FOBIE_ (182 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Mario Bava: oggi ho visto “Lisa e il diavolo”

    Mario Bava: oggi ho visto “Lisa e il diavolo”

    Durante una visita turistica a Toledo Lisa, una giovane turista, si allontana dal gruppo e finisce a visitare un negozio di artigianato, all’interno del quale trova un inquietante figuro dai modi piuttosto gentili (Telly Savalas, il Theo Kojak che tutti ricordano), somigliante tremendamente ad una raffigurazione demoniaca vista in un dipinto poco prima. All’improvviso Lisa sembra ritrovarsi catapultata in un mondo diverso da quello in cui trovava…

    In breve. Un ottimo film dall’atmosfera oscura ed avvolgente, capace di raccontare una storia terribile con grande classe: da non perdere.

    Recuperato solo nel 2004 (fonte), si tratta probabilmente di uno dei film più suggestivi di Mario Bava, che segna un passo importante nella sua cinematografia e che rappresenta per vari versi un vortice di parallelismi, ambiguità e doppi fili che si sveleranno soltanto nel finale. Nel frattempo Lisa, interpretata da Elke Sommer nonchè ovvio archetipo di bellezza “settantiana”, finirà per smarrirsi modello Alice, in una storia in cui i personaggi figurativi di un dipinto sono diventati reali, il marito della protagonista assume le sembianze di un fantoccio e si scomodano vari simbolismi, per l’epoca, piuttosto suggestivi e tutt’altro che scontati (l’orologio che si spacca, la confusione deliberata e mai chiarita tra sogno e realtà). Se è vero che il mutare dell’ambiente attorno alla protagonista lo rende quasi archetipico di molte altre storie di orrore surreale a venire, si aggiunge un immancabile elemento romantico alla storia, capace così di evidenziare un amore impossibile che, neanche a dirlo, sfocerà nella più nostalgica e inquietante necrofilia.

    Non è azzardato pensare, a posteriori, che ad esempio il Fulci più visionario possa essersi ispirato a questa pellicola qualche decennio dopo (L’aldilà e soprattutto Quella villa accanto al cimitero), confermando così un merito artistico enorme per chi, invero modestamente, si definiva un semplice artigiano dell’orrore. Altri personaggi ed ambienti che popoleranno l’intreccio, tra cui la villa labirintica in cui si svolge la maggioranza della vicenda, il figlio succube di una madre autoritaria (e cieca), nonchè la continua ed insistita ambiguità tra vita e morte, conferma “Lisa e il diavolo” come uno dei migliori film del terrore “puri” di Mario Bava (probabilmente solo dopo La maschera del demonio). Alla morte non si sfugge, sembra voler ricordare il regista, come già un anno – con toni più accentuati e da exploitation di quelli gotici visti in questa sede – all’interno di Reazione a catena.

    Il film venne distribuito come “Lisa e il diavolo” (fedele alla volontà di Bava) ma anche, con l’inserimento di scene extra e di un parziale stravolgimento “esorcistico” della trama (per volontà del produttore, e sulla scia del noto film di Friedrick) come “La casa dell’esorcismo“; attualmente esistono due versioni in commercio del film, la prima della RaroVideo che comprende entrambe le version,i e la seconda della Minerva Pictures contenente soltanto la seconda.

    “Ma come posso combatterti se non ti fai nemmeno vedere? Ma dove sei, vigliacco, esci dalle tenebre, fa’ che io ti veda!”

     

  • The human centipede è una cruda metafora socio-politica (forse)

    The human centipede è una cruda metafora socio-politica (forse)

    Uno scienziato pazzo rapisce turisti allo scopo di tentare un singolare esperimento: un centipede umano.

    In breve: difficile dare una valutazione assoluta, tanto il film è in bilico tra un registro indigesto (e fine a se stesso) ed uno, tutto sommato, a suo modo originale.

    Due ragazze americane si perdono in un bosco della Germania, ed incontrano casualmente, invece del principe azzurro, un vecchio chirurgo misantropo di nome Josef (ogni riferimento a personaggi famosi del passato dovrebbe essere tutt’altro che incidentale). Questi narcotizza le due ragazze e le assicura a dei lettini da ospedale, il tutto allo scopo di tentare un incredibile esperimento di chirurgia: realizzare un centipede umano, un gigantesco insetto-umano che coinvolge anche un terzo ragazzo. Non è difficile immaginare come abbia intenzione di collegare i tre sventurati, visto che il suo “sogno” è che la creature disponga di un’unico apparato digerente. L’operazione viene dettagliatamente descritta mediante appositi lucidi alle tre vittime, che tentano ripetutamente la fuga e dovranno alla fine sottoporsi a questa tortura, di cui il lato strettamente chirurgico, descritto con dovizia di particolare, è espressione grottesca e delirante di un destino quasi peggiore della morte.

    Quello di The human centipede è – potremmo dire, senza timore di blasfemia – un sostanziale body-horror, privato della vena filosofica cronenberghiana ed avvolto in una spirale di cinismo e disgusto senza limite: Six riporta la carne alla carne, riduce dei corpi nudi a bestiame da macello e senza, per questo, voler intendere alcun sottotesto sociale (almeno in apparenza, come invece ha fatto A serbian film). Se si volesse parlare di originalità, si potrebbe tranquillamente farlo: il problema è che emergono un po’ di limiti, più che altro concettuali: ok, va bene il disgusto, l’orrore esplicito, la perversione feticista come metafora di sopraffazione, ma serve dell’altro – altrimenti il rischio noia è dietro l’angolo. Anche perchè, pur non volendo fare un horror prettamente politico, resta un dubbio sostanziale ad affliggere le nostre provate menti di cinefili: se è vero che sono esistiti vari mad doctor che praticano chirurgia sadica, lo facevano sempre per raggiungere un obiettivo (per quanto folle o irrealistico potesse essere). In altri termini, a cosa servirà mai un centipede umano se non a fare un film del genere che è diventato anche, negli anni, una saga? Uno dei tanti film che,  in altri termini, dice tutto senza, alla fine, dire nulla, confinandosi in un limbo comunicativo che ti farà chiedere “ma che cazzo ho visto?”.

    Il film scorre inesorabile, con alcune sequenza assurdamente indigeste e si attende la fine del film, con ansia, come una sorta di liberazione. Tom Six non possiede nulla dell’eleganza di Cronenberg, s’intende, tantomeno credo che aspiri a nulla di tipico del canadese, ma qui il problema di fondo è che la storia è totalmente monca, pointless nella sua narrazione e troppo concentrata ad esibire sadismo. “Il centipede umano” non riesce, nonostante tutto, ad essere un film pessimo, e nemmeno a diventare un cult tra qualche decennio (…o magari lo diventerà, chissà). Ripeto, non è un film da scansare come la peste, ammesso pero’ che abbiate lo stomaco di ferro e siate amanti dell’horror più estremo.

    The human centipede è realismo allo stato puro, non ha nulla di favolistico: ci tiene ad essere disgustoso nella sua maniacale descrizione medico-chirurgica, e da’ per scontato (non sappiamo sulla base di quale argomentazione) che la coprolalìa sia una componente fondante della paura. Il regista, peraltro, ha avuto un vero chirurgo come consulente: questo fa molto Cronenberg, ma ripeto: non è un film da cineforum, e basta leggere una mitica intervista al regista che afferma candidamente it’s for fun per capirlo.

    Se poi volete fare gli intellettuali fuori corso all’università, ve ne basti una: due vittime sono americane, una è giapponese mentre il cattivo è tedesco, il che si presa ad una rilettura in chiave storica, precisamente seconda guerra mondiale, il nazismo. Ma poi stop, quando hanno finito di spiegarvi queste cose eravate assenti, in un certo senso: piazzare dei fondali luminescenti, risaltare il camice del medico in un’atmosfera chirurgica e piazzare un’aquila nazista nella sua casa è un po’ pochino per urlare alla metafora simbolista del secolo. È chiaro, quindi, che siamo quasi esattamente sulle stesse sponde che ha voluto toccare un film analogo, per certi versi, quale Grotesque.

    Josef – il medico folle, non spiega perchè agisca in quel modo; sappiamo che è affetto da varie forme di perversioni, di cui quella sadico-feticistica gioca un ruolo da padrone, ma il discorso finisce lì. Nessuna spiegazione ulteriore, nessun flashback o approfondimento. Il centipede spiazza, nella sua semplice e diretta brutalità, e pure parecchio. Il film procede con un’insistenza – quasi compiaciuta – nel mostrare la continua ed interminabile sofferenza delle tre vittime, senza  neanche provare delineare lo spessore dei personaggi coinvolti. Cosa stanno espiando le vittime? Dentro film cruenti come Saw abbiamo il piacere di saperlo, alla fine, qui no: e ci manca solo una bella pernacchia conclusiva, tipo Alvaro Vitali dei bei tempi.

    Il senso di liberazione provato nel finale credo che sia qualcosa di universale, così come il notevole twist che si verificherà poco dopo (il finale merita, ed è il solo motivo per cui non mi sento di bocciare questo film). Così, mentre lo spettatore più sensibile si ritrova con lo stomaco rivoltato, e magari neanche riuscirà a finire di vederlo, quello più propenso all’intellettualismo non troverà pane per i suoi denti. Senso di indefinito, quindi, che poi si materializza nel fatto che siamo lontanissimi dai canoni della black-comedy: c’è poco o nulla da ridere, insomma, a confronto il sadismo di Funny Games è quasi demenziale, e l’unico richiamo che possa venirmi in mente, a parte le citazioni da horror di cassetta anni 70/80, è quello del genere nazi-sexploitation.

    Il centipede umano” è orrore puro, “divertimento” diretto e crudele, che emana la cattiveria del protagonista: perfetto, inumano, detestabile dal pubblico fin dal primo istante, proprio perchè praticamente privo di debolezze ed empatia. Al tempo stesso rimane in una sorta di purgatorio, per cui non si riesce a capire chi si abbia di fronte, e che reazione si possa avere: se si debba ridere, vomitare, urlare al capolavoro, scappare o piangere.

    Nella serie South Park il film è stato parodiato come HUMANCENTiPAD. Nel loro caso, la colpa da pagare è quella di aver cliccato “Accetto” sulle rinnovate condizioni d’uso di Apple. Se non altro, Trey Parker e Matt Stone hanno dato una motivazione.

    Il film horror sul millepiedi umano si presta ad un’analisi sociologica non da poco. Forse

    Nel 2009, il regista Tom Six ha pubblicato The Human Centipede: First Sequence che è stato un appello per i fan del genere solo per il suo concetto. Apparentemente, il film era basato su un’affermazione ironicamente feroce secondo cui ogni molestatore di bambini dovrebbe essere punito in questo modo. La trama ruota attorno a uno scienziato tedesco pazzo che vuole costruire un millepiedi umano unendo diverse persone insieme dalla bocca al fondoschiena.

    Il tutto è stato pubblicizzato con lo slogan “100% medicalmente accurato” che è stato (presumibilmente) confermato da un chirurgo che era presente durante le riprese del film. Ciò che è stato davvero sorprendente è stato il fatto che il Dr. Heiter si comporta in modo così serio e che il film non è poi così spettacolare – il valore dello shock deriva dal perturbante, a nostro parere (la storia è talmente assurda che potrebbe essere vera, anche se poi ovviamente non lo è) dalla recitazione psicotica di Dieter Laser. È un pezzo di cinema disgustoso relativamente intelligente che è stato in grado di schivare, almeno per gran parte, qualsiasi accusa di horror pornografia o, come andava di moda scrivere anni fa, “torture porn”.

    La storia

    All’inizio ci sono le due classiche studente americane in cerca di avventure, ridono e parlano spensieratamente, e non sanno quello che le aspetta. Incontrano così l’orco di turno, Josef (nomen omen), che prevedibilmente le narcotizza per poi legarle ad un letto d’ospedale. Ma non è il sesso, ciò che vuole Josef: vuole creare un singolare esperimento bio-tecnologico in cui le ragazze saranno parte integrante. Un centipede umano sarebbe come un millepiedi composto da almeno tre persone, legate tra di loro con punti chirurgici e in corrispondenza del didietro e della bocca. Non riusciamo a dirlo meglio di così: è una metafora. Di quelle potenti, qualcuno dirà è un po’ trash, certo che lo è, ma è una metafora trash in effetti. La metafora del mondo trash in cui ci tocca vivere, in fin dei conti.

    Lo scopo di Josef – cattivo raggelante nonchè, ci passiate l’azzardo, unico nel suo genere – non è tanto quello di costringere i malcapitati a praticare la coprofagia l’uno dell’altro: è quello di creare nuova vita, come un novello dottor Frankenstein. Con un feticismo così particolare, del resto, non è impossibile pensare ad un’interpretazione socio-psicologica del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui un inquietante Grande Altro ha finito per legarci l’uno a l’alto, rendendoci interdipendenti e costringendoci a collaborare tra di noi. Ma nel mondo in cui viviamo è difficile collaborare, per cui il nostro Io si trova costretto a collaborare alla meno peggio.

    Ci convince, e vorremmo lasciare questa suggestione a chiunque abbia visto il film, comunque ne sia rimasto: disgustato, offeso, raccapricciato, colpito e via dicendo.

    Il film è stato presentato in anteprima al London FrightFest Film Festival il 30 agosto 2009. Ha ricevuto un’uscita nelle sale limitata negli Stati Uniti il 30 aprile 2010. Nonostante un’accoglienza di critica mista, il film ha vinto numerosi riconoscimenti ai festival cinematografici internazionali. Due sequel anch’essi scritti e diretti da Six, Full Sequence e Final Sequence, sono stati rilasciati rispettivamente nel 2011 e nel 2015. L’intera trilogia è stata combinata in un unico film nel 2016, intitolato Complete Sequence, che Six ha descritto come un “millepiedi del film” a causa del fatto che ogni sequenza porta al suo successore mentre lavorava contemporaneamente come film autonomo separato.

  • Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Il capolavoro di Dario Argento, forse la migliore sintesi di tutti i suoi ingredienti orrorifici e di suspance.

    In breve: il capolavoro del giallo-horror, la sua espressione più nota al grande pubblico. Un successo internazionale che consacra Argento come mago dell’orrore e della suspance.

    Magia. Il solo modo per definire oggi “Profondo rosso“, pur rischiando di sconfinare nella più stereotipata e vuota retorica: un capolavoro senza tempo, la summa della perfezione del cinema thriller, che si contamina con l’horror senza dimenticare, come invece accade oggi, le sue radici puramente giallistiche. Ancora adesso osannato dai fan del genere (e non solo) e da parte della critica cosiddetta seria, ivi compresi gli spettatori più smaliziati che ogni volta si divertono ad evidenziare le incongruenze e le ingenuità dei cosiddetti b-movie. Profondo rosso, pur essendo assimilato ad un certo sottogenere horror che non faceva dei budget elevati il proprio punto di forza, non dovrebbe nemmeno rientrare nella categoria essendo, per sua definizione, forma e sostanza, fuori norma.

    Ma qui non si puo’ scomodare la serie B per nessuno motivo: si rischia di fare un torto enorme a quello che diventerà, da questo momento in poi, il guru del cinema “di paura” nostrano. Ancora devo conoscere una persona che osi – è proprio il caso di dirlo – trovare un aspetto discutibile o fatto male in questo autentico masterpiece del terrore: il fiore all’occhiello di Dario Argento, senza dubbio la sua opera più amata e più ricca di sequenza indimenticabili.

    Da un lato viene rappresentata la normale ordinarietà di un musicista jazz (Marcus/Hammings), di una giornalista attratta da lui (Gianna/Daria Nicolodi), di un commissario di polizia che indaga su una morte misteriosa e di qualche altro personaggio apparentemente qualsiasi: dall’altra la sofferenza del debole musicista Carlo, l’identità di un assassino crudele (uno dei più inquietanti mai realizzati nel cinema, a mio modesto parere), l’incontro casuale con il Male della medium (Helga/Macha Merìl) che lo identifica e ne rimane traumatizzata (oltre che uccisa). Altri marchi di fabbri caratterizzanti il giallo: personaggi che pervengono alla verità componendo frammenti di ricordi. Vittime che vengono colpite a morte spaccando, tipicamente, infissi delle finestre.

    Tra le scene di culto: la rassegna di armi del maniaco in primissimo piano su una stoffa rossa, la morte attraverso le schegge di una finestra, la decapitazione con una collana impigliata nell’ascensore, i denti di una vittima sfracellati sullo spigolo di un camino, un pupazzo a molla che preannuncia l’arrivo del maniaco, i sadici colpi di machete sul corpo di una donna, l’ustione con successivo annegamento nella vasca da bagno. Un campionario dell’orrore che culmina con la lucertola trafitta da uno spillo, il disegno murato nella “casa del bambino urlante“, lo specchio “rivelatore” della verità (anche in chiave psicoanalitica: per scoprire la verità dobbiamo guardare dentro noi stessi, anche a costo di rivelazioni dolorose o sgradevoli), una testa spappolata sotto la ruota di una Lancia Beta Cupè, un corpo trascinato da un autocarro Fiat 643: in altre parole il film in toto, nel suo incedere chirurgico, crudele ed incalzante, per la bellezza di due ore di incredibile Cinema.

    Profondo rosso” si sviluppa come una spira velenosa, un serpente affascinante e pauroso al tempo stesso, che avvolge lo spettatore da più parti facendo scattare un gioco di sospetti, di parole non dette, di confessioni mancate, di insospettabili complici intervallati da esecuzioni macabre, violentissime e mai come adesso “artistiche”. Il killer protagonista conduce i personaggi, in parte consapevoli ma comunque schiavi di un Male subdolo ed incosciente, come un mastro burattinaio, creando i presupposti per uno dei più geniali doppi finali mai concepiti dal regista romano. E questi ultimi, fino ad oggi, sono il suo marchio di fabbrica, il motivo per cui Argento è  da considerarsi anche solo di poco superiore, quantomeno in passato, a tutti i suoi diretti concorrenti (Fulci e Lenzi in primis, ma ovviamente si tratta di confronti solo “di facciata” che non vogliono sminuire nessuno).

    Se avete vissuto sulla Luna fino ad oggi e non avete mai visto Profondo rosso (che mi guardo bene dallo spoilerare, nonostante ci sia un’edizione in DVD che brucia il finale addirittura sulla foto di copertina), basta una capatina nel più vicino negozio o videoteca per rimediare e redimervi dal peccato. Se invece avete già visto Profondo Rosso, adesso vi sembrerà di sentire la colonna sonora dei Goblin: la, la, la, lalala…

    10 curiosità sul film

    Esterni girati a Torino

    Nonostante la storia sia ambientata formalmente a Roma, gran parte degli esterni furono girati a Torino. La scena iniziale nel teatro avvenne presso il sss, mentre gli esterni poco prima del primo omicidio sono nell’attuale piazza CLN, Comitato di Liberazione Nazionale (che all’epoca non aveva un nome, e fu sede delle SS durante la seconda guerra mondiale).

    Eccovi alcune foto recenti di piazza CLN (TO).

    Guanti e primi piani

    I primi piani sono all’ordine del giorno in questo film, tanto da risultare come marchio di fabbrica della regia. Le mani dell’assassino mentre indossa dei guanti sono state eseguite da Dario Argento in persona.

    La sequenza a piazza CLN

    Nella scena ambientata nell’attuale piazza CLN a Torino il personaggio interpretato da David Hemmings esce da un bar di notte per incontrare l’amico pianista: il bar è stato realizzato sulla base del famoso dipinto I nottambuli di Edward Hopper.

    Scene tagliate (e recuperate)

    Dopo gli 11 secondi di restauro effettuati nel 1993 per conto della Redemption, il DVD Platinum ha ripristinato la breve scena del combattimento tra due cani precedentemente scomparsa. La famosa scena della lucertola trafitta da uno spillo è tagliata malamente in alcune versioni. Nella maggioranza delle versioni internazionali le scene sono presenti (immagini tratte da movie-censorship.com)

    Ispirazione

    Stando a quanto dichiarato dallo sceneggiatore Bernardino Zapponi l’ispirazione per la realizzazione degli omicidi è stata guidata dal concepire le maniere più dolorose per procurarsi delle ferite. Il presupposto era che il dolore dovuto ad un urto accidentale con un mobile o una scottatura da acqua bollente fosse più familiare con il pubblico rispetto al classico colpo di arma da fuoco.

    …Suspiria 2

    A causa del grande successo in Giappone di Suspiria del 1977, Profondo rosso uscì col titolo Suspiria 2, per quanto tra i due film non ci sia alcun collegamento.

    I brividi di angoscia

    In Francia il film è uscito col titolo “Les Frissons de l’angoisse”, letteralmente “I brividi d’angoscia”.

    Lo store di Profondo rosso

    In via dei Gracchi a Roma (fermata metro più vicina: Lepanto) esiste il Profondo Rosso Store, il negozio ufficiale di Dario Argento (eccolo su Google Maps). Il regista vi organizza a volte eventi in loco e incontri con i fan.

  • Grotesque: Shiraishi e il suo splatter insostenibile

    Grotesque: Shiraishi e il suo splatter insostenibile

    Un chirurgo dagli istinti perversi (oltre che estremamente violenti) rapisce un’innocua coppietta allo scopo di seviziarla senza pietà…

    In breve. La trama è più o meno un pretesto: proporre nel 2009 la non-storia di un folle chirurgo amante del sangue e del sesso, di fatto, rischia di ricalcare i più scialbi clichè del genere: il risultato finale prodotto dal regista Kôji Shiraishi (lo stesso di Noroi – The curse – tutta un’altra storia, per la verità) non è completamente da buttare, ma possiede difetti grossolani e sconfina parecchio nella monotonìa e nella violenza fine a sè stessa. Da guardare con (molta) cautela e considerare, a mio avviso, un esperimento malriuscito – o se preferite, un’occasione persa.

    “Eccitami con la tua voglia di sopravvivere.”

    Grottesco: letteralmente indica qualcosa di “insolitamente deforme e innaturale, bizzarro, inspiegabile e caricaturale al punto tale da andare contro il senso comune, innescando una comicità allibita“. Questa definizione rischia di far sembrare questo monocorde delirio visivo di Shiraishi ciò che non è: ciò che rimane allo spettatore dopo la visione, nella maggioranza dei casi, sarà un senso di scialbo nichilismo oppure – in molti casi – di vuoto disgusto. Un film vietato in Inghilterra, stroncato a mani basse dalla maggioranza della critica e che, effettivamente, non racconta nulla di memorabile: senza contare che, inoltre, l’intento sottilmente sotteso alla storia (contrapporre la solitudine lacerante e psicotica del maniaco al feeling dolce e bambinesco di una coppia al primo appuntamento) è stata un’occasione clamorosamente persa.  Roba per cui, a conti fatti, tanto vale riscoprire Takashi Miike, l’artefice di altrettanto brutali ma ben più feroci e incisivi saggi sull’argomento (Audition).

    Da un lato, quindi, quel titolo si addice brutalmente al tipo di film che viene riprodotto, anche se poi – a ben vedere – c’è poco di caricaturale, mentre fin troppo delle crudissime sequenze sconfina nella pornografia horror (come da definizione: raffigurazione esplicita): non che ci sia qualcosa di immorale in questo a prescindere, per quanto compiacersi della violenza (e del sesso) rappresentato rischi di banalizzare la questione, riducendo il tutto ad un film per voyeur sadicamente incalliti (e non certo per amanti di adrenalina, emozioni forti o simbolismi politico-sociali).

    Anzi, aggiungerei che per ridere di una pellicola del genere (con l’unica eccezione della folle conclusione della mattanza, quella sì tanto grottesca da rivaleggiare con la testa “volante” di Zombi 3) bisognerà avere un innato gusto per l’exploitation più crudele mai realizzata. Quello che si vede all’interno del film, incentrato interamente sulle sevizie ad una giovane coppia da parte di un “mad doctor” piuttosto “scoppiato” (oltre che affetto da perversioni sessuali davvero terrificanti), nonostante la parvenza “fracassona” è poca roba: l’horror non è violenza gratuita, nè gusto di mostrare il non-mostrabile tanto per fare scalpore, e questo va tenuto presente soprattutto se conoscete poco (o nulla) il genere. La componente porn surclassa alla fine quella torture (che è pur massicciamente presente), e riduce i corpi dei due neo-amanti a due carcasse inermi, mutilate, seviziate ed umiliate in tutti i modi possibili senza un vero motivo: ecce homo, questo è Grotesque, ed è inutile rigirare diversamente la questione. È chiaro che un film del genere rappresenta un caso piuttosto limite (anche se non certo l’unico) di gore continuo, incessante e – nel caso specifico – apertamente fine a se stesso: l’effetto grottesco, paradossalmente, rischia pero’ di perdersi del tutto, con l’ovvia reazione di sdegno da parte di critica e pubblico che lasceranno – secondo me in 8 casi su 10 – disgustati la sala. Eppure, condensando la pellicola ad esempio in un cortometraggio –  e risparmiandosi scene piuttosto inutili e “di cassetta” come la solita motosega da chirurgo (!) e la terribile sequenza di forced masturbation – sarebbe potuto risultare un film più valido ed incisivo: cosa che “Grotesque“, a conti fatti, non riesce ad essere.

  • Blood Feast è stato il primo horror splatter mai girato

    Blood Feast è stato il primo horror splatter mai girato

    Un donna di Miami si reca in un ristorante esotico per organizzare un banchetto per la figlia: non sa che il venditore è uno psicopatico che usa smembrare corpi di donne per allestire sacrifici umani, in onore della dea Ishtar (mesopotamica, ma spacciata per egizia nel film).

    In due parole. Blood Feast dovrebbe essere visto da qualsiasi appassionato di splatter e, probabilmente, da nessun altro: con sano gusto vintage (siamo negli anni 60) rappresenta morbosamente la contrapposizione tra il mondo perbenista dell’America e la ferocia assassina di un insospettabile maniaco. Le scene gore sono inusualmente forti per l’epoca, fino a confezionare un buon grindhouse con molta forma e poca sostanza.

    Girato a Miami in soli nove giorni, con costo complessivo di circa 25.000 dollari, fa riferimento fin dal titolo al “banchetto di sangue” egizio effettuato tradizionalmente 5.000 anni fa, il quale prevedeva non soltanto il sacrificio di una sacerdotessa, ma anche un vero e proprio atto di cannibalismo. Lewis riesce a mettere assieme dettagli disgustosi ed una trama piuttosto esile per produrre quello che viene considerato universalmente il primo splatter della storia: violento, sgradevole ed esteticamente perfetto. Gli effetti speciali sono davvero impressionanti per un film dei primi anni 60, ed il sangue scorre a fiumi in un rosso vivido che ricorda – a partire dai titoli di testa – più quello della vernice colante che altro. Esagerata e grottesca (ma per nulla divertente) la rappresentazione del gore, con punte di esagerazione a partire dal macabro dettaglio con cui viene reso il sezionamento del killer, perennemente con gli occhi di fuori ed attentissimo a prelevare un organo differente da ogni vittima. La violenza dell’assassino è pari probabilmente solo a quella del “paperino” de Lo squartatore di New York, una “mazzata” del cinema anni 80 amatissima dai fan ed accusata più volte di compiaciuta misoginìa. Qui il Bene finisce per trionfare, ed in un modo che più ovvio non si può, mentre passa la sensazione sgradevole di un’America puritana che sembra guardare con sospetto agli stranieri titolari di ristoranti, immaginati come soliti cucinare essere umani e servirli come vivande. Un razzismo velato, forse del tutto involontario, che non è comunque mai troppo fine a se stesso, e che si presta a voler rassicurare il pubblico ad ogni costo nonostante l’efferatezza della maggioranza delle scene.

    Per appassionati e curiosi dei meandri splatter è semplicemente una chicca del suo genere.