Fu del mondo, ad ogni tratto,

    lo spavento e la paura;

    fu per lui la gran ventura

    morir savio e viver matto

    In definitiva, quindi, un buon film, deviato piacevolmente dalla media del genere, piuttosto crudo in vari passaggi e che riesce a proporre una metafora (neanche a dirlo, sulla società in cui viviamo) piuttosto marcata. Il tutto, tanto per cambiare, senza perdersi in formalismi o pretenziosa ricercatezza.

    Spiegazione del finale

    Avviso Spoiler: La seguente risposta contiene dettagli sulla trama e sul finale del film “Il Buco” (titolo originale “El Hoyo”), quindi se non hai visto il film e non vuoi conoscere gli eventi chiave, ti consiglio di smettere di leggere qui.

    “Il Buco” è un film spagnolo del 2019, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia. Il film è noto per le sue tematiche allegoriche e il suo finale aperto, che lascia spazio a diverse interpretazioni.

    La trama del film si svolge in una prigione verticale composta da numerose celle sovrapposte. In ogni cella, due detenuti sono bloccati per un periodo di tempo determinato e, durante questo periodo, devono condividere un’enorme piattaforma di cibo che scende attraverso i livelli. Il problema è che il cibo viene preparato solo all’inizio e la quantità diminuisce man mano che la piattaforma scende verso i livelli inferiori. Quindi, i detenuti dei piani superiori possono mangiare abbondantemente, lasciando sempre meno cibo per quelli ai piani inferiori.

    Il protagonista, Goreng, cerca di sopravvivere a questa situazione disumana insieme a vari compagni di cella mentre attraversa diversi livelli della prigione. La trama del film esplora temi di disuguaglianza sociale, solidarietà e lotta per la sopravvivenza.

    Il finale del film è aperto e ambiguo. Goreng e la sua compagna di cella Baharat cercano di raggiungere il livello più basso, dove sperano di diffondere il messaggio sulla necessità di condivisione e solidarietà tra i detenuti. Alla fine raggiungono il fondo, dove trovano una bambina che sembra rappresentare la speranza per un futuro migliore.

    L’interpretazione del finale può variare. Alcuni spettatori vedono la bambina come un simbolo di speranza e la volontà di cambiamento, mentre altri vedono il finale come una sorta di circolo vizioso, in cui la lotta per la sopravvivenza continua anche nei livelli più profondi della società.

    In generale, “Il Buco” è noto per la sua natura allegorica e aperta all’interpretazione, e il suo finale lascia spazio a diverse letture sulla condizione umana, la società e la possibilità di cambiamento.

  • La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    In un’intervista di qualche tempo fa Guillermo del Toro – classe 1964, guru cinematografico del fantasy a tinte dark – raccontava una storia singolare: nel 1998 il padre viene rapito in Messico. Per ritrovarlo, la famiglia decide ad affidarsi a dei medium: personaggi che truffarono, a detta dello stesso del Toro, i suoi familiari – sfruttando tecniche di manipolazione e contraffazione di vario tipo. Al regista erano rimasti impressi i “ganci” psicologici con cui i medium, in quei giorni angosciosi di prigionia, affermavano che il padre volesse parlare alla famiglia usandoli come tramite psichico, puntando sull’aspetto sentimentale e convincendo in particolare la madre del regista, molto propensa a credere a quelle storie. Ci volle un riscatto per farlo tornare a casa, convincendo la famiglia a trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti.

    Questo rappresenta uno dei leitmotiv da cui nasce la scelta di girare un film come La fiera delle illusioni, titolo evocativo quanto significativo in tal senso, che tratta una storia fictional di mentalisti che “evolvono” in medium per avidità, evidenziandone contraddizioni e trucchi psicologici utilizzati per avere la meglio su chi voleva credergli (gli stessi ganci di cui sopra in forma romanzata). La scelta del soggetto aderisce allo statuto virtualmente dichiarato in quell’intervista, e mostra un film idealmente perfetto, impeccabile come ritmo e recitazione, suggestivo, oscuro e pervaso di un costante, sarcastico humor nero. Non fosse per quel finale un po’ “telefonato”, quel contrappasso così prevedibile (del resto parliamo di un romanzo oggettivamente datato il cui spirito, evidentemente, non si poteva mutare) che non citiamo apertamente per evitare spiacevoli quanto evitabili spoiler, potremmo parlare senza indugio di uno dei dark horror più interessanti e originali degli ultimi anni.

    La storia

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley) è il lungometraggio numero undici di Guillermo Del Toro (mentre scriviamo è in post-produzione il numero dodici, che sarà – a quanto pare – un adattamento di Pinocchio di Carlo Collodi in stop motion). Il film trae il soggetto dal romanzo omonimo di William Lindsay Gresham: un romanzo che è vecchiotto di suo, come dicevamo, essendo dei primi del Novecento, ambientato durante la seconda guerra mondiale e sul quale l’effetto retrò poteva provocare un fastidioso effetto vintage, non apprezzabile da tutti. Cosa che per  fortuna non succede, tanto è abile la regia a modernizzarne la forma ed attualizzarla, nonostante il fatto che le riprese si sono dovute interrompere causa una delle prime ondate della pandemia di Covid-19.

    L’ispirazione

    Si tratta del secondo adattamento cinematografico tratto dal romanzo, dopo quello datato 1947 (firmato all’epoca dalla regia Edmund Goulding). Sembra assodato che Del Toro lo faccia partire dagli stessi presupposti di Freaks, il capolavoro oscuro e romanticheggiante di Tod Browning, senza disdegnare qualche trovata (la “donna elettrica”, ad esempio) che ad oggi fa parte dell’immaginario pop anche grazie a Freaks Out di Mainetti. I personaggi sono pochi quanto essenziali: il vecchio mentalista che non esercita più, per paura di perdere il controllo e abusare del proprio pubblico, la scaltra finta maga, la ragazza elettrica dal lato umano, l’antieroe Stan, i vari freak e personaggi da baraccone sfruttati e costretti a varie mostruosità pur di dare spettacolo (e, si dice apertamente durante il film, far sentire il pubblico migliore di loro). L’impianto scenico della regia è quello di sempre, come prevedibile dato il contesto, in bilico tra l’horror e la fiaba macabra, tanto da far pensare a più riprese alle trovate teatrali o circensi di Funhouse di Tobe Hooper o, per restare su film più recenti, le incursioni di pagliacci mostruosi modello Rob Zombi. Ma c’è anche una seconda metà del film in cui il tono si normalizza, il focus si sposta magicamente da un vecchio baraccone pieno di stranezze ad un lussuoso studio di consulenza psicologica, con una costante neve a fare da sottofondo.

    Le chiavi di lettura

    Si respira un’aria malsana, in effetti, tanto più che vediamo l’ambiguo personaggio di Stan (un Bradley Cooper monumentale, tanto da voler girare una scena di nudo senza controfigure per sua scelta) muoversi sulla scena senza presentare o far presagire nulla di sè: all’inizio, semplicemente, parla con qualcuno in un letto, poi da’ fuoco ad una casa. Che il suo personaggio sia un anti-eroe di quelli epocali è chiaro, e lo è fin da subito: con l’aria dell’uno qualunque, misterioso, col tempo si svela anche infido, arrivista e donnaiolo. Non fosse per quel look a cui manca solo la frusta per sembrare (involontariamente, s’intende) Indiana Jones ante litteram, avremmo avuto l’antieroe perfetto, ideale, immarcescibile.

    Un antieroe mentalista, peraltro, in grado di usare disivoltamente tecniche di lettura a freddo e manipolazione psicologica, facendosi passare per veggente (il libro Paranormale di Richard Wiseman, per inciso, descrive fedelmente alcuni dei trucchi che vengono svelati nel film: uno su tutti, la tecnica nota come black rainbow, che consiste nel profilare la persona a cui si sta “leggendo il futuro” attribuendogli descrizioni generiche o contraddittorie: cose che affascinano e valgono un po’ per tutti, insomma, tipo tendi ad essere socievole ma a volte preferisci stare per conto tuo). Gran parte della narrazione è incentrata sul dilemma etico di usare il mentalismo come innocuo intrattenimento oppure forzare la mano di quelle tecniche, fingersi autentici medium ed ingannare spudoratamente persone molto ricche (quanto propense alla creduloneria). Un horror drammatico che, in definitiva, è difficile da racchiudere nel genere classicamente inteso, e che è in grado di svelare i misteri e gli imbrogli da sempre utilizzati in certi ambiti. In un periodo come quello che viviamo, del resto, un’opera del genere esce con un tempismo perfetto, rischiando di diventare (quasi per forza di cose) addirittura un film politico. Il significato recondito nel film, qualora ve ne fosse solo uno, probabilmente risiede tutto in questo aspetto primario.

    Il dark mood

    I toni oscuri sono effettivamente relegati alla prima parte, perchè è la seconda ad essere sorprendente: l’apparizione della figura algida e sinistra figura della psichiatra senza scrupoli (una Cate Blanchett perfetta, mostruosamente sensuale – come già in Don’t look up – per troppo tempo associata meccanicamente ad un ruolo relativamente insipido ne Il signore degli anelli di Peter Jackson), la quale entra in combutta con il protagonista, al fine di raggirare pezzi sempre più grossi. Il tutto in nome dell’avidità, di una malintesa attrazione reciproca e in barba all’etica, il che non potrà che risolversi dentro quel giardino labirintico innevato, che non poteva che ricordare quello quasi esoterico del kubrickiano Shining. Con una perla ulteriore, peraltro: una imperdibile seduta psicologica – di scuola freudiana, presumibilmente, o comunque del periodo in cui la psicologia faceva uso fin troppo disinvolto dell’ipnosi – con cui Lilith Ritter (nomen omen) sbatte sul lettino psicoanalitico (in un’incalzante seduta, sessualmente allusiva quanto manipolativa)  il povero Stan, evidenziando le fragilità del personaggio e scoperchiando i suoi segreti. Su tutti, il suo autentico rapporto col padre, soprattutto, che sarà il vero e proprio twist del film.

    Curiosità. Nel film viene curiosamente usato il termine geek, non nel senso di “super nerd” informatico bensì dalla parola tedesca geck, ovvero letteralmente “sempliciotto” con riferimento specifico ai fenomeni da baraccone più selvaggi, sia uomini che donne. Si trattava realmente di cruenti spettacoli di freak in voga fino a inizio Novecento, che prevedevano ad esempio che staccassero sul serio la testa di animali vivi sulla scena, e che il pubblico pagasse per vederli.

  • Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    “Povere Creature!” (titolo originale: Poor Things), è un romanzo di Alasdair Gray pubblicato nel 1992. Si tratta di una storia in stile gotico che combina elementi di satira sociale e politica con una narrazione surreale. Il libro è ambientato in una Glasgow vittoriana e segue la vicenda di Bella Baxter, una donna riportata in vita attraverso esperimenti scientifici. “Poor Things” è stato adattato in questo film del 2023 diretto da Yorgos Lanthimos, con Emma Stone nel ruolo della protagonista. La pellicola è stata molto apprezzata per la sua estetica unica e le tematiche profonde.

    Scrivere recensioni assomiglia a volte a uno sport bizzarro, nel quale non solo devi “sollevare i pesi” della tua esibizione interpretativa ma, come se non bastasse, sei costretto ad affannarti in derive letterarie improbabili, trovando rifugio tra i meandri di quello che hai provato, delle cose che hai letto e che forse c’entrano qualcosa, degli episodi che ti vengono in mente, le suggestioni che ricevi dallo schermo. Almeno per me è stato così, dopo aver visto Povere creature! in un cinema (purtroppo) mezzo vuoto, per quel che mi riguarda: e vale soprattutto quando assisti ad un lavoro del genere, semplice eppur complesso nel suo concepimento, incerto sull’attribuzione del genere, attualissimo – soprattutto – per le tematiche che scomoda. Un film che urla, letteralmente, la necessità di parlarne, di vederlo una prima o una seconda volta, per coglierne le numerose stratificazioni che lo caratterizzano.

    Cosa significa poor things

    Andrebbe come prima cosa sgombrato il campo sul titolo, e sulla pseudo-polemica legata alla traduzione: Poor things non significa povere cose (nè cose da nulla, come qualcuno ha maccheronicamente tradotto), ma andrebbe tradotto come poverini, poveracci, poveretti. In molti casi l’espressione vorrebbe esprimere disperazione e sofferenza, come in she just seemed more desperate, poor thing (sembrava disperata, poverina). Il sempre affidabile Urban Dictionary, peraltro, sottolinea come l’espressione poor thing finisca per denotare compassione per qualcuno, per una persona in questione a causa del dibattere su di essa. Da escludere, pertanto, l’idea che Povere creature! possieda una qualche componente exploitation (che è considerato il sottogenere che mostra violenza, sesso e derivati per il gusto di shockare o, al limite, per presunti scopi educativi o sociologici): l’attenzione sembra semmai posta sull’empatizzare con la vittima, impersonificandone la sofferenza e provando a mostrare come uscirne.

    Si è molto parlato di questo film negli ultimi tempi – la sua produzione risale al 2021 – e si tratta dell’ennesimo del prolifico Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro), il quale dirige l’ennesima storia simil-distopica dai tratti singolari. Una narrazione dotata di un approccio diretto e privo di fronzoli, costruito come un romanzo di formazione (è la storia di una fanciulla che rinasce, letteralmente, grazie ad una ardita forma di chirurgia) con numerosi echi al Von Trier di Nimphomaniac. Per il soggetto il regista greco va a pescare da un romanzo di Alasdair Gray del 1992, che racconta di questo singolare personaggio dai tratti freak che, per ribadirlo con l’espressione del film, finisce per essere “madre e figlia nello stesso corpo“.

    Noi nasciamo capaci d’imparare, ma non sapendo nulla, non conoscendo nulla – scriveva Rousseau nel suo celebre romanzo pedagogico Emilio del 1762. È curioso osservare che i presupposti di Povere creature! potrebbero collocarsi su questa falsariga. Qualche riga dopo, infatti, l’autore ipotizza per assurdo che se un fanciullo avesse alla sua nascita la statura e la forza di un adulto, quest’uomo bambino sarebbe un perfetto imbecille, un automa, una statua immobile e quasi insensibile. Serve a rimarcare il potere dell’educazione e l’importanza per ogni essere umano di imparare a conoscere  e capire il mondo (trovare l’a che serve per agire, per dirla alla Rousseau). Ed è come se l’autore del romanzo, ed il regista come diretta conseguenza, partissero dai presupposti posti per assurdo da questo celebre scritto, immaginando non un fanciullo ma una fanciulla bambina nel corpo di un adulto, che si comporta come tale assorbendo progressivamente il bene ed il male, suo malgrado, dal mondo che la circonda.

    La storia è quella di Bella Baxter, una giovane donna dal comportamento infantile, frutto del lavoro di un esperto chirurgo (Godwin Baxter, ovviamente nomen omen). Il medico è dedito ad esperimenti arditi – tra cui innestare teste e corpi di animali viventi diversi, come cani, gatti e maiali, al fine di creare nuove specie o, al limite, di mostrare i limiti oltre i quali la scienza non dovrebbe andare. Complicato effettuare operazioni del genere in una struttura sanitaria, del resto: per cui vediamo l’allestimento di una sala operatoria all’interno di una villa privata. Un ambiente che non può non evocare quello grottesco dell’isola del dottor Moreau, in cui un mad doctor supera i limiti dell’etica in onore dell’ossessione per la scienza. Ma il vero focus è  su Bella, il suo esperimento meglio riuscito: il personaggio non ha alcun ricordo, è infantile, libera e spensierata, oltre al fatto non indifferente di vivere senza saperlo nel corpo della madre morta suicida poco prima. Il corpo della madre di Bella è stato recuperato dal chirurgo in extremis, e si è deciso di impiantarle il cervello del feto che portava in grembo. Ogni conseguenza è imprevedibile, a questo punto, e la domanda pressante è: Bella scoprirà di vivere nel corpo della madre, oppure no? Cosa le comporterà saperlo, quando arriverà questo momento?

    Gli echi di Frankestein sono gli stessi del romanzo a cui il film si ispira, ma la dimensione horror classica è solo una condizione di partenza, non esclusiva, dalla quale si sviluppa un film totalmente surreale, imprevedibile e multisfaccettato, con numerosi echi erotici e vari significati psico-sociali. Sì, perchè il rito di iniziazione di Bella è la scoperta della sessualità, che la porta a fare sì che il suo Es scardini ogni convenzione e richieda, ad un certo punto, al proprio creatore di essere lasciata libera di scegliere. Un lavoro a cui Lanthimos conferisce una parvenza tra il vittoriano e lo steampunk, una sorta di mondo incantato in cui le funivie sovrastano il cielo delle città, i colori sono tanto saturi da sembrare fumetti, e in cui è ordinario che una giovane donna (interpretata da Emma Stone, che si muoverà meccanicamente per buona parte del film) vada a chiedere ad una attempata signora, appena conosciuta, se compensi con la masturbazione la mancanza di sesso che vive da più di vent’anni. La sua (ri)scoperta del sesso è un insight autentico, un’illuminazione, una rivelazione quasi mistica che la spinge a scoprire la logica del mondo e, come prevedibile, ad impattare in ogni suo aspetto.

    Povere creature è (anche) un film sulla degenerazione, sulla perdità di umanità, sul sesso come tabù e sulla sua valenza liberatoria, tanto orgasmatica quanto rivoluzionaria, che tanto si lega alle tematiche del desiderio e della repressione e che – soprattutto – rifiuta il familiarismo tipico delle pellicole più claustrofobiche di questo tipo: quelle per cui tutto nasce, vive e muore in famiglia, con la famiglia che diventa prigione, lettino dello psicoanalista e tomba. In questo film il focus sembra essere aprire noi stessi al mondo, che è probabilmente ciò che Lanthimos ci invita a fare – pena perdere la nostra umanità.

    Per questo è necessario, oggi e per sempre, non soffermarsi superficialmente sull’aspetto sessuale prompente che l’attivissima Bella ci propina, per quanto la regia insista su di esso senza tabù sfruttando frequenti primi piani facciali, nonchè una rassegna di pratiche erotiche che vengono quantomeno citate se non mostrate (masturbazione, coito in qualsiasi posizione, rimming, cunnilingus, sado-masochismo). Il punto, semmai, è il significato simbolico di queste pratiche, che da un lato vogliono dire emancipazione sessuale (femminile, soprattutto), dall’altro fanno diventare la trama diventa una riflessione spassionata e coinvolgente sui perchè dell’essere umano, dal punto di vista di un cervello non completamente sviluppato o “immaturo” come quello di Bella, che appare, grottescamente, più ragionevole e sensato di quello di un uomo adulto, viziato da rabbia e gelosie irrazionali, senso di possesso, patriarcato e via delirando.

    Il cervello della protagonista recepisce il mondo in modo sostanzialmente innocente, scopre da sola la propria sessualità, poi scopre le relazioni, le imposizioni, i tabù, fino a scoperchiare il dolore del mondo (la sequenza annessa è dotata di un’intensità rara, quasi commovente). Poi inizia a leggere libri e romanzi, scopre il socialismo a Parigi e alcuni lavori “proibiti” per mantenersi, inizia a studiare medicina per poi costruirsi il proprio mondo poli-amoroso da manuale.

    L’idea di Godwin, del resto – un dio che ha vinto, letteralmente – era quella di dimostrare scientificamente che Bella è un autentico reset biologico, una donna creata al di fuori dell’evoluzione proprio perchè in grado di liberararsi completamente dall’influenza dei genitori. Anti-Edipo, insomma. Mamma e papà non erano al lavoro mentre studiavi e avevi il primo fidanzatino: semplicemente non c’erano, non ci sono mai stati, perchè sei nata ed hai aperto gli occhi su un tavolo operatorio, con un corpo di madre che solo incidentalmente si trovava lì.

    Ecco perchè Lanthimos (e Gray, di riflesso) uccidono la madre, metaforicamente, e costringendo lo spettatore a superare qualsiasi triangolazione edipica, a buttarsi nella mischia, a conoscere il mondo (che riserva ovunque anfratti di amore e libertà, nonostante le minacce e le brutture), in nome della bellezza dell’esperienza, dell’apertura verso il mondo, della (ri)scoperta e dei piaceri che ciò può provocare. Non è la rappresentazione del sesso in sè a essere tabù, in fondo: è l’idea di Bella a sconvolgerne il bieco conformismo, se si pensa che era stata lei, ingenuamente, a chiedersi perchè la gente non trascorresse interamente le proprie giornate a fare qualcosa di meraviglioso come il sesso.

    Il personaggio è incredibilmente potente, al punto da risultare spaventoso o destabilizzante per qualche spettatore, e diventa sempre più tale col progredire di una trama variabile e dai tratti a volte nostrani, altri esotici. Inizialmente il comportamento di una bambina dispettosa diventa un’adolescente in tempesta ormonale, poi viene promessa in sposa all’assistente del chirurgo (che se ne innamora) fino a diventare una donna e scoprire il mondo, le sue perversioni, le sue brutture, la sua bellezza, la sua speranza. Un viaggio tra Lisbona, Parigi, Alessandria, alla scoperta del proprio sè, a contatto con un mondo ben più cinico di quanto la sua innocente empatia suggeriva, probabilmente, fino a tornare nella Londra vittoriana in cui era inizialmente ambientato il film. Rinascere, anche qui, ancora una volta.

    È in discussione la narrazione più classica, del resto: se è vero si inizia con la tipica triangolazione di personaggi tra Io (il giovane medico che ascolta, come noi, la storia), SuperIo (il chirurgo creatore onnipotente) ed Es (Bella, in progressiva preda dei propri desideri, il film prende una piega inaspettata proprio perchè il personaggio femminile rifiuta deliberatamente di ridurre tutto a mamma e papà (per usare l’espressione antiedipica forse più usata da Deleuze e Guattari), ma soprattutto accetta, con coraggio e audacia, di affacciarsi nel mondo, di relazionarsi nel proprio singolare modo, a proprio rischio e pericolo. È una donna, ed è libera, accarezza idee socialiste e – naturalmente – è minacciata non solo dal patriarcato del mite spasimante ma anche da quello di molti uomini con cui avrà una relazione. E poi il sesso che la entusiasma candidamente non potrà essere accettato dal perbenismo imperante, per cui conoscerà il dolore della repressione; la sincerità che la contraddistingue non sempre sarà motivo di successo, anzi la renderà vittima di sopraffazione e bieco patriarcato; il suo viaggio nella sessualità a 360° la porterà ad aprirsi a nuovi mondi, a nuove sensazioni, fino a spalancare le porte ad una relazione poliamorosa che sembra, di fatto, chiudere uno dei migliori film mai girati da Lanthimos.

    Povere creature è un film complesso, senza dubbio, che va interpretato alla luce delle tematiche non banali che abbiamo elencato. Ma è anche un film che fa della chiarezza narrativa il suo più importante pregio, per quanto l’ambientazione fantascientifica dirompente lasci il pubblico privo di un vero e proprio punto di riferimento. Poco importa: perchè guardi Bella, guardi i personaggi attorno a lei, ti capaciti che il tuo mondo non era poi così diverso e pensi che, tutto sommato, potresti provare ad aprirti anche tu. Magari da lunedì prossimo, nel giorno da incubo per eccellenza, accettando di attraversare la nostra formazione, di accelerare il processo, di spingersi oltre a nostro consapevole rischio e pericolo. Per vivere come uomini – ma soprattutto come donne – sempre più autenticamente liberi e libere.

    La spiegazione di “Povere creature!”

    Spiegazione di Povere Creature!: un viaggio tra cinema, letteratura e filosofia

    Povere Creature!” (titolo originale Poor Things) è un’opera che affonda le sue radici nel romanzo gotico e nella satira sociale, diventando un fenomeno culturale capace di affascinare lettori e spettatori. Il romanzo di Alasdair Gray, pubblicato nel 1992, ha ispirato l’omonimo film diretto da Yorgos Lanthimos nel 2023, con Emma Stone nel ruolo della protagonista Bella Baxter. Quest’articolo esplora la trama, le tematiche principali e il significato simbolico dell’opera, mettendo in luce perché sia diventata un punto di riferimento nel panorama culturale.


    Trama

    Il romanzo e il film seguono la storia di Bella Baxter, una giovane donna riportata in vita da Godwin Baxter, un chirurgo geniale e controverso. Bella è il risultato di un esperimento radicale: il suo corpo appartiene a sua madre, deceduta, mentre il cervello proviene dal feto che portava in grembo. Questo “reset biologico” crea un personaggio unico, che esplora il mondo con un misto di innocenza infantile e curiosità adulta.

    Ambientata in una Glasgow vittoriana che richiama atmosfere steampunk, la narrazione mescola elementi gotici con riflessioni filosofiche, creando un’esperienza profondamente stratificata.


    Il titolo: “Poor Things” e il suo significato

    Una delle prime curiosità riguarda il titolo originale: Poor Things. La traduzione “Povere Creature!” è appropriata, ma il termine “poor things” porta con sé sfumature di compassione e empatia verso chi soffre. Non si tratta di una semplice espressione di pietà, ma di una riflessione sull’umanità e le sue contraddizioni.

    Il titolo anticipa la chiave di lettura dell’opera: non uno spettacolo di sfruttamento o violenza, ma una narrazione che invita a empatizzare con i personaggi, esplorando temi come la libertà, la sessualità, e l’identità.


    Tematiche principali

    1. Educazione e libertà
      Bella rappresenta un “foglio bianco” che si riempie lentamente attraverso le esperienze. Questo richiama le teorie di Rousseau in Emilio, dove l’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’individuo.
    2. Sessualità e autodeterminazione
      Un aspetto centrale del film è la scoperta della sessualità di Bella. Questa non è presentata come semplice tabù, ma come un mezzo di emancipazione personale e sociale. Le sue esperienze erotiche simboleggiano la libertà dai vincoli imposti dal patriarcato e dalla morale vittoriana.
    3. Scienza ed etica
      Godwin Baxter incarna il classico “mad doctor” che spinge la scienza oltre i limiti morali. Tuttavia, il focus non è sull’orrore delle sue azioni, ma sulle implicazioni filosofiche: cosa significa essere umani? Fino a dove può spingersi la scienza senza perdere di vista l’etica?

    Estetica e regia di Yorgos Lanthimos

    Lanthimos porta sullo schermo un mondo visivamente sorprendente, unendo atmosfere vittoriane a dettagli steampunk. I colori saturi e le scenografie oniriche contribuiscono a creare un’esperienza cinematografica unica. Emma Stone offre un’interpretazione magnetica, incarnando la dualità di Bella: innocenza e saggezza, fragilità e forza.


    Perché vedere Povere Creature!?

    Povere Creature! è più di un semplice film o romanzo: è una riflessione profonda sull’umanità, la libertà e il progresso. Che siate attratti dalla narrazione surreale, dalle tematiche filosofiche o dall’estetica unica, quest’opera offre spunti per riflettere e discutere. In definitiva il film ci invita probabilmente a esplorare cosa significa essere vivi, imparando a conoscere il mondo e noi stessi, un passo alla volta.

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