MIGLIORI FILM_ (32 articoli)

Le pellicole più originali, controverse o imprevedibili che siano state girate.

  • Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Durante una serie di traffici illeciti nella Milano anni 70 una valigia piena di soldi scompare nel nulla. “L’americano”, un potentissimo boss locale (riferito con “amici influenti in alto, gente senza scrupoli in basso“), vuole vederci chiaro e inizia una ricerca del denaro, che si concluderà con conseguenze inaspettate.

    In breve. Poliziottesco cult, imperdibile. Per Tarantino è uno dei noir più epici del cinema italiano.

    Il film

    Fernando Di Leo firma uno splendido poliziesco a tinte noir che vede protagonisti attori del calibro (neanche a dirlo) di Barbara Bouchet, Mario Adorf ed un ambiguo Gastore Moschin, uno dei beffardi Amici miei di Monicelli.  L’azione si sviluppa in una Milano diremmo romanzesca, che vuole sembrare culla esclusiva del crimine organizzato e dove la polizia sta a guardare il proliferare di delinquenza e pacchi bomba in pieno giorno. Nel frattempo, con toni un po’ moralistici, un po’ di maniera, il nuovo vice-commissario (che sarà presto trasferito) non perde occasione per mettere l’accento sul sistema repressivo dello stato, sulla ricerca di capri espiatori facili e sulla giustizia sommaria che sembra accomunare polizia e criminalità.

    Moschin (alias Ugo Piazza) interpreta un personaggio indimenticabile: se da un lato favorisce l’identificazione con il “buono” della storia da parte del pubblico, dall’altro si mostrerà cupo e privo di scrupoli alla fine. E questo finisce per renderlo un personaggio cult, in definitiva. Meravigliosamente sexy nella parte della “femme-fatale“, dal canto suo, la Bouchet si mostra nella famosa scena della lap-dance vestita di sole perle, e Di Leo indugia su questo molto più del necessario, con sommo gaudio della parte più voyeouristica del pubblico.

    Da ricordare inoltre che una delle scene più crude (l’aggressione con il rasoio all’uomo dal barbiere) è rimasta nell’immaginario dei cineasti a tal punto da avere ispirato Tarantino, a quanto pare, nell’omologo taglio delle orecchie nel suo Le iene.

    E’ il secondo film del genere che ho storicamente avuto occasione di vedere, dopo Milano odia: in entrambi, probabilmente, la componente spietata dell’essere umano si sublima in un turbine di colpi di scena, mostrando inevitabilmente l’aspetto più animalesco dell’essere umano. Il pubblico riesce davvero a palpare la paura in varie situazioni, come nel momento in cui il figlio del barista esita prima di colpire a tradimento, come chi ha visto il film dovrebbe ricordare molto bene.

    Accerchiamento di Ugo Piazza

    Narrativamente parlando, Milano Calibro 9 è incentrato sull’accerchiamento paranoico di Piazza (Gastone Moschin) da parte sia della polizia – che lo fa pedinare – che del personaggio di Rocco, capofila del crimine organizzato convinto che i soldi scomparsi li abbia presi lui.

    La continua negazione da parte del suo personaggio riesce a convincere, di riflesso, anche il più navigato spettatore della sua innocenza, innescando un meccanismo molto simile a quello presente per il personaggio di Ugo Cucciolla in Cani arrabbiati: il twist finale è quasi analogo, per quanto nel film di Di Leo (soggetto tratto da un romanzo cult di Scerbanenco, per inciso) sia addirittura portato all’ennesima potenza.

    Milano calibro 9 e la sua valenza politica

    Mercuri… ma tu forse forse ce l’hai coi ricchi.

    Nonostante le apparenze di film puramente reazionario e “muscolare”, Milano calibro 9 è intriso di critica sociale: sull’amnistia, ad esempio, che è il punto di partenza della narrazione (Ugo Piazza esce dal carcere per questo motivo). Ma anche sulla condizione delle carceri italiane, in cui esiste una situazione problematica e si mette sociologicamente in dubbio – per bocca del “poliziotto buono” Mercuri, interpretato da Luigi Pistilli – la sua efficacia. Fernando Di Leo ha in seguito ammesso che, con occhio critico, le scene in Questura tra il Commissario “fascista” e il “comunista” Mercuri finivano per togliere forza alla storia principale. Ma il lavoro attoriale era così buono che optò per non farlo, alla fine.

    Resta anche da considerare che l’aspetto narrativo della trama, incentrato sulla figura sinistra de L’americano, è anch’esso fortemente politico: è un boss invischiato con i piani alti della politica, per quanto la cosa venga solo citata continuamente e non esplicitata, costringendo il pubblico a riflettere sulla sua natura e sull’ambiguità dei “buoni” e dei “cattivi” della storia.

    La morte di Frank Wolff

    L’attore Frank Wolff – già visto ne Il grande silenzio, ad esempio – muore tragicamente nel 1971, poco dopo aver completato le sue scene, suicidandosi a causa di una probabile depressione di cui soffriva da tempo. Il suo doppiaggio in inglese venne completato da Michael Forest.

    In definitiva, uno dei migliori polizieschi noir mai prodotti, assieme a Tony Arzenta ed alla maggiorparte dei film di Umberto Lenzi.

  • Tesìs: il film che racconta il commercio dei film snuff

    Tesìs: il film che racconta il commercio dei film snuff

    Una studentessa spagnola sta realizzando una tesi sull’estremizzazione della violenza negli audio-visivi: finirà coinvolta in una singolare storia di commercio clandestino di snuff-movie.

    Tesìs è un film molto interessante dal punto di vista narrativo, in cui la presunta faccenda dei filmati amatoriali che mostrano violenza e morte reale di vittime umane diventa un pretesto per proporre una forte critica al voyeurismo dei media e, soprattutto, degli spettatori stessi. Abituati a tonnellate di orrori che i media usano proporre spesso senza filtri e mezzi termini, Amenàbar – qui al suo esordio cinematografico – si rivolge a tutti noi, e riesce a riassumere in due ore tutte le angosce e la morbosa voglia di guardare che accomuna gli esseri umani.

    All’inizio del film, in effetti, è riassunto in pochi minuti quello che è lo spirito principale dell’opera: i passeggeri di un treno, tra i quali la protagonista Angela (Ana Torrent), vengono fatti scendere ad una stazione poichè una persona è appena finita sotto lo stesso. I passeggeri vengono fatti uscire ordinatamente in fila, ma quasi nessuno di loro – protagonista inclusa – puo’ fare a meno di cercare di carpire qualcosa del macabro scenario appena accaduta, provando a sbirciare al di là della zona interdetta.

    E’ questo, in definitiva, l’interrogativo che si vuole porre all’interno di Tesìs: non tanto comprendere se gli snuff siano un fenomeno vero o inventato, quanto chiedersi perchè le persone cerchino questo genere di opere. E la risposta sembra essere legata alla stessa natura umana, insensatamente e pessimisticamente crudele. L’effetto straniante dell’assistere alla “morte in diretta” viene presentato in modo molto ambiguo a partire dalla stessa protagonista: la brava ragazza della porta accanto, per la quale il regista non puo’ fare a meno di sottolineare il suo guardare-non guardare, il suo rifiutare la violenza visuale di quelle crude (e realistiche) immagini ma esserne, al tempo stesso, fortemente attratta. E’ vero che le immagini le serviranno per la ricerca ma, in fondo, sembra quasi che le brami solo per se stessa. Cosa peraltro molto ben delineata dalla sua doppia attrazione sia verso Chema, suo collega misantropo appassionato di cine-gore (ed in possesso di svariati e violentissimi mondo-movie), che verso il “normale”  Bosco Herranz, prototipo di bullo da college.

    Un film davvero notevole, senza mai un calo di tono e che riesce a farsi seguire con grande attenzione, rivelando alla fine uno scenario che vuole un professore della scuola di cinema coinvolto nei fatti: perchè, dice a più riprese, l’unico modo per salvare il cinema è dare al pubblico ciò che vuole (che è anche una celebre affermazione di Joe D’Amato: “Quello che noi abbiamo sempre cercato di fare è stato dare al pubblico quello che il pubblico voleva. Con passione ed entusiasmo. E senza un filo d’ipocrisia“). Il tono del film, comunque, non è mai inquisitore o moralistico, nè tantomeno accondiscendente: lo sguardo della telecamera non mostra mai più che un accenno ai presunti snuff, e il più delle volte limita la sua rappresentazione alle espressioni disgustate – o soddisfatte! – dei protagonisti che, loro malgrado, osservano. Bello anche il finale, geniale nella sua impostazione per un film davvero senza alcun vero difetto.

    Sul mondo degli snuff, del resto, andrebbe aperto un articolo a parte, e a tale riguardo mi sembra interessante l’analisi effettuata da Snopes che li declassa a mera leggenda metropolitana.

  • Sleepaway Camp: lo slasher di culto dal finale a sorpresa

    Sleepaway Camp: lo slasher di culto dal finale a sorpresa

    Otto anni dopo la morte improvvisa di parte della sua famiglia, l’introversa Angela viene mandata in campeggio col cugino Ricky; saranno entrambi vittime predestinate di bullismo da parte degli altri ragazzi. Un killer si aggira nel campeggio, nel frattempo…

    In breve. Cult del terrore, per appassionati del genere e pochissimi altri, ampiamente ispirato al cinema di genere di qualche anno prima; sarebbe un epigono come tanti, se non fosse per un finale sui generis.

    La suggestione che si tende incosciamente a fare, in questi casi, è legata ai “film horror con ragazzi in vacanza”, fino ad arrivare al celebre Venerdì 13: questo per via di alcuni elementi del film che sono effettivamente comuni (il campeggio, l’assassino in soggettiva che diventerà villain di una saga, la paura irrazionale dell’acqua, la sessualità controversa), per quanto Sleepaway camp sia, a conti fatti, un prodotto sostanzialmente diverso. A dirla tutta, un b-movie di qualità non paragonabile al lavoro di Cunnigham, per quanto finisca per tributare più un genere ampio che un singolo film nello specifico.

    Del resto gran parte della sua popolarità (inedito in Italia, e disponibile in DVD con sottotitoli italiani su box di lusso) deriva dall’incredibile hype generato dal web, mediante articoli entusiastici (complex.com) per quanto – a conti fatti, ed al netto dei vari seguiti girati – si riconduca quasi esclusivamente allo shockante finale. Non c’è dubbio, quindi, che Sleepaway Camp sia un horror nella media del periodo e del genere, lontano dal capolavoro ma con un suo perchè, e soprattutto destinato ad un pubblico “ggiovane” e familiare, se possibile, con una realtà tipicamente americana (i campeggi estivi dove le famiglie inviavano, e probabilmente inviano anche oggi, i propri figli in vacanza). Probabilmente proprio questa realtà fatta di teenager e ninfette che fanno molto Porky’s lo ha allontanato dalle prospettive di chi, a suo tempo, avrebbe potuto portarlo nelle sale italiane; scetticismo forse a ragion veduta, che rende comunque godibile il tutto al patto di considerarlo quello che è: un thriller a basso costo a forti tinte slasher, con qualche omicidio sopra la media, un cast giovanissimo ed un segreto che si svelerà solo negli ultimi minuti.

    Si introduce infatti nell’apparente normalità della situazione la presenza di un killer, che agisce in prima persona: il che rientra anch’esso nella standardizzazione dello slasher e che, anzi, risulta quasi fuori tempo e fuori moda rispetto al periodo, mostrandosi chiaramente solo nel finale – e che finale! A parte questo, è impossibile non rilevare qualcosa che non quadra a livello di intreccio, specie la credibilità dell’avere un singolo assassino motivato, peraltro, dallo scaricare la propria rabbia e frustrazione sui bulli del camp. Questo ha portato addirittura ad ipotizzare che di assassini ce ne siano due, ma credo che scomodare una teoria del genere sia – se non altro – azzardato e mi convince poco, per quanto effettivamente risolva qualche incongruenza di fondo. Trascurabile, in ogni caso, rispetto alla sostanza del film stesso, che resta godibile in ogni senso seppur con qualche momento di “fiacca”.

    Sulla conclusione del film, quei magici 60 secondi che non sto qui a raccontare (“spoilerare“) per l’ennesima volta – anche solo per differenziarmi dalla massa di webzine e blog che l’hanno impunemente svelato – ci sarebbe da dire parecchio; a mio avviso l’effetto è notevole, ma resta vero che lo spettatore abituato a vedere film del genere (e con una certa familiarità con i colpi di scena alla Argento, per intenderci) potrebbe aspettarsi ed anticipare il tutto qualche tempo prima. Del resto è impossibile continuare a parlarne senza raccontare tutto, ed ha anche poco senso (come mi pare facciano alcuni) astrarlo dal contesto del film stesso: certamente non è un capolavoro – ma è cult, e tanto basta. Il finale di Sleepaway camp vale, come si sarebbe detto all’epoca, da solo il prezzo del biglietto, ma impallidisce rispetto al resto del film – a confronto, mediocre – e crea uno sbilanciamento a mio avviso troppo pronunciato; il rischio, di fatto, è che molti abbandonino la visione prima della fine, ed è un paradosso notevole visto che l’idea risolutiva è a suo modo geniale ed irrazionalmente spaventosa. Con un gioco di lento accrescimento della tensione al limite del subdolo, e con qualche succitato calo di ritmo, Hiltzik crea uno slasher diretto e sostanzialmente efficace, che sembra dovere più di qualcosa al cinema anni 70 senza disdegnare, a riguardo, riferimenti a certo cinema italiano, che era solito anch’esso – come viene fatto per Angela – mostrare scene oniriche per raccontare la psicologia dei personaggi (Tutti i colori del buio), che non risparmiava allo spettatore il sadismo di certe sequenze (l’uccisione con l’alveare sarebbe stata degna di Argento o Bava) e che – soprattutto – era solito, specialmente nei gialli, basare l’efficacia delle storie sulle ambiguità e sugli “scambi” di personaggio.

    Hiltzik sembra aver preso quasi tutto da qui, dal cinema di genere di un decennio prima, ed il risultato si fa apprezzare per quello che è: un discreto slasher con alti e bassi, ed un sano pugno nello stomaco conclusivo.

  • Dillinger è morto: tra sociologia, autorialità e politica

    Dillinger è morto: tra sociologia, autorialità e politica

    Un uomo torna a casa ed inizia a prepararsi la cena: cercando gli ingredienti trova una vecchia pistola arrugginita, che inizia a ripulire e rimontare con cura.

    In breve. Sintetico, enigmatico, semplice nell’impianto quanto ricco di simbolismi e metafore. Una delle espressioni forse più significative di cinema d’autore italiano, in cui succede molto meno di quanto la durata suggerisca ed in cui, soprattutto, ci si concentra sui messaggi socio-politici da lanciare allo spettatore.

    Distribuito per la prima volta al Modern Museum of Art di New York nel 1970, Dillinger è morto è un’opera complessa da analizzare quando semplice nel suo svolgimento: si racconta la serata-tipo di un designer industriale – elegante raffinato ed amante dell’arte – e del suo rapporto con le donne. Un rapporto che, dopo aver visto il film, sembra vivere di pura contemplazione e di assenza quasi totale di contatto fisico con le stesse. All’epoca si parlò di vera e propria political art, visto che l’intero film sembra essere una metafora della società moderna, della schiavitù e del senso di oppressione che induce sugli individui. All’inizio, infatti, vengono apertamente citate le teorie di Herbert Marcuse, a cui il protagonista sembra essere interessato (le maschere antigas come filtro dell’individuo dai veleni moderni, le quali pero’ inducono, come effetto collaterale, ad una macabra omologazione).

    Durante il film, in momenti imprecisabili, sembra avvenire una vera e propria regressione infantile di Glauco, che inizia a giocare con i piccoli dettagli della sua casa (gli oggetti che trova nel cassetto, i pezzi della pistola trattati come fossero ingredienti della sua cena, le immagini proiettate delle donne con cui presumibilmente ha avuto una relazione): il tutto mentre la compagna sussurra pochissime parole, per poi cadere in un sonno profondo. Non finisce qui: arriva anche la domestica di Glauco, con cui sembrerebbe avere una relazione fredda e formale – che poi, inaspettatamente, si consuma in un gioco erotico voyeuristico quanto fiacco (la sequenza con il miele spalmato sul corpo della donna). Nel mentre, Glauco prepara meticolosamente la propria cena e, cercando gli ingredienti, si imbatte in una vecchia pistola incartata in un quotidiano che annuncia in prima pagina la morte del gangster Dillinger.

    Ad una prima analisi, trattandosi di un lavoro complesso (per non dire enigmatico), si potrebbe affermare che Dillinger è morto fu un film disposto più ai pareri favorevoli della critica che ai gusti del pubblico. Critica che, ad oggi, a differenza al passato, probabilmente finirebbe per stroncarlo senza appello, data la pesante presenza di metafore di natura artistico e letteraria, quasi sempre difficili da decifrare quanto emblematiche (ad esempio il protagonista ammicca ad un quadro futurista poco prima di sparare alla moglie).

    Del resto Ferreri (noto soprattutto per la regia del cult La grande abbuffata) possedeva questa natura provocatoria, intellettuale e controcorrente, che lo rendevano non propenso a farsi amare incondizionatamente da chiunque. Il tutto grazie alle sue trame claustrofobiche, rallentate e fortemente teatrali (si indugia sui gesti degli attori molto più di quanto avverrebbe nel cinema espressionista, per intenderci) ed in cui è facile, ancora oggi, smarrire il focus durante la visione. Nonostante questo, il film presenta un aspetto pregevole ed è recitato con grande intensità – soprattutto da Piccoli, abile nel rendere il proprio personaggio indecifrabile, affascinante ma anche inquietante.

    Se si volesse trovare un difetto nel film, osannato come capolavoro un po’ da chiunque (col sospetto che questi ultimi abbiano semplicemente la presunzione di averlo capito), diremmo che certi passaggi rischiano di essere poco comprensibili – per non parlare di una potenziale autoindulgenza del regista (un rischio inevitabile, per resto, quando si girano film sperimentali). Questo avviene soprattutto del finale, in cui il protagonista salpa per Haiti facendosi accettare come cuoco dalla proprietaria dello yacht (Carole André): probabilmente a simbolo di un’avvenuta fuga dalla gabbia in cui si trovava.

    Come in un saggio filosofico o sociologico, il regista (autore anche di soggetto e sceneggiatura, in questa sede) firma un’opera in cui volutamente non succede quasi nulla, per mostrare la decadenza e l’impotenza di un borghese medio che si ritrova, suo malgrado, perso in mille giochi futili: una preparazione interminabile della cena, l’osservazione passiva di corpi femminili con i quali non sa, non può o non riesce ad interagire più di tanto, il montaggio ossessivo e paziente di una vecchia pistola (una Bodeo modello 1889 di tipo A), la visione compulsiva di filmini amatoriali (forse delle proprie vacanze in Spagna) e di bizzarri giochi mimici con le mani (curati dall’artista dell’animazione Maria Perego, nota per aver inventato assieme al marito Federico Caldura il personaggio di Topo Gigio).

    Da notare, poi, l’insistenza delle riprese sul colore rosso: il protagonista indossa un camice da cucina di questo colore, la corrida a cui assiste nel filmino è nota per il telo rosso, c’è anche il rosso su cui virano i fotogrammi nel finale, senza dimenticare l’onnipresente pistola che viene colorata con vernice rossa a pois bianchi. Del resto, nella vera storia del gangster Dillinger, la donna che contribuì a farlo trovare (Ana Cumpănaș) fu nota come Woman in red, un nome scelto dalla polizia americana perchè fosse facile da distinguere grazie al colore del vestito. È facile immaginare che, per la critica dell’epoca, questa ossessiva ripetizione cromatica si prestasse ad interpretazioni prettamente politiche quanto prevedibili (il film è uscito un anno dopo il ’68), e sulle quali il pubblico trovasse (si spera!) spunti di riflessione.
    La moglie di Glauco è interpretata dall’ex groupie dei Rolling Stones Anita Pallenberg, interprete di molti altri film del periodo e nota soprattutto per la sua relazione con Keith Richards. Il film è disponibile in DVD Criterion e in streaming su RaiPlay.
  • Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più crudele; i sospetti di infedeltà coniugale, poi, la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime,  se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.