DENTRO_ (101 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Simulare simulacri: guida pratica allo scambio simbolico di Baudrillard

    Simulare simulacri: guida pratica allo scambio simbolico di Baudrillard

    In italiano, la parola “simulacro” deriva dal latino “simulacrum“, che significa “immagine” o “rappresentazione”. “Simulacrum” a sua volta è composto da “simul”, che significa “allo stesso tempo” o “insieme”.

    In origine, il termine si riferiva a una rappresentazione o immagine di qualcosa, come statue o idoli. Nel tempo, il significato di “simulacro” si è ampliato per includere non solo rappresentazioni fisiche ma anche imitazioni che non riflettono necessariamente la realtà. In ambito teorico o filosofico, un simulacro può riferirsi a una rappresentazione che ha preso il posto della realtà stessa o che è considerata più reale della realtà originale. Nell’informatica, un classico simulacro può essere considerato ad esempio una videochat.

    Come aveva provato a spiegarci tempo fa un’intelligenza artificiale, Baudrillard sostiene che la realtà sia modellata dal linguaggio (in parte sulla falsariga di Lacan), e concepisce lo scambio simbolico come uno scambio di merci in funzione puramente simbolica. Questo, in altri termini, significa che gli oggetti hanno valore in funzione del prestigio o l’appartenenza che conferiscono e non della loro reale utilità. Alla lunga, lo scambio diventa fuorviante e può trasmettere un’idea o un’immagine distorta della realtà.

    Iperrealismo

    Per Baudrillard il reale e l’immaginario non sono distinguibili, per cui finisce tutto per spostarsi sul piano dello (scambio) simbolico. Il lavoro, radicalmente, è una morte lenta e inesorabile per l’uomo in contrapposizione a quella veloce e violenta che avviene realmente. Reale e virtuale sono talmente similari che il reale è collassato nell’iperrealtà: passando di medium in medium, infatti, il reale si dissolve progressivamente, diventando un reale che somiglia a se stesso e provoca una autentica vertigine di simulazione realistica.

    Se il reale è ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente, ovvero risponde al principio di riproduttività, l’iperreale si troverà dentro una simulazione, un simulacro di terzo ordine.

    Simulacri

    Il concetto di simulacro assume un significato differente a seconda del livello a cui fa riferimento, ma potrebbe farsi risalire a Lucrezio (1 secolo AC), che nell’opera De rerum natura definisce i sottili veli che ricoprono le cose come forma e apparenza, per l’appunto, come simulacri. Se in senso lato un simulacro è una forma di modello per una macchina, con particolare riferimento alla sua forma esterna

    Nella dottrina epicurea, esposta da Lucrezio (sec. 1° a. C.) nel IV libro del De rerum natura, pensare ai simulacri significa credre in una dottrica per cui dalle cose si staccherebbero dei sottili veli atomici, del tutto identici alle cose, i quali, venendo in contatto con i sensi, determinerebbero sia le percezioni sia i sogni. Nella tecnica, modello al vero di una macchina o di una parte di essa, generalmente riproducente la sola forma esterna.

    Simulacri di primo, secondo e terzo ordine (Baudrillard)

    Vengono chiamati da Baudrillard simulacri

    • del primo ordine quelli legati al concetto di contraffazione, risalenti all’epoca classica,
    • di secondo ordine quelli legati alla produzione (età industriale)
    • del terzo ordine quelli relativi alla modernità.

    La tecnologia e la conseguente tecnocrazia sono già presenti da tempo, radicati nella società, e si fondano sui simulacri dell’organizzazione statale, scolastica e via dicendo.

    I simulacri di terzo ordine sono, infine, veri e propri modelli di simulazione, governati dal principio di digitalità e rispondenti alla logica binaria basata su 0 e 1. La stessa che Leibnitz chiamava “l’eleganza mistica del sistema binario” non introduce solo un codice di rappresentazione, come l’informatica teorica ha sempre insegnato: è un vero e proprio spirito di fondo, che crea sistemi automatici di domanda e risposta in cui non esistono sfumature, e tutto è bianco/nero, pro/contro e via dicendo.

    L’ordine neocapitalistico cibernetico

    Il medium è il messaggio. (McLuhan)

    Si fonda così un “ordine neo-capitalistico cibernetico” (concetto poi ripreso da Nick Land) in cui la digitalità assilla tutti i messaggi, ed appare soprattutto in forma di test e/o sistema domanda/risposta, prettamente binari ed in cui non esistono terze o quarte possibilità: ne esistono soltanto due, 0 e 1. La logica binaria diventa, secondo Baudrillard, l’essenza della modernità.

    Il sistema di terzo ordine è infido, secondo Baudrillard, perchè induce instantaneità di giudizio, si pone come sistema di test perpetuo per l’utente umano. Gli stessi messaggi inviati e ricevuti nel sistema non hanno più un ruolo informativo, bensì di test e sondaggio degli utenti.

    L’oggetto non è più funzionale, non vi serve – scrive Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte –  semmai vi sottopone ad un test. Il test, di fatto, serve a tradurre ogni conflitto o problema complesso in un gioco di dualità forzato, in cui sarai sempre pro-zero oppure pro-uno (oppure, dualmente, contro-zero / contro-uno). Lo schema binario di domanda e risposta disarticola ogni discorso, introducendo una logica di realtà di tipo iper-reale. I sondaggi ad esempio fanno riferimento pertanto al simulacro dell’opinione pubblica e “manipolano l’indecidibile“.

    Ciò provoca una circolarità totale, perchè gli interrogati si dipingono sempre come la domanda li immagina e li sollecita ad essere, [il che diventa] una modalità di profezia che si autoavvera (per l’accelerazionismo, una iperstizione).

    Automi e robot

    la contrapposizione tra automi e robot è fondamentale in Baudrillard: i primi afferiscono ai simulacri del primo ordine, e ancora a questo stadio assumono una differenza o una faglia tra reale e simulacro.

    Nello specifico, l’automa è una contraffazione del reale, mentre il robot lavora in automatico e rappresenta un simulacro di secondo ordine, in grado di liquidare il reale ed annullare la divergenza tra i due livelli (realtà e simulazione).

    Foto di copertina: Baudrillard di fronte ad un simulacro simile ad uno smartphone, in versione cyberpunk (generato da StarryAI)

  • Storia di un topo soggettivista

    Storia di un topo soggettivista

    C’era una volta un topo di nome Max, che viveva in una gabbia di laboratorio. Max era un topo particolarmente curioso e intelligente, e passava gran parte delle sue giornate a esplorare ogni angolo della sua gabbia. Un giorno, notò una leva metallica attaccata a una delle pareti. Dopo un primo momento di esitazione, decise di avvicinarsi e di premerla.

    Con sua grande sorpresa, non appena la leva venne premuta, apparve lo sperimentatore umano, portando con sé un piccolo pezzo di formaggio. Max mangiò il formaggio con gusto, riflettendo su ciò che era appena accaduto. Non poteva sapere che lo sperimentatore aveva programmato l’esperimento per studiare il comportamento di rinforzo positivo.

    Nei giorni seguenti, Max continuò a premere la leva, e ogni volta l’umano arrivava con del cibo. Max pensava:

    Ho addestrato bene il mio sperimentatore! Ogni volta che premo questa leva, lui viene e mi porta del cibo!

    Così, dal punto di vista di Max, la punteggiatura degli eventi era chiara:

    1. Max preme la leva.
    2. Lo sperimentatore arriva.
    3. Max riceve il cibo.

    Max non poteva immaginare che il suo comportamento fosse il soggetto di uno studio scientifico. Per lui, era evidente che fosse lui ad aver addestrato l’umano. Questo schema era la prova del suo successo nel manipolare l’ambiente e le creature attorno a lui. Ogni volta che aveva fame, premeva la leva con determinazione, e ogni volta, puntualmente, lo sperimentatore si affrettava a fornirgli il pasto. Max pensava di aver scoperto un grande segreto sul comportamento umano: “Gli umani sono così facilmente addestrabili!”

    Dall’altra parte della gabbia, lo sperimentatore osservava attentamente e prendeva nota dei comportamenti di Max, pensando tra sé:

    Il topo sta imparando a collegare l’azione di premere la leva con la ricompensa del cibo. Il nostro esperimento sta procedendo bene.”

    Lo sperimentatore vedeva la punteggiatura degli eventi in modo diverso:

    1. Il topo preme la leva come risposta a un condizionamento.
    2. Il cibo viene dato come rinforzo.
    3. Il topo impara a ripetere il comportamento.

    Ogni giorno, lo sperimentatore annotava i dati e rifletteva sui risultati, convinto che il topo stesse imparando il comportamento desiderato. Max, nel frattempo, si sentiva sempre più sicuro delle sue capacità di addestramento:

    “Devo solo premere questa leva e l’umano mi darà del cibo. Sono un vero maestro!”

    Un giorno, lo sperimentatore decise di introdurre una variazione nell’esperimento. Decise di ritardare leggermente la consegna del cibo dopo che Max avesse premuto la leva. Max premette la leva come al solito, ma questa volta, il cibo non arrivò immediatamente. Inizialmente confuso, Max premette la leva diverse volte, pensando di aver fatto qualcosa di sbagliato. Dopo un po’, il cibo finalmente arrivò. Max rimase perplesso, ma alla fine pensò:

    “Forse l’umano aveva bisogno di più tempo per capire cosa volevo. Devo essere più paziente con lui.”

    Dall’altra parte, lo sperimentatore notava con interesse come il comportamento di Max stesse cambiando. Il ritardo nella consegna del cibo stava influenzando la frequenza e l’intensità con cui il topo premeva la leva. Il topo sembrava essere più insistente, come se cercasse di “comunicare” meglio con lo sperimentatore.

    La percezione degli eventi è soggettiva.

    La punteggiatura degli eventi può variare a seconda del punto di vista dell’osservatore.

  • Un’introduzione all’iperstizione

    Un’introduzione all’iperstizione

    (l’intervista che segue è stata tradotta da lipercubo.it ed è tratta dal sito orphandriftarchive)

    Delphi Carstens intervista Nick Land.

    Anno 2009.

    Nella seguente intervista Nick Land risponde ad alcune domande sui meccanismi dell’Iperstizione nel contesto dell’apocalisse – un tema leggero – giusto per cominciare col botto.

    Q1. Potresti approfondire cosa c’è di occulto… cosa sarà rivelato dall’apocalisse?

    R1. Ciò che è nascosto (l’Occulto) è un ordine del tempo estraneo, che si tradisce attraverso “coincidenze”, “sincronicità” e indicazioni simili di una disposizione intelligente del destino. Un esempio è il modello cabalistico occultato nelle lingue ordinarie – un modello che non può emergere senza erodersi, dal momento che la comprensione generalizzata (umana) e l’uso deliberato dei gruppi di lettere come unità numeriche chiuderebbe il canale della “coincidenza” (informazione aliena). È solo perché le persone usano le parole senza numerizzarle che esse rimangono aperte come canali per qualcos’altro. Dissolvere lo schermo che nasconde queste cose (e nascondendole, permette loro di continuare), significa fondersi con la fonte del segnale e liquidare il mondo.

    Q2. Scrivere sull’apocalisse la ricaccia nell’ombra/la codifica in modo più pesante… oppure l’atto di indagare sull’apocalisse aiuta a decodificarla e attualizzarla?

    R2. Per i teisti, il primo. Per i naturalisti trascendentali (come i cibernetici iperstizionali), quest’ultima.

    Q3. Potresti approfondire il concetto di “sforzo iperstizionale”? Iperstizione è una parola chiave nel lessico della mia tesi… mi chiedevo se potessi scomporre il termine in un linguaggio che i normali accademici (come il mio supervisore!) possano capire. L’iperstizione è la spina dorsale o il canale in cui confluisce tutto ciò che è apocalittico, ma di cosa si tratta esattamente? Potresti definirlo? Il modo in cui lo capisco dal Catacomic è che si tratta di un meme o di un’idea attorno alla quale si cristallizzano idee/traiettorie). (i grassetti sono miei, ndt)

    R3. L’iperstizione è un circuito di feedback positivo che include la cultura come componente. Può essere definita come la (tecno-)scienza sperimentale delle profezie che si autoavverano. Le superstizioni sono semplicemente false credenze, ma le iperstizioni – per la loro stessa esistenza come idee – funzionano in modo causale per realizzare la propria realtà. L’economia capitalista è estremamente sensibile all’iperstizione, dove la fiducia agisce come un tonico efficace, e viceversa. L’idea (fittizia) del cyberspazio ha contribuito all’afflusso di investimenti che lo hanno rapidamente convertito in una realtà tecnosociale.

    Il monoteismo abramitico è anche molto potente come motore iperstizionale. Trattando Gerusalemme come una città santa con uno speciale destino storico-mondiale, ad esempio, si è assicurato l’investimento culturale e politico che trasforma questa affermazione in verità. L’iperstizione è quindi in grado, in circostanze “favorevoli” la cui esatta natura richiede ulteriori indagini, di trasmutare le bugie in verità.

    L’iperstizione può quindi essere intesa, dal lato del soggetto, come una complicazione non lineare dell’epistemologia, basata sulla sensibilità dell’oggetto alla sua postulazione (anche se questa è ben distinta dalla posizione soggettivistica o postmoderna che dissolve la realtà indipendente dell’oggetto in strutture cognitive o semiotiche). L’oggetto iperstizionale non è una mera invenzione della “costruzione sociale”, ma è in un modo molto reale “evocato” all’esistenza dall’approccio adottato nei suoi confronti.

    Q6. Esiste l’iperstizione al di fuori del tempo e come si nasconde? Ciò è affascinante, soprattutto in relazione al meme dell’apocalisse, che non lo è affatto. Come si relazionano i due termini?

    R6. Il tempo è l’operare nel tempo storico di ciò che sta fuori (ma si costruisce attraverso) il tempo storico. L’Apocalisse chiude il circuito.

    D7. In che modo l’iperstizione si collega al capitalismo come campo di forza?

    R7. Il capitalismo incarna dinamiche iperstizionali a un livello di intensità senza precedenti e insuperabile, trasformando la banale “speculazione” economica in un’efficace forza storica mondiale.

    Q8. Puoi dire qualcosa sul tema della finzione – cioè storia e filosofia come finzione, e finzione come attualizzazione più intensa del potenziale storico / scientifico / tecnologico / sociologico?

    R8. L’iperstizione è in equilibrio tra finzione e tecnologia, ed è questa tensione che conferisce intensità a entrambe, sebbene l’intensità della finzione debba tutto al suo potenziale (catalizzare i “divenire” iperstizionali) piuttosto che alla sua realtà (che può essere mera espressività umana). .

  • Su quante volte andare dal terapeuta

    Su quante volte andare dal terapeuta

    Un articolo di Richard A. Friedman sull’Atlantic, ripreso qualche giorno fa anche da Internazionale, racconta che “molte persone potrebbero – o dovrebbero – abbandonare la terapia in questo momento, rimarcando la questione non come una minaccia, ovviamente, bensì come un’opportunità. La psicoterapia di tanti, in altri termini, è utile e costruttiva ma non può durare per sempre. Quanto deve durare, allora?

    Se ci si ragiona un attimo, da addetti ai lavori o meglio – nel mio caso – da semplici profani (meri lettori forti di psicologia e psicoanalisi, in terapia da anni, qualsiasi cosa ciò possa, o meno, implicare) ci si rende conto che la questione è forse più giornalistica che altro. Quante volte andare dallo psicologo o chi per lui? Ah, boh. Perché sarebbe come chiedere quante volte andare dal dentista, dal fisiatra o dall’oculista per il resto della nostra vita. Ci andremo, banalmente (la banalità a volte è salvifica) tutte le volte che ci servirà, tutte le volte che ne avvertiremo il bisogno, o tutte le volte che qualcuno più competente ci suggerità di farlo (il nostro Io, il nostro Es, il nostro SuperIo sono chiamati probabilmente in causa).

    La questione della durata della psicoterapia appare (forzosamente) connessa con quella dell’efficacia, in una sociatà apertamente capitalista e utilitarista come quella in cui viviamo. E non si tratta, quasi certamente, di una questione di upper bound temporali. Perchè io sono il capo di me stesso, dirigo l’azienda del mio inconscio, pago denaro sonante – e figa, esigo i risultati, da buon milanese imbruttito.

    Vale la pena riprendere l’incipit di quell’articolo, che traduco liberamente di seguito:

    Circa quattro anni fa, un nuovo paziente venne a trovarmi per una consulenza psichiatrica: si sentiva in qualche modo bloccato. Era in terapia da 15 anni, e continuava ad andarci nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo. Invece di lavorare sui problemi legati ai sintomi, lui e il suo terapista parlavano delle sue vacanze, dei lavori di ristrutturazione della casa e dei problemi in ufficio. Il suo terapista era diventato, in effetti, un amico costoso e soprattutto solidale. Eppure, quando gli ho chiesto se stesse pensando di interrompere la terapia, è diventato titubante, persino ansioso. “È semplicemente entrato nella mia vita“, mi ha detto.

    Friedman è un docente di psichiatria clinica e parla, evidentemente, a ragion veduta: si tratta di una situazione anomala da vari punti di vista – da profano, s’intende. E proprio perché si tratta di una casistica che – se anomala è in qualche modo discriminatorio definire – è quantomeno sbagliato generalizzare o renderla addirittura epitomica. Come sono a loro modo semplicistici, eppure ampiamente accettati socialmente, i vari commenti caustici sul senso della terapia: “un lusso per ricchi“, “tanto vale parlare con amico“, e per fortuna che qualche professionista si accorge che qualcosa non quadra e nei commenti lo fa presente. Dannati commenti dei social, così veri eppure così falsi. Eppure – dal 2020 in poi, soprattutto . sappiamo che la verità non si può stabilire, in nessun caso, a suon di like. Ammesso che ci sia un assoluto, una oggettività da ristabilire.

    In primis il terapeuta-amico (un ossimoro che farebbe rabbrividire molti addetti ai lavori) avrebbe dovuto interrompere la relazione a suo tempo e modo, ritengo. Ì una valutazione che faccio anche sulla base di quegli accenni di probabile auto-diagnosi che lo stesso Freud aveva mille dubbi a propinare (“nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo“: come facciamo ad esserne sicuri? Come facciamo a dire con certezza che erano davvero svanite? Perchè continuava ad andare in terapia, se la depressione e l’ansia erano sparite? Anche solo da un punto di vista logico, forse qualcosa non torna.).

    In secondo luogo questa storia è già fin troppo ingarbugliata, e parla di psichiatra che ascolta un paziente avere un problema ricorsivo col proprio terapeuta. Si parla di persone che hanno dei problemi, e si sta cercando di costruire un teorema su questa storia, giustp?  Come se non bastasse, è abbastanza vero che la terapia sia un lusso che – in Italia, ad esempio – non tutti si possono permettere, tra scuole di specializzazione che arrivano a costare migliaia di euro all’anno per gli aspiranti terapeuti e pazienti che – nella maggioranza dei casi – si pagano da soli la terapia, quando i bonus psicologo sono erogati poco e male (la regione Calabria, ad esempio, li ha erogati soltanto in parte, lasciando vari richiedenti / potenziali aventi diritto nel dubbio, ad oggi, se mai arriverà qualcosa per loro).

    “Tra coloro che se lo possono permettere – sottolinea l’autore – la psicoterapia regolare è spesso vista come un progetto che dura tutta la vita, come allenarsi o andare dal dentista. Gli studi suggeriscono che la maggior parte dei pazienti in terapia può misurare i propri trattamenti in mesi anziché in anni, ma una buona parte dei pazienti attuali ed ex si aspetta che la terapia duri indefinitamente. Sia i terapisti che i clienti, insieme alle celebrità e ai media, hanno approvato l’idea di andare in terapia per periodi prolungati o quando ti senti bene. L’ho visto io stesso con amici che sono fondamentalmente sani e pensano che avere un terapista sia un po’ come avere un coach.”

    È evidente che chi si affida a un terapeuta lo fa per propria volontà, ed è anche evidente che non si tratta di stabilire nuovi livelli di dipendenza ma creare autonomia. È un dubbio che ho esplicitato alla mia ex terapeuta qualche mese fa, il che è stato liberatorio almeno quanto averle confidato tantissime altre cose di me. Tutte cose che una buona terapia deve raccontare, accogliere ed elaborare, un po’ per definizione, perchè non si tratta di prestazioni occasionali e non si tratta di produrre un risultato nel massimo tempo X. Tipo una scadenza, un limite temporale da diagramma di Gantt, un upper bound, e poi vieni in ufficio che ti parlo del mio progetto. E poi, per carità, basta stravolgere i ruoli e capovolgere l’episteme: psicologia non è coaching così come un geometra non è un ingegnere, un dentista non è un podologo e così via.

    Si tratta di capire se effettivamente un terapeuta possa tenere in cura una persona che non ne ha bisogno solo per il vile denaro, ed è questa la domanda da farsi.  No, io non credo che ci siano lì fuori così tanti terapeuti disposti a fare una cosa del genere, perchè l’etica professionale ha il proprio peso e, se vogliamo, per lo stesso motivo per cui i chirurghi non operano al cervello solo per portare a casa la pagnotta. metterla su questo piano temo che sia anche frutto di un semplicismo de-ideologizzato, in cui la gente parla di queste cose senza sapere chi siano Jacques Lacan, Felix Guattari o Franco Basaglia. Non che sia obbligatorio saperlo, però magari uno si fa un’idea. Al limite, chiede a qualche terapeuta abilitato. E la sensazione generale è che possa esistere un forte movimento no psycho, che banalizza o irride la (portata/durata delle) sedute, considera dei poveracci quelli che lo fanno e via dicendo. Liberissimi di pensare quello che vogliono, altrettanto liberi noi pazienti di ignorare bellamente le loro (presuntuose) istanze.

    Persistono vari livelli di confusione, peraltro, in cui si può cadere. C’è un altro grande problema legato alla pretesa di oggettività della terapia, quando la disciplina è per sua natura soggettiva – e quello che vale per un caso clinico non vale per altri novecentonovantanove, di solito. C’è certamente l’aspetto a volte doloroso per alcuni del separarsi dal proprio terapeuta, un aspetto che per alcuni diventa tabù: ma è un passaggio necessario da affrontare con fiducia e coraggio, e che ho affrontato anche io. L’ho fatto nella mia piccola esperienza usando la soluzione sommessamente suggerita fin dai tempi di Freud: la terapia della parola, ovvero parlandone al mio terapeuta e identificando l’annesso demone. L’aspetto della dipendenza e della separazione fu oggetto di una critica esplicita già nell’anti-Edipo durante gli anni 70, e mi limiterò a ribadire che tanti problemi di questo tipo sono contestuali, e non tutto è controllabile o dipende da noi (lezione imparata con anni di terapia, peraltro).

    Nulla da obiettare sul fatto di scrivere articoli divulgativi su questi argomenti, qualcosa da obiettare sul fatto di renderli clickbait e di dar l’impasto alla solita folla informe e le boniana sui social, cosa per cui in effetti non mi sento di colpevolizzare nessuno. Non possiamo nemmeno farne una questione di durata, come se un muscolo dovesse abituarsi, come se fosse una questione di fare fisioterapia per 20 sedute o di allenare un po’ i bicipiti. Come se si trattasse di allargare le spalle o di scolpire il fisico, e tantomeno come se fosse normale che la terapia diventi una chiacchierata tra amici. Per favore: liberissimi di affidarvi a chi volete o meno, ma evitiamo il settarismo e soprattutto manteniamo (per il bene dell’umanità tutta) i limiti epistemologici. Non stiamo parlando di robot o macchine, ma di esseri umani. Al limite, di macchine desideranti. Senza peraltro scomodare questioni prettamente cliniche – che sono per l’appunto soggettive, e che ci risparmiamo di fare: per lo stesso motivo per cui non ci azzarderemmo a dare suggerimenti clinici a una persona che arriva in questo sito perché ha mal di denti, non ne abbiamo titolo e lo accettiamo pacificamente senza sputare sentenze sul prossimo.

    E poi sì, magari evitiamo l’altro equivoco molto italiano di confondere tra mille mondi diversi (sfumature diversissime: terapeuta, psicologo, motivatore, personal coach). Il problema di fondo delle terapie troppo lunghe è sostanziale ma non è risolvibile dall’esterno, per quello forse non era il caso di scriverci addirittura un articolo generalizzante e dal sapore pseudo-teorico, come se stessimo parlando della descrizione di un fenomeno fisico newtoniano che avviene sempre allo stesso modo, in un laboratorio di fisica del MIT come di fronte al bar sotto casa. L’errore di fondo è anche che viviamo in una società prettamente fideistica, ed è ormai radicato l’equivoco epistemologico, per lo stesso motivo per cui ci fidiamo meno dei medici e più dei santoni, meno dei terapeuti e più dei preti (forse), attribuendo una presunta “scientificità dura” ad una scienza che, al contrario, possiede la soggettività nel proprio statuto epistemologico, per quanto poi questo aspetto non sia ancora troppo valorizzato.

    Anche perché alla prova dei fatti la realtà è soggettiva e spesso più inosservabile di quanto vorremmo, quasi nessuno è davvero esperto di episteme, si relativizza la medicina e si oggettivizza la psicoanalisi e, nel mentre, nemmeno gli elettroni si fanno guardare. Suggerisco di leggere a riguardo, se interessa, sia l’articolo linkato che la sua versione ironico-parodistica: Guida pratica al gatto di Schrödinger. E soprattutto non banalizziamo i problemi nostri, tantomeno quelli altrui. Perchè ognuno ha i propri tempi, e vanno rispettati. (P.G.)

  • Benvenuti nella spirale del silenzio

    Benvenuti nella spirale del silenzio

    Che cos’è l’opinione pubblica? Secondo il sociologo Ferdinand Tönnies è un qualcosa che “pretende di essere autorevole”, e che al tempo stesso presenta un potenziale autoritario: “esige il consenso, costringe al silenzio, all’astensione dalla contraddizione“. Questo produce l’effetto che la maggioranza sia “costretta” al silenzio, persa nella propria impotenza e nella paura di esprimere un parere che non percepisce come abbastanza popolare o socialmente accettabile.

    Nel 1974 Elisabeth Noelle-Neumann (una sociologa tedesca), nell’idea ciò che è diventato noto nella letteratura scientifica come spirale del silenzio, ha descritto le euristiche (algoritmi approssimati) che gli umani utilizzano per dedurre quali siano le opinioni più popolari, per poi comportarsi di conseguenza. Arrivando a sostenere che la probabilità con cui una persona esprime un’opinione, soprattutto su argomenti controversi o molto dibattuti, sia condizionata dalla stima della forma dell’opinione pubblica.

    12.4.1991
    Tagung der Ludwig-Erhard-Stiftung im Hotel Königshof – Verabschiedung des alten Vorsitzenden der Ludwig-Erhard-Stiftung MD a.D. Dr. Karl Hohmann, Begrüßung des neuen Vorsitzenden Staatssekretär Dr. Otto Schlecht (Amtswechsel am 1.3.1991)

    La spirale del silenzio appare come teoria di formazione dell’opinione pubblica e si basa sul presupposto che per alcuni individui, o per la maggioranza di essi, sia più importante non isolarsi che possedere un parere personale su un tema sensibile. Questo naturalmente induce una discreta quantità di conformismo nel computo del mondo in cui viviamo, per quanto la teoria in questione non sia universalmente accettata e – come molti altri studi sociologici – sia profondamente dibattuta ancora oggi.

    Considerazione finale di un Mago Merlino accelerazionista

    La tristezza si spegne imparando. Il tuo corpo cede, le tue vene gridano, l’amore svanisce; il mondo esplode sotto la follia, il tuo onore affoga nel fango. Non importa: impara. Scopri perché il mondo si muove, cosa lo guida, quali ingranaggi lo alimentano. La conoscenza non si consuma, non tradisce, non ferisce, non si teme, non si rimpiange. È l’unica arma, l’unica rivoluzione. Impara, perché tutto il resto andrà in rovina.