FOBIE_ (182 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • 🎄 RECENSIONE HORROR: Silent Night, Deadly Night

    🎄 RECENSIONE HORROR: Silent Night, Deadly Night

    Nel novembre del 1984, Silent Night, Deadly Night non fu solo un horror slasher: fu un vero e proprio caso mediatico. Il film uscì nelle sale con una premessa che a molti genitori americani risultò inaccettabile e oltraggiosa: Babbo Natale, simbolo di innocenza e bontà, come assassino con l’ascia? Questo singolare rovesciamento dell’emblema natalizio scatenò proteste rumorose e veementi. Gruppi di genitori, guidati da associazioni come Citizens Against Movie Madness, scesero in piazza davanti ai cinema per chiedere il ritiro del film e accusarono produttori e distributori di aver oltrepassato ogni limite di decenza.

    Un classico cult che divide: alcuni lo trovarono grottesco e offensive, altri lo celebrarono come uno dei modi più spaventosi di raccontare l’orrore natalizio, attraverso una curiosa chiave sociologica. La reazione non si limitò ai cartelli fuori dai cinema: campagne pubblicitarie con immagini del “Babbo assassino” furono tolte da TV e billboard dopo che molte famiglie si lamentarono perché gli spot venivano mandati in onda durante programmi familiari nel tardo pomeriggio, terrorizzando i bambini con la figura del vecchio vestito di rosso che brandisce un’ascia.

    Se pensavi che il Natale fosse fatto di luci, regali e abbracci calorosi davanti al camino, Silent Night, Deadly Night ti scaraventerà nella sua antitesi più spaventosa: una notte di sangue, trauma e follia in cui Babbo Natale non porta dolci.

    Il film del 1984, diretto da Charles E. Sellier Jr., è un slasher che ha fatto la storia (e non per il motivo giusto): qui Babbo Natale diventa l’incarnazione di ogni paura natalizia mai avuta da un bambino. Billy Chapman, traumatizzato dall’aver visto i suoi genitori uccisi da un uomo travestito da Santa Claus, cresce in un orfanotrofio doloroso e repressivo. Quando, da adulto, si ritrova a indossare la stessa giacca rossa… il sangue scorre.

    E poi ci sarebbe il reboot del 2025, firmato da Mike P. Nelson: un ritorno al mito del killer vestito di rosso che non si limita a riproporre gore e carneficina, ma prova a scavare nella psicologia di Billy, mescolando nostalgia anni ’80, tormento interiore e persino una love-story disturbata. Nulla di paragonabile a questa gemma settantiana che si annovera tra i migliori slasher di sempre.

    Silent Night, Deadly Night non è solo sangue e body count; è una lacerazione del mito natalizio. Il costante contrasto tra magia delle feste e violenza brutale crea un senso di inconforto che ti resta addosso come una canzone di Natale stonata. Il killer in costume bianco e rosso non è una parodia, ma la personificazione di un trauma infantile mal curato e di un mondo che fallisce chi soffre.

    In Silent Night, Deadly Night il Babbo Natale assassino non è semplicemente una provocazione iconografica, ma la cristallizzazione di un trauma infantile non elaborato, una ferita psichica che il tempo non guarisce ma solidifica. Billy non “impazzisce”: si struttura. La sua violenza non nasce dal nulla, ma da un’esperienza originaria che la psicoanalisi freudiana definirebbe come evento traumatico primario, non simbolizzato, quindi destinato a ripetersi sotto forma di coazione a ripetere.

    Freud scrive che ciò che non viene ricordato ritorna come azione. Billy non ricorda: agisce. E agisce indossando proprio il simbolo che ha generato l’orrore. Il costume di Babbo Natale diventa così un oggetto transizionale rovesciato: non serve a lenire l’angoscia, ma a darle una forma, a renderla comunicabile attraverso il sangue.

    Dal punto di vista lacaniano, il trauma di Billy avviene nel momento in cui il Simbolico (la Legge, il linguaggio, l’ordine adulto) fallisce. Babbo Natale dovrebbe incarnare il Padre buono, colui che giudica ma protegge; qui invece si manifesta come Padre assassino, spezzando ogni possibilità di fiducia nel mondo. Il risultato è un soggetto che non riesce a entrare pienamente nel patto sociale: Billy resta intrappolato nel Reale, in ciò che è troppo violento per essere detto.

    Ma il vero orrore non è solo il trauma iniziale. È ciò che viene dopo. L’orfanotrofio, le figure educative, la morale repressiva: tutto concorre a trasformare il dolore in colpa. Non c’è ascolto, non c’è elaborazione, solo disciplina e punizione. Qui il film si avvicina a una critica quasi foucaultiana delle istituzioni: il sistema non cura, normalizza. Non accompagna il soggetto nella comprensione del trauma, ma lo addestra a reprimerlo.

    Secondo Foucault, la società moderna non elimina la follia: la isola, la sorveglia, la addomestica finché non esplode. Billy è il prodotto di questa violenza silenziosa: un individuo a cui viene insegnato cosa è “giusto” e “sbagliato”, ma mai perché soffre. Quando uccide, non lo fa solo per vendetta personale, ma come atto morale distorto: punisce i “cattivi”, replica la logica ricevuta.

    In questo senso, il mondo di Silent Night, Deadly Night fallisce due volte:

    1. Non protegge l’infanzia

    2. Non sa cosa fare con il dolore adulto

    Indossare il costume di Babbo Natale a questo punto non è una scelta casuale: è l’ultimo stadio della dissociazione. Secondo la psicoanalisi del trauma, quando l’Io non riesce a integrare l’esperienza traumatica, può identificarsi con l’aggressore (Anna Freud). Billy diventa ciò che lo ha distrutto, perché solo così può smettere di sentirsi impotente. La maschera è rassicurante perché elimina il conflitto: non c’è più Billy, non c’è più bambino, non c’è più dolore. C’è solo una funzione. Uccidere diventa linguaggio. Il sangue diventa narrazione. Ed è qui che il film diventa profondamente nichilista: non c’è redenzione, non c’è catarsi, non c’è guarigione. Solo la messa in scena di un fallimento collettivo, in cui il mostro non nasce, ma viene lasciato crescere in una società che farebbe quasi finta di non vederlo.

    L’orrore di Silent Night, Deadly Night non è il killer vestito di rosso. L’orrore è un mondo che guarda un bambino spezzarsi e risponde con regole invece che con cura. Babbo Natale, nonostante le apparenze, non è il mostro. È lo specchio deformato di una società che promette protezione, ma consegna solitudine. E quando il trauma non trova parola, quando il dolore non trova ascolto, l’unica voce rimasta è la violenza.

    Questa innovativa regia del 1984 racconta una spirale di follia semplice ma efficace; quella del 2025 amplia il campo visivo, con sequenze più elaborate, azione intensa e riferimenti psicologici più profondi. Tuttavia, entrambi i film condividono quella sensazione di natalità corrotta, in cui il suono dei campanellini si trasforma in un grido di terrore.  Perché Silent Night, Deadly Night è il dolore che si veste di rosso, l’innocenza che si spezza sotto il peso di un trauma indelebile. È quel momento in cui l’iconografia più rassicurante diventa la maschera del tuo incubo più profondo. Quando Billy chiede “Sei stato cattivo o buono?”, non è un gioco: è un giudizio spietato, la sentenza di chi non ha più nulla da perdere.

    Il film fu distribuito in Italia principalmente in home video, non nelle sale come negli USA. Quando venne pubblicato in videocassetta nel dicembre 1988, il titolo italiano usato fu “Silent Night, Deadly Night – Un Natale rosso sangue”. Successivamente, in edizioni VHS e DVD degli anni ’90 fu adottato anche il più semplice “Natale di sangue” come titolo di copertina e di catalogo.

    Natale di sangue non va confuso con Black Christmas, un altro horror natalizio degli anni ’70 diretto da Bob Clark, che nella distribuzione italiana venne a volte sottotitolato Un Natale rosso sangue. Anche se i titoli italiani si somigliano, sono due film distinti e non collegati nella trama o nella saga.

    Foto locandina: www.nightmareongleimstreet.com, Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=3569876

  • The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    Un gruppo di attivisti parte per il Perù, al fine di fermare le ruspe di una società che vuole radere al suolo parte della foresta e proteggere la tribù del posto: l’azione sembra riuscire, ma l’imprevisto è in agguato…

    In breve. Horror ispirato e di buona fattura. Da Eli Roth normalmente escono fuori film che si apprezzano di più se si conoscono le fonti di ispirazione classiche: diversamente, passa un’idea di “cosa” poco conto, ed in questo particolare contesto, dato il richiamo ad un sottogenere come quello cannibalico, non può che essere così. The Green Inferno merita appieno la visione, e non è banale nel suo concepimento nonostante qualche apparenza contraria, e soprattutto per il finale.

    The Green Inferno di Eli Roth ha segnato il ritorno al cinema del regista americano, noto ai più per il primo Hostel (2005), un fake trailer di Grindhouse (2007) ed il meno noto (ma non trascurabile) Cabin Fever (2002). The Green Inferno è uscito nelle sale due anni dopo la sua uscita, per inciso, per via di vari problemi distribuitivi.

    The Green Inferno è un horror, più precisamente appartiene ad un sottogenere molto ben delineato negli anni ’70: la tradizione cannibal (Deodato ne fu un po’ il padre fondatore), e Roth modernizza e rielabora quegli stessi canoni, sia a livello narrativo che concettuale, al netto di qualche “licenza poetica” niente male. Di fatto, la violenza dei cannibal è vivida, realistica, fuori norma rispetto a quello che si vede anche nell’horror più truce e scorretto: in certi momenti, qui, sembra di assistere ad un documentario in HD per quanto è esplicito, per quanto manchino gli eccessi snuff (sugli animali) che hanno reso celebre, nel bene o nel male, altre pellicole del genere in passato.

    Nonostante questi presupposti inquietanti, The Green Inferno riesce a non essere troppo pesante, tantomeno fuori luogo (il rischio era altissimo, data la particolare venatura del sottogenere di riferimento) o privo di ritmo (come a volte accadeva anche nei cult del passato). Lo sbadiglio è prevenuto dal nuovo, onnipresente, colpo di scena, e questo è già importante di suo. Roth non delude, Lorenza Izzo (Justine) fornisce una buona interpretazione, c’è in generale un’accattivante (per quanto vagamente stereotipata) caratterizzazione dei personaggi. Non manca un certo tocco grottesco (che molti hanno frainteso come trash) che caratterizza tutta la filmografia del regista di Hostel. Intuizione molto attuale, ed in linea con l’oggi, peraltro, il riferimento drammatico alla pratica dell’infibulazione, e la presenza di una vegana dichiarata tra gli attivisti, il che creerà un bel po’ di “dilemmi morali” (dato che si parla di cannibalismo).

    Roth sembra avere le idee chiare sul tipo di film da girare, mostrando di conoscerne appieno i canoni; parte da Cannibal Holocaust (1980) e lo ristruttura con elementi politici (la critica alla politica militante in certe accezioni è sostanziale), ambientandolo ai giorni d’oggi e inserendo idee fresche e innovative.

    Per farlo, ha avuto bisogno di recarsi nella foresta amazzonica, e non solo: per risolvere il problema di far recitare degli indigeni che non avevano idea di cosa volesse dire farlo – e prima che venga un colpo a qualcuno, è bene specificare che non esiste alcuna tribù cannibale da quelle parti – gli ha proposto (suggerisce IMDB) la visione proprio della celebre pellicola di Deodato, in modo che avessero idea di che cosa avrebbero dovuto fare. Un modo originale che è risultato tremendamente efficace, soprattutto per i due “capi” (l’indigeno truccato della copertina, e naturalmente l’inquietante sciamana), mentre in più occasioni l’orda cannibale sembra evocare quella dei feroci non-morti di Romero e compagnia (vi risparmio i parallelismi ovvi del caso). Tra l’altro, un curioso aneddoto racconta della tribù che vive realmente da quelle parti, la quale a fine riprese avrebbe offerto un bambino di due anni come “regalo d’addio” alla troupe, se servisse dirlo, non accettato.

    Del resto – e questo è sfuggito clamorosamente, secondo me, a molti recensori – Roth non vuole osannare banalmente la tribù come espressione del “buono” e l’uomo occidentale come “cattivo”: anzi, si guarda bene dal farlo. Forse sarebbe bene liberarsi delle contrapposizioni da social network, o da analoghe polarizzazioni, perchè The Green Inferno è ricco di sfumature non scontate e poco marketizzabili. Mescola le carte proprio per togliere qualsiasi punto di riferimento, al fine di esprimere la medesima disillusione che guidò Deodato nel suo film misto 16/32 mm, circa 35 anni fa. Al posto dei giornalisti a caccia di scoop facili, stavolta, c’è la pluri-osannata informazione del “popolo del web”, il citizien journalism (forse più in voga negli USA che da noi), il totem del pensiero progressista; ma anche strumento improprio, il web, con cui si diffondono messe in scena e bufale da parte di personaggi senza scrupoli.

    Gli attivisti che usano cellulari connessi ad internet come “armi”, suggerisce il regista (che ha anche scritto il soggetto), finiscono per specchiare tristemente una propria auto-referenziale vanità, con la quale si limitano a lavarsi la coscienza mediante slogan politici o indossando magliette del proprio guru. Il ritratto degli attivisti, volutamente imbarazzante per certi versi, serve a mostrare allo spettatore da dove arrivino le vittime, al fine di massimizzare il contrasto con la seconda parte del film.

    Da un alto, quindi, abbiamo degli attivisti intenzionati a fermare la devastazione delle ruspe, animati da ottime intenzioni (che saranno in massima parte deluse): dall’altro i cannibali, che mostrano poca o nessuna comprensione per i propri “liberatori” i quali, a quel punto, non avranno modo di far capire la propria buonafede. Eli Roth ci tiene a mostrare le massime efferatezze, lo fa con lo stile e la credibilità visiva che conosciamo, e realizza essenzialmente un film molto politico (alla Romero o Carpenter, per intenderci), più politico anche di Cannibal Holocaust (che certo non scherzava, per l’epoca), in cui – mutatis mutandis  – ne fuoriescono disillusione e nichilismo.

    Gli indigeni, ripresi per la prima volta in una pellicola, ben figurano in un film del genere, ed in numerose sequenze sono suggestivi e spaventosi come poche volte (o da troppo tempo) si era visto al cinema. Molte sequenze sembrano prese pari-pari da Cannibal Ferox e dal pluri-citato Cannibal Holocaust, addirittura la fisionomia e le azioni di certi attori evocano quelle dei precedenti interpreti e situazioni.

    Si vorrebbe quindi far passare una certa critica ai movimenti no global, accusati di scarsa efficacia, di fare politica solo per capriccio o senso di colpa, e di accettare un idealismo cieco, quando non del tutto opportunista (le figure dell’indecisa Justine e dell’ambiguo Alejandro, paragonabile all’idolatrato Cuervo Jones di Fuga da Los Angeles, la dicono lunga in merito). Le medesime figure di attivisti, il cui “capo” mostrerà solo in seguito la propria natura, saranno vittime designate della tribù, in una sorta di vendetta rituale vera e propria. Il messaggio è quasi ovvio: devastiamo il mondo con la presunta civiltà, ci affidiamo a parti politiche ipocrite ed anticonformiste solo di facciata, la natura ce la farà pagare.

    Dipende dallo spettatore, a quel punto: se apprezzate escursioni ideologiche del genere, tanto di cappello – amerete quasi certamente The Green Inferno, criticandone al più una certa estetica che non è vintage e, a confronto col passato, non sempre spaventa come dovrebbe (è molto relativo, mi rendo conto: per parecchi di noi, l’idea dei cannibali è da relegare alle vignette dei giornalini). Se non digerite questo tipo di horror brutali con tanto concetto dietro, vi conviene restare lontani, lontanissimi dalle sale (e dai DVD che usciranno), perchè alla fine prevarrebbero le solite critiche di “pesantezza”, nonchè la discussione eterna se un horror abbia o meno gli strumenti semantici (parolone) per mandare messaggi del genere (risposta breve: li ha sempre avuti, ma questo mi permetto di pensarlo personalmente).

    Non abbiamo bisogno di parlare di questo, in fondo: abbiamo bisogno di buoni horror, e secondo me Roth ne ha fatto uno niente male.

  • Quando il buio si avvicina, c’è Kathryn Bigelow di mezzo

    Quando il buio si avvicina, c’è Kathryn Bigelow di mezzo

    Un giovane della provincia americana conosce una vampira ed il suo gruppo di compagni…

    In breve. Storia di vampiri mix di road-movie, horror e western, in una delle prime riedizioni modernizzate (cioè private di ambientazione ed elementi classici) mai viste sullo schermo (non la prima in assoluto, come scritto da qualche parte sul web); le idee ci sono, lo stile pure ed il risultato è senza dubbio considerevole, soprattutto considerando il periodo. Resta la considerazione che si tratta di un film che cerca una propria dimensione ma che riesce, di fatto, a convincere solo in parte.

    Anni prima di Rodriguez (Dal tramonto all’alba) e Carpenter (Vampires) Kathryn Bigelow – nota anche per Point Break e Strange days, qui al suo esordio alla regia (se si esclude The loveless del 1982) – confeziona una variazione sul tema vampiri in chiave western: decide di ambientarla nella provincia americana, con gli immancabili hillbilly, bettole malfamate e oscuri individui che si aggirano in essa a caccia di nuove vittime. Sarebbe l’ennesima banalità su un tema, ad oggi, forse troppo abusato, oltre che con poche pellicole davvero degne di attenzione: eppure le idee qui ci sono, molto prima dei ben più noti epigoni anche dello stesso, succitato, John Carpenter, che pure – a dirla tutta – non era esente da difetti. Tra le curiosità del film, il fatto che la parola “vampiro” non venga mai pronunciata da nessun personaggio,

    Sul fronte puramente storico, si tratta di una trasfigurazione del mito del vampiro in chiave moderna – se per moderna, ovviamente, intendiamo l’America degli anni ’80: collocando la storia nella provincia, e dando l’incipit all’intreccio sulla base del flirt tra il giovane Caleb e l’affascinante Mae, vampira che contamina il ragazzo e lo introduce forzatamente nel suo gruppo. Emblema dell’americano d’epoca – con un chiaro riferimento all’eroe stereotipato alla John Wayne, che diffida dal vampiro/”diverso” e si fa trovare pronto a trarre in salvo le  proprie donne – “Il buio si avvicina” è un multi-genere ben scritto, ben recitato (si racconta ad esempio che Lance Henriksen girovagasse in zona, nelle pause delle riprese, rimanendo calato nel suo personaggio, rischiando quasi di essere arrestato da un poliziotto che lo aveva fermato) ed altrettanto ben diretto, innovatore e senza timori di violare le “regole del gioco” (sulla pistola di uno dei vampiri è presente una croce, come a simboleggiare che certe regole sono cambiate per sempre) ma con un unico difetto di fondo, legato ad un piano narrativo a tratti scontato e prevedibile. La stessa mitologia del vampiro resta volutamente vaga, tanto che non riusciamo mai a vedere se ad esempio possano riflettersi nello specchio, o essere danneggiati da una croce: abbiamo solo testimonianza che sono difficili da uccidere, che temono la luce e che naturalmente cercano sangue.

    Il film si sviluppa secondo le tecniche narrative e visuali tipiche del western, una componente di road-movie (i vampiri sono dipinti come una specie di reietti, perennemente in fuga), una discreta componente horror ed una storia che si fa preferire nella prima che non nella seconda porzione. Potrebbe sembrare un aspetto positivo in termini di originalità, ma il climax di tensione e l’esasperazione del conflitto vampiri-umani viene brutalmente tramortito dall’happy end che la regista ha imposto alla storia, il che tende – a mio parere, s’intende – a disinnescare l’opera, nonostante tutti gli aspetti positivi ed il contesto che sto cercando di considerare. Diversamente – con un tocco di nichilismo e disillusione in più, in un certo senso, “obbligatori” per una storia di vampiri –  sarebbe potuto essere per i film sui vampiri tranquillamente ciò che, ad esempio, Hardware – Metallo letale è stato per l’argomento cyberpunk nel cinema. Nella realtà delle cose, in questa sede resta la sensazione di aver visto qualcosa di parzialmente riuscito, che peraltro un regista come Tony Scott (nonostante la produzione si fosse intromessa nella realizzazione, imponendo di cambiare il finale) aveva meglio concretizzato anni prima col suo Miriam si sveglia a mezzanotte.

    Il film è basato a buoni personaggi – la triade di vampiri in copertina, uniti alla figura del giovanissimo Homer, è da manuale del genere – mostra una visione certamente originale sul tema, e focalizza soprattutto i tormenti di un “neofita” nel dover “andare a caccia” ed uccidere per poter sopravvivere. Finisce pero’, a conti fatti, per essere penalizzato dalla volontà di far finire la storia in maniera, se non altro, necessariamente rassicurante, quasi conformista: il vampirismo, dalla visione di Near dark, risulta essere una specie di malattia da cui è possibile (o addirittura indispensabile!) guarire.

    Nonostante tutto, siamo al cospetto di un cult del suo genere, e troviamo scene notevoli e sequenze epiche degne del miglior cinema dell’epoca, o se preferite una rilettura del genere più che apprezzabile, soprattutto a confronto di epigoni smielati e fuori luogo spopolati sugli schermi in anni recenti. Sul piano musicale la colonna sonora è impreziosita dai contributi dei Tangerine Dream.

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  • Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Tre giovani e due donne si recano in macchina ad un rave: questo è quanto fanno credere…

    In breve. Un film crudo e terrificante, un saggio magistrale di decadenza come non se ne vedevano da anni: censurato in Italia con poco giustificabili toni inquisitori, ed ingiustamente maltrattato da chi non ha saputo neanche vederlo, è uno slasher quasi revenge movie che gioca a decostruire il genere, meritevole di rispetto e di una riscoperta. Un vortice di nichilismo, realismo e ferocia umana, ispirato parecchio al primo Wes Craven.

    Abbiamo trascorso anni della nostra vita da recensori a farci affascinare, deprimere o esaltare da prodotti cinematografici al limite dell’amatoriale, spesso qualitativamente non eccelsi, con l’etichetta cult appiccicata a volte meritatamente, altre a casaccio. Abbiamo sofferto nel vedere certe produzioni, soprattutto quando le idee non mancavano, provando a salvare il salvabile – e stroncando ove e quando necessario lo stroncabile (difetti di recitazione e buchi narrativi, in primis). Abbiamo trascorsi serate tra amici e conoscenti a raccontare quante sorprese sappia riservare il cinema di genere, sentendoci fare “spallucce” un numero innominabile di volte. Di una cosa, pero’, potete stare certi: il cinema di genere exploitation non sarà più quello di prima, per voi, dopo aver visto questa opera prima di Raffaele Picchio. Morituris è libero da qualsiasi carattere di amatorialità e mostra che, una volta nelle sale, ogni film può possedere pari dignità: peccato che questo film non abbia avuto questa opportunità, visto che è stato bloccato dalla censura italiana e ne è stata vietata la proiezione in qualsiasi cinema (festival esclusi).

    Un film sporco, violento e destinato a lasciare il segno sullo spettatore, prendendo abbastanza evidentemente ispirazione dal primo Wes Craven (quello del cult L’ultima casa a sinistra), ma andrebbero citati anche L’ultimo treno della notte di Aldo Lado ed il torbido Cani arrabbiati di Mario Bava. Picchio non ama scherzare col cinema, in tutti i sensi: se da un lato infatti mostra una certa maestria nel riprendere (considerando che moltissime scene sono girate al buio), dall’altro evita di virare sui toni da cine-fumetto che tendono, in questi casi, ad ammorbidire il contesto mediante le solite abusate dicotomie Buoni/Cattivi o Indiani/Cow-Boys. Morituris è un horror slasher in cui non devi parteggiare per nessuno, non puoi farlo perchè è un prodotto talmente atipico ed originale da non consentirtelo. Il risultato, certo, potrà sembrare visivamente eccessivo ad alcuni, ma a ben vedere l’insistere sulla violenza (e le accuse di misoginia conseguenti) è un ingrediente necessario, parte dell’intreccio stesso (e della decadenza che condanna), necessario per generare un climax di tensione che giunge all’estremo nella (parecchio emblematica) scena finale.

    La tagline del film è “il male ha la meglio“, ed è così. Non volevamo fare una commedia horror, bensì una metafora surreale di ciò che, realisticamente, producono le azioni malvagie. Quando una bomba nucleare esplode, muoiono tutti (R. Picchio)

    Girato con spirito antropologicamente pessimista (la tagline del film non poteva che essere “evil prevails”) Picchio mostra non solo di conoscere “tarantinamente” il cinema di genere – ed in particolare l’exploitation – ma anche di saperlo rielaborare, usando bene i mezzi a sua disposizione ed esplicitando l’orrore in modo sorprendentemente equilibrato. Nonostante la violenza sia spesso ben visibile (e questo ovviamente, non lo rende un film da guardare “a cena coi parenti“: del resto, quale horror di qualità lo è?), si gioca sapientemente sul “non visto” e sugli sguardi malati (oltre che sulle perversioni) dei protagonisti: no violence for free, at all, per usare le parole del regista stesso, perchè tutto ciò che si mostra è necessario al contesto. Il quadro che ne esce è notevole: non solo i carnefici subiscono un violento contrappasso (che non dovrebbe essere una novità), ma anche le vittime non sono risparmiate da un culto della vendetta assoluto ed al di sopra di tutto, e che si propaga evidentemente da millenni.

    Vagamente ispirato al massacro del Circeo (il terribile fatto di cronaca nera avvenuto nel settembre 1975), Morituris si avvenutra in una storia di violenza girata con taglio quasi documentaristico, cupo e molto realistico, con tre giovani romani che adescano, con la scusa di un rave, due ragazze.  Dopo averle ferocemente violentate, scopriranno un Male assoluto (un gruppo di feroci gladiatori non morti) in grado di colpire con una cattiveria ben più grande della loro.

    Si ibridano nel film due componenti principali: da un lato la exploitation più cruda, dall’altro (abbastanza curiosamente per il contesto) l’horror a tinte sovrannaturali: il risultato di questo intelligente mix è uno slasher efficace, realistico quanto legato alla teatralità mitologica dei gladiatori dell’Antica Roma, ed alla rivolta di Spartaco in particolare. La scelta di attenuare l’elemento revenge dalla storia – che comunque, a suo modo, è presente quanto abbreviato dalle circostanze – è spiazziante, almeno quanto la citatissima sequenza dello stupro con le forbici (tensione allo stato puro). Al tempo stesso, Picchio riesce a non appesantire il contesto, che resta ovviamente più nero della notte ma che mostra qualche accenno di un sentire più vario, dagli aggressori che non capiscono il latino fino all’avviso finale, che ricorda agli spettatori che nessun animale è stato maltrattato in questo film (solo vedendo la scena del topolino, altra sequenza spoilerata senza pietà dal vituperato “popolo del web“, si può afferrare l’ironia).

    Al tempo stesso, al netto delle sproporzionate polemiche da parte di chi aveva stabilito non potesse andare nelle sale (c’è una Commissione Censura che lo ha fatto) Picchio e Perrone sono stati inequivocabili sul messaggio sottinteso (i personaggi non si chiamano mai per nome, perchè rappresentano archetipi universali di umanità; per non parlare del sulfureo in memory of mankind visibile sui titoli di coda), ma non c’è dubbio nemmeno sul contesto narrativo (i protagonisti sono three young, rich-upper class, fascist roman guys pick up two Italian girls), sulla caratterizzazione dei personaggi (la loro doppiezza è inquietante quanto realistica), ed infine sul genere, che è un thriller-slasher a tinte fosche girato quasi come uno snuff (molte riprese in movimento, ma nessun effetto “mal di mare” ed altrettanta perizia nel riprendere e nessuna inutile pornografia della violenza, per inciso).

    Non vi è alcuna speranza di redenzione o di vendetta in Morituris, il che è probabilmente sottinteso nel nome stesso del film: forse è questo, più di tutti, a rendere il film destabilizzante quanto preda di polemiche feroci, spesso da parte di webeti e a volte inappropriate. Certo, probabilmente il film non è perfetto, ma è pur sempre un’opera prima, non presenta momenti di calo, è ben recitato (e questo è un punto a favore considerevole), ma credo in tutta franchezza che farlo passare per uno snuff di bassa lega (come anche testate horror normalmente competenti e sempre sul pezzo hanno fatto) sia fuori luogo quanto profondamente ingiusto. Guardatelo con l’idea di assistere ad uno spettacolo estremo, certo, ma anche ricco di qualità e di idee, ed ovviamente preparatevi a soffrire (nel senso migliore del termine).

    Morituris si trova in DVD su Amazon (la versione che ho linkato è la francese uncut in lingua italiana di 90 minuti, della Elephant Films), mentre quella tagliata ne dura solo 83, ed è uscita per la Sinister Film.

    Nota: le parole del regista sono tratte da una interessante intervista al sito Bloody Disgusting.

  • Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Una squadra specializzata in missioni speciali capitanata da Dutch (Schwarzie) viene inviata in America Centrale, nel bel mezzo di una giungla, per salvare un ministro ed il suo collaboratore rapiti dai ribelli. Scopriranno che le cose non sono esattamente come avrebbero creduto, e che la foresta è popolata da un feroce predatore extraterrestre…

    In breve. Ibrido horror-fantascientifico ambientato nella giungla, che vanta una delle migliori interpretazioni dell’attore austriaco Schwarznegger e si segnala per il debutto dello Yautja, il crudele cacciatore di prede umane: inizia come un film di guerra dai toni ordinari, per poi evolvere in uno dei più cruenti body-count mai visti al cinema. Un culto assoluto per il genere.

    Predator di McTiernan, nato da un’idea inizialmente scherzosa (far combattere Rocky contro E.T.) e presa maledettamente sul serio nello sviluppo dell’intreccio, rappresenta uno dei pochissimi action-horror che non risente dell’età che ha: prese spunto dai film di guerra più in voga all’epoca (Platoon, ad esempio), e rielaborò lo stereotipo dei militari solidali in lotta non contro un nemico umano bensì uno misterioso, extraterrestre, a tratti sovrannaturale. A Schwarznegger, per una volta, viene relegato un personaggio con un buon livello di spessore (ovviamente relativo al contesto di cui si parla), che sarà naturalmente l’eroe indiscusso dell’intera vicenda e del suo indimenticabile finale. La lotta tra umani ed alieno, di fatto, prende inizio da una storia di tutt’altro tipo – una sorta di complotto militare ordito dalla CIA – un intreccio secondario che viene poi letteralmente abbandonato sul posto: non c’è tempo, nè modo, di occuparsene, dato che Predator è già sulle tracce degli umani. Le epiche musiche di Alan Silvestri sono semplicemente perfette a scandire i vari momenti del film, che si alternano tra fasi di meditazione e preparazione alla guerra ed altre di autentica violenza, che in certi momenti esita qualche istante prima di esplodere e mantiene sempre un filo di tensione molto equilibrato e gradevole. Un film essenzialmente d’azione, quindi, nel quale non mancano elementi prettamente horror (i corpi scuoiati, le esecuzioni al limite dello splatter), frammisti ad altri di fantascienza, guerra e più in generale dinamiche da survival movie; del resto la sopravvivenza, il vero leitmotiv del film, è evidenziato splendidamente dalla sequenza in cui il protagonista umano si cosparge di fango per non farsi vedere dall’alieno, coronando uno dei capolavori del genere (quantomeno degli anni 80). Privo di momenti di calo e con personaggi ben caratterizzati, si fa ricordare – oltre che per l’innovativa vista ad infrarossi della creatura aliena – per la figura del rude pellerossa (Billy) – silenzioso, meditativo e molto più sensibile dei suoi commilitoni alle bizzarrie ed ai pericoli della natura. Il male assoluto, l’alieno ostile agli uomini – e con i quali “gioca” esattamente come farebbe un cacciatore con le proprie prede – “el diablo cazador de hombres” fa intuire di esigere il proprio tributo di sangue periodicamente, stilando così i presupposti per un’ennesima saga orrorifica ottantiana, non sempre riuscitissima nella sua evoluzione per quanto subentrata nell’immaginario collettivo da molti anni.

    Un vero masterpiece del genere (nonchè uno dei miei film preferiti in assoluto) che ogni spettatore dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita.

    « Ho paura, Poncho. Laggiù c’è qualcosa in agguato, e non è un uomo. Moriremo tutti.»