DENTRO_ (101 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Guida pratica al cinema dell’oblio

    Guida pratica al cinema dell’oblio

    L’oblio è un termine che indica la perdita o l’incapacità di ricordare qualcosa, sia temporaneamente che permanentemente. Si riferisce alla mancanza di memoria o al fatto di dimenticare informazioni, eventi, dettagli o esperienze passate. Questo fenomeno può manifestarsi in modi diversi e può essere causato da varie ragioni, come lo stress, l’invecchiamento, disturbi neurologici, traumi cranici, disturbi psicologici, condizioni mediche, o semplicemente come una caratteristica normale della memoria umana.

    Secondo Freud, il concetto di “rimosso” si riferisce a ricordi, desideri o esperienze traumatiche che sono stati inconsciamente soppressi o dimenticati. L’oblio, in questo contesto, può essere considerato come una forma di difesa psicologica che nasce dalla repressione di contenuti emotivamente dolorosi o disturbanti. Freud credeva che certi ricordi o desideri potessero essere così disturbanti da essere spinti nell’inconscio, rendendoli inaccessibili alla consapevolezza. Questi ricordi repressi o rimosso possono influenzare il comportamento e la psiche di una persona senza che essa ne sia consapevole. Ad esempio, una persona potrebbe mostrare determinati schemi comportamentali o reagire in modo specifico a certe situazioni a causa di ricordi o desideri repressi di cui non è consapevole.

    L’oblio può anche riguardare la dimenticanza di dettagli quotidiani, come dove si sono lasciate le chiavi, ma può anche estendersi a eventi importanti della vita o a informazioni significative. Può essere temporaneo, come dimenticare qualcosa per un breve periodo di tempo, o può essere permanente in casi più gravi, come nelle malattie neurodegenerative.

    L’oblio in questo contesto potrebbe rappresentare una manifestazione di questo processo di repressione, dove certi ricordi o esperienze dolorose vengono dimenticati o nascosti dalla coscienza a causa del loro impatto emotivo o delle loro implicazioni psicologiche. Tuttavia, è importante notare che il concetto di rimosso freudiano è ampiamente dibattuto e non è universalmente accettato da tutti gli psicologi e ricercatori nel campo della psicologia contemporanea.

    Il cinema presenta un’ampia filmografia dedicata al tema centrale dell’oblio.

    Spider

    “Spider” è un film del 2002 diretto da David Cronenberg, in cui il protagonista, interpretato da Ralph Fiennes, è un uomo di nome Dennis Cleg che soffre di gravi disturbi mentali e di amnesia.

    Il film segue la vita di Dennis Cleg, chiamato anche Spider, mentre viene trasferito in una casa di cura dopo essere stato rilasciato da un istituto psichiatrico. Spider lotta con la sua memoria frammentata e con i ricordi confusi del suo passato, cercando di ricostruire eventi traumatici della sua infanzia e le complesse relazioni familiari.

    La narrazione del film si intreccia tra la realtà e la percezione distorta di Spider, mostrando i suoi sforzi nel tentativo di capire ciò che è accaduto nella sua vita e nel suo passato, mentre la sua mente è intrappolata in un labirinto di ricordi distorti e ambigui.

    Il tema dell’oblio è centrale nella trama di “Spider”, poiché il protagonista cerca di recuperare e dare un senso ai frammenti del suo passato, cercando di affrontare eventi traumatici e di riavvicinarsi ai ricordi sepolti della sua infanzia. Il film esplora la natura della memoria, dell’identità e della percezione, portando lo spettatore a entrare nella mente fratturata del protagonista e nelle sue struggenti lacerazioni psicologiche.

    Di B3t - catturato personalmente, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2976057
    Di B3t – catturato personalmente, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2976057

    Oblivion

    Di Supernino – Screenshot autoprodotto, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4629489

    Oblivion è un film di fantascienza del 2013 diretto da Joseph Kosinski. Il film è ambientato in un futuro post-apocalittico e vede Tom Cruise nel ruolo del protagonista.

    La trama ruota attorno a Jack Harper (interpretato da Tom Cruise), un tecnico di manutenzione incaricato di monitorare e riparare droni difensivi su una Terra desolata, abbandonata e devastata da una guerra contro una razza aliena chiamata “Scavs”. Gli umani hanno vinto la guerra, ma la Terra è diventata inabitabile e gran parte della popolazione si è trasferita su un’altra luna di Saturno, chiamata Tet.

    Mentre Jack compie le sue missioni di manutenzione, inizia a mettere in discussione la verità sulla guerra e sul suo ruolo nell’intera situazione. Una serie di eventi lo portano a scoprire informazioni che mettono in discussione la sua comprensione della realtà e delle sue stesse origini.

    Il film è apprezzato per la sua estetica visiva, gli effetti speciali e la colonna sonora coinvolgente. La storia affronta temi di identità, memoria, tradimento e riscatto, mentre il protagonista cerca di scoprire la verità dietro la sua esistenza e il suo ruolo in un mondo devastato.

    “Oblivion” è stato apprezzato per la sua ambientazione visivamente accattivante e per la sua trama che mescola elementi di fantascienza con elementi più intimi e personali.

    “Memento” (2000)

    Memento” è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan e racconta la storia di Leonard Shelby, interpretato da Guy Pearce, un uomo che soffre di amnesia anterograda, una condizione che gli impedisce di creare nuovi ricordi a lungo termine dopo un trauma. La trama del film è narrata in modo non lineare, seguendo due trame temporali che si intrecciano:

    Leonard cerca disperatamente di trovare l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, e di vendicarsi.

    La sua ricerca è complicata dalla sua condizione di amnesia, quindi si affida a polaroid, tatuaggi e appunti scritti su sé stesso e oggetti per ricordare chi è, cosa sta facendo e chi è la persona che deve trovare.

    Il film si apre sul finale, portando lo spettatore all’inizio della storia. La narrazione procede poi all’indietro attraverso una serie di eventi, rivelando nuovi dettagli e retroscena.

    “Shutter Island” (2010)

    Credits: imdb.com

    Diretto da Martin Scorsese, questo thriller psicologico racconta la storia di due detective che indagano sulla scomparsa di una paziente da un’ospedale psichiatrico sull’isola di Shutter. Il film esplora la memoria e la percezione in modo disturbante.

    “Before I Go to Sleep” (2014)

    Basato sul romanzo di S.J. Watson, segue la storia di una donna che ogni giorno al risveglio scopre di aver perso la memoria degli ultimi 20 anni a causa di un incidente. Lei inizia a scoprire verità inquietanti sulla sua vita.

    “Unknown” (2011)

    Un uomo si risveglia in un ospedale scoprendo che qualcun altro ha preso la sua identità, ma l’intera sua vita sembra essere stata dimenticata o sostituita da qualcun altro.

  • “Realismo capitalista” di Mark Fisher ha profetizzato un Reale che non si può esprimere

    “Realismo capitalista” di Mark Fisher ha profetizzato un Reale che non si può esprimere

    Mark Fisher muore suicida a soli 48 anni dopo essere diventato uno degli autori accelerazionisti di spicco e promosso le proprie idee con lo pseudonimo k punk.

    All’interno del suo libro Realismo capitalista Fisher delinea un trattato compatto e ricco di riferimenti alla cultura pop su quello che viene definito realismo capitalista. Per farlo, fa partire la trattazione incentrando il focus sull’idea accelerazionista promossa da I figli degli uomini, un film di fantascienza post-apocalittica di Alfonso Cuaròn (noto anche per aver diretto in seguito un episodio di Harry Potter). Una fantascienza fuori dal mainstream che presentava qualche punto di contatto con 2019 dopo la caduta di New York di Sergio Martino: in entrambi si attraversa l’apocalisse come se fosse una condizione ordinaria, alla ricerca di una nuova Eva che potrebbe ridare vita al genere umano, condannata diversamente all’estinzione da uno stop delle nascite, causa eccessiva radioattività. È uno dei tanti film simbolisti e politici che abbiamo visto nei cinema, ma Fisher punta l’accento in particolare sull’attraversamento, sul fatto che l’unico modo per attraversare la crisi sia attraversarla, in qualche modo (the only way out is the way through: l’unica via d’uscita è attraversare le cose), per quanto poi il come finisca per possedere sfumature e modalità molto diverse, da teorie neutre politicamente a quelle di estrema sinistra o, alternativamente, estrema destra. Si presuppone che le nuove tecnologie e il capitalismo debbano essere accelerati il più possibile, partendo dal presupposto che sia impossibile fermarli e anzi, rischi di essere solo controproducente.

    Mark Fisher (scatto di Nina Power). Credits: Nero Edizioni
    Mark Fisher (scatto di Nina Power). Credits: Nero Edizioni

    Una normalità apocalittica, dicevamo, che non sembra nemmeno troppo difficile da immaginare, presi dai nostri piccoli e medi drammi quotidiani mentre assistiamo, del tutto inermi e quasi sempre scoraggiati, al declino progressivo di un’umanità allo sbando, tra clickbait, fake news e periodici annunci di imminenti apocalissi. Possibile – si chiede Fisher – che davvero non ci aspettino sostanziali cambiamenti di sorta, e che non rimarremo più spiazzati da quello che verrà? Nelle ultime pagine del libro, dopo aver attraversato vari argomenti (dal politico al sociale, passando per la psicoanalisi lacaniana e la critica marxista classica) una lapidaria risposta sembra esistere, ed è il massimo dell’esaltazione lirica dello stile dell’autore, che riportiamo qui integralmente:

    “La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista signfica che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sporporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere tutto, di colpo, torna possibile.”

    Realismo capitalista è un’espressione ripresa da Fisher a partire da Michael Should e da un gruppo di artisti pop art tedeschi degli anni Sessanta, e fa riferimento all’arte basata sull’uso delle merci (oltre ad essere, ovviamente, un calco del realismo socialista noto in ambito politico. In quest’opera è da interdersi come il mood che pervade il capitalismo corporativo in cui viviamo, intento a frammentare ed atomizzare le singolarità, facendo sentire l’individuo “solo contro tutti” (in pieno stile liberista) e arrivando addirittura, scrive Fisher, a far considerare le malattie mentali come problematiche individuali senza legame sociale.

    Vengono pertanto in mente i flussi a cui facevano riferimento Guattari e Deleuze nell’Anti Edipo, in risposta alla diffusa tendenza borghese nell’affrontare le problematiche psico-sociali nel salotto freudiano, come a dire: c’è dell’altro, esistono flussi che partono da un nodo ed arrivano ad un altro, mentre la dimensione psicoanalitica da sola non basta più a spiegare tutto. Va messo anche l’aspetto sociologico in ballo, anche perchè la propaganda capitalista sembra funzionare molto meglio di quella fascista o stalinista, e può rivelarsi complesso da comprendere e contestualizzare, se non lo si fa.

    Karl Marx cyberpunk visto da DALL E
    Karl Marx cyberpunk visto da DALL E

    Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura, del resto: e questo dovrebbe essere più che sufficiente a trovare nuovi stimoli per risolvere i dilemmi moderni senza ricalcare stili e scelte fallimentari precedenti. Questo vale a cominciare dalla malattia mentale, con riferimento alla depressione che porterà Fisher al suicidio nel 2017, il cui lascito per le forze progressiste è esplicito: la sinistra dovrebbe urgentemente ripoliticizzare la questione psichiatrica, contestualizzandola alla critica del capitale, scrive l’autore. Il capitalismo stesso è, secondo l’autore, quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato di questa accettazione passiva (o meglio ancora interpassiva) è un consumatore spettatore che arranca tra ruderi e rovine. Il capitalismo non può esistere, osserva Fisher, senza la nostra esplicita cooperazione.

    Il capitalismo diventa, per Fisher, un mostro simile a La cosa di John Carpenter,  informe e dai confini variabili, pronto a cannibalizzare qualsiasi aspetto sociale e quotidiano e a rendere inesistente, ad esempio, la sacrosanta distinzione tra vita privata e lavorativa. Portarsi il lavoro a casa sarebbe l’espressione del massimo disagio indotto dal capitalismo, ed il capitalismo è molto abile a desacralizzare e svilire qualsiasi credenza. Con un risultato tragicamente vero, del resto: senza dimensione sacrale, senza credere letteralmente in nulla, la dimensione simbolica lacaniana viene abolita.

    Ricorrendo ad una delle sue consuetre omofonìe (les non-dupes errent, letteralmente i non creduloni vagano, che suona uguale a les noms du père, il nome del Padre) Lacan aveva sottolineato – come Zizek ha più volte rimarcato, per inciso – come la perdita del simbolico indotta sul seguace acritico del capitalismo possa avere conseguenze imprevedibili: chinque si consideri realista, cinico, disilluso, pragmatico (come avverrebbe anche per un incel, in effetti) può sbagliare esattamente come chiunque altro adoperi o creda, a qualsiasi livello, in un sistema simbolico. Anzi, peggio ancora: la dimensione pragmatica o iper-realistica rischia di risultare più ingannevole perchè distinta, di suo, da quella del Reale (se n’era accorto anche Baudrillard formulando i suoi simulacri, in effetti). Alla meglio, il Reale può essere una variabile X non rappresentabile di origine traumatica (secondo la psicoanalisi classica, almeno) che può essere al massimo intravista tra le spaccature o le contraddizioni della realtà che ci appare ogni giorno (i simulacri).

    Definire il reale è complicato, nemmeno Lacan ha mai fornito una definizione dello stesso univoca e, in definitiva, “la cosa innominabile”, il realismo capitalista, se ne approfitta bellamente. To get real significa, nell’accezione hip hop stradaiolo ad esempio, confrontarsi con uno stato di natura in cui cane mangia cane, dove o sei un vincente o sei un perdente, dove sei spinto a sentirti sfigato se non ti spari un corso di seduzione online – e dove i più, neanche a dirlo, sono condannati di default a perdere.

    L’unica maniera per mettere in discussione realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente o indifendibile diventa una sola: ribadire che di realista, in qualche modo, questo capitalismo non ha nulla.

  • Single per scelta dell’iperstizione

    Single per scelta dell’iperstizione

    Single per scelta (degli altri). Vorrei, ma non posso. Fin troppi guru su internet vendono subdolamente corsi per fare qualsiasi cosa: diventare ricchi senza lavorare, essere in forma, sedurre una donna, sedurre un uomo, sottomettere i dipendenti, farsi ascoltare quando si parla in classe e via dicendo.

    Ogni cosa, su internet, diventa un how to pseudo-aranzulliano che suggerisce qualcosa di perverso, oltre che sostanzialmente falso: l’idea che chiunque possa fare qualsiasi cosa. Questa visione machiavellica e burlesca, mostruosamente sicura di sè e altrettanto difficile da confutare, sembra frutto di un’idea dominante nel mainstream durante gli anni 80 e 90: quella dell’imprenditore individualista e atomizzato, che si è fatto da solo, un po’ gangster un po’ marpione. Una visione che si è infiltrata subdolamente nelle maglie della coda lunga, la long tail delle specificità di cui si parlava dall’articolo di Wired del 2004: mille micro-mercati frammentati, ognuno specificato da una specifica chiave di ricerca, in cui chiunque può infilarsi (che poi, bisogna vedere) e provare a fare soldi (almeno, in teoria, così dicono).

    Un Super-Io boomer

    Le frasi utilizzate da questo tipo di comunicazione – quella di troppi guru della comunicazione che ci raccontano, specie in versione TikTok e Youtube – sono le stesse di un grottesco Super-Io boomer, sprezzante del contesto, quasi intenerito dalla nostra ignoranza, che solleva un sopracciglio e ci suggerisce come fate a non capire una cosa così semplice. Sarebbe ora di iniziare a mettere in discussione questa visione frutto, tra le altre cose, di un capitalismo deregolamentato che sguazza liberamente su internet. Non diciamo questo a casaccio, ovviamente, ma con cognizione di causa: forse non tutti sanno che gran parte dei guru sfrutta il modello detto affiliate marketing. Se hai un canale di comunicazione digitale come un sito o un canale Youtube puoi vendere prodotti e servizi di terzi, e il sistema riconosce loro una commissione per ogni vendita effettuata.

    Chiaro che, a questo punto, l’impostazione più diretta e accessibile per questo tipo di attività sia puramente discorsiva: ed è il motivo per cui sembra che questi guru ci “parlino” dritto al cuore, spesso sorprendendoci per l’apparente causalità con cui certe ads appaiono sui nostri dispositivi ogni giorno. Anche nel nostro blog ne facciamo uso, del resto: molte delle pubblicità che potrebbe capitarvi di vedere su queste pagine sono frutto di algoritmi contestuali che vi mostrano prodotti e servizi che potrebbero teoricamente piacervi, frutti di gusti, preferenze e scelte espresse su internet in passato.

    Corsi di seduzione for dummies

     

    Ho provato a cercare la parola “seduzione” su Youtube per scoprire un esempio emblematico e fulminante di questa comunicazione tendenzialmente aggressiva. Al netto dell’aspetto omologante che mette nello stesso calderone sessuologi e Youtuber, in molti casi è puro content marketing con il quale si cerca di vendere videocorsi e/o infoprodotti.

    Il tutto creando anteprime in odor di clickbait e/o usando espressioni come (riporto a campione):

    come attrarre ciò che vuoi dalla vita, essere artisti del rimorchio (sic), 10 test femminili da superare, seduzione passiva, come rendere una donna ossessionata di te, dritto alla meta, eccitare un uomo senza toccarlo, come conquistare una donna bella, modi “non da sfigati” per mostrare interesse a una donna, regole d’oro per conquistare un ragazzo, la più potente tecnica di seduzione, come uscire dalla friendzone, la donna non cerca l’uomo ricco ma quello…, come approcciare senza essere nervoso

    e così via. È un linguaggio diretto a targetizzare una buona percentuale di persone di varia estrazione sociale, accomunati dall’avere difficoltà relazionali (anche qui, non a caso, generalmente demonizzate dalla società digital-capitalista), usando un modo semplice o semplicistico, accessibile e familiare. Vale la pena osservare, peraltro, come questo linguaggio sia un retaggio o addirittura un’imitazione di quello aziendalista: si parla produrre di più implicitamente, di ostacoli da superare, di essere o sentirci cazzuti, di ostentare sicumera, di non essere più dei poveri stronzi, di sedurre fino ad arrivare all’ossessione dell’Altro (film da rivedere: Possession e Audition), ma anche di lavorarci fino allo sfinimento, di credere in quello che si fa, di rigettare abomini quali la vituperata friendzone, di seguire le regole d’oro per diventare dipendente del mese.

    Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere: i video con queste parole chiave producono migliaia o milioni di visualizzazioni ogni mese, ed è plausibile che almeno una piccola parte di quelle keyword possieda quello che si chiama in gergo commercial intent, in italiano intento commerciale, ovvero capacità misurabile di far guadagnare qualcuno. Tanto più, sono evidentemente rivolti prevalentemente ad uomini etero della società occidentale, tendenzialmente single e frequentatori assidui di internet: tanto che viene in mente che non sia vero e proprio incel marketing. Anche se non vale per tutti e non è il caso di generalizzare, buona parte dei video che Youtube e TikTok propongono su questo argomento sono targetizzati spudoratamente sulla figura del celibe involontario: lo user medio (maschio ed etero) che non riesce ad avere relazioni sessuali pur desiderandole.

    Iperstizione incel

    La definizione di incel o involutary celibate (celibi involontari, un neologismo che fonde due termini in una parola macedonia) è tutta un programma: la sua etimologia risulta infatti, a ben vedere, beffarda per definizione. Si tratta di celibi (ovvero: uomini non sposati) per scelta degli altri ovvero in modo non volontario, dato che (si assume) nessuno li abbia voluti. Un termine che, comunque la si pensi, suona vagamente discriminatorio in partenza. Nessuno li abbia voluti, o nessuno mai li vorrà, in assoluto, senza appello? Viene da chiedersi come facciano a sapere che le cose non cambieranno mai, per certi versi. Gli incel sono particolarmente bersagliati da vari user che considerano deprecabili le loro argomentazioni (soprattutto nel caso delle femministe, che arrivano a considerarli parte di un problema più vasto) per quanto, a mio avviso, non sembri funzionale bersagliarli ad oltranza (le discussioni infinite sono, in fondo, l’anima dei social). Gli incel sono tendenzialmente individui disillusi che, in quanto tali, hanno perso ogni peso simbolico della realtà: se è vero che i non creduloni vagano, alla ricerca di punti di riferimento, è un pensiero di Lacan e forse, in questo ambito, si potrebbe applicare. Un incel ha perso il contatto con gli aspetti simbolici del reale e finisce per vedere la realtà peggio di come sembra, per quanto si illuda essere “la realtà”. Bisognerebbe contestualizzare quelle informazioni in un contesto di scolarizzazione spesso carente o solo presunta, dove è anche possibile che internet abbia cullato nella classica “campana di vetro” certi individui, alienandoli dal contesto. Va anche considerato che il mondo incel – per quanto innegabilmente deprecabile e shockante nella sua essenza, questo è fuori di dubbio – resta una sottocultura nato e cresciuta sul web, una forma di trolling un po’ più teorizzato (sia pur malamente, come vedremo), vittima di bias cognitivi e/o imbevuta di complottismo, non proprio un gruppo sociale, politico o filosofico univoco. Chiunque può essere incel, e soprattutto qualsiasi uomo etero potrebbe temere, prima o poi, di esserlo diventato.

    Non sbaglia Andrea Cuomo a scrivere, a riguardo, che queste persone si credono respinte dalle donne, forse prima ancora di esserlo, dato che il valore della credenza nel contesto di internet ha una valenza considerevole e, come insegnano varie teorie psicologico-sociali, la credenza può essere bloccante o introdurre bias cognitivi insidiosi. Esiste una complessa terminologia legata al mondo incel, quasi sempre basata su stereotipi: i chad, ad esempio, che sono i maschi alfa dominanti (anche qui, un termine assurdamente assolutistico e senza margine d’errore), i betabux (con riferimento al fatto che i maschi beta, a differenza degli alfa, debbano pagare bucks per una relazione), cuck (che evoca il cuckold o l’eccessiva compiacenza di certi uomini che li porta, di fatto, ad essere troppo poco virili per poter fare sesso). La logica incel e le sue regole ultra-codificate addirittura su Wikipedia – regole che ricordano le 77 regole di internet e che sono nate in un contesto analogo – è parziale e assolutistica, oltre ad essere pura iperstizione (alcune cose non succedono al soggetto, secondo la psicologia moderna, perchè il soggetto stesso si impone non debbano succedere senza rendersene conto). Questo vale tanto più che non tiene conto di vari studi di genere, del buonsenso o anche solo del fatto che, banalmente, non tutte le donne sono etero (e nemmeno tutti gli uomini, a dirla tutta).

    Il fenomeno degli incel resta comunque, con tutte le sue discrepanze e la sua innegabile mascolinità tossica, al centro di (pseudo)dibattiti che, di loro, tendono a lasciare il tempo che trovano. Anche perchè si orientano su posizioni inconciliabili per definizione, mentre si tende ad identificare come incel quasi tutti i membri di community online (quindi, neanche a dirlo, user) accomunati dall’essere maschi, single, tendenzialmente litigiosi con le donne, generalizzanti nel pensiero e tanto assolutistici che alcuni di loro afferiscono a teorie suprematiste o razziste, o sono stati addirittura accusati di attentati ed episodi di violenza (citiamo a campione: il massacro di Isla Vista, la sparatoria all’Umpqua Community College, l’attentato di Toronto del 2018). Le teorie incel dicono tanto dell’humus sociale in cui tendono ad attecchire: ne esiste una, ad esempio, che si chiama LMS (Look, Money, Status), per la quale il successo relazione si misurerebbe soprattutto in termini di aspetto fisico, ricchezza e status / fama sociale.

    Sono le dimensioni totalizzanti ed esclusive (oltre che semplicistiche, lo ribadiamo) che verrebbero in mente a chi frequenta il college, dall’adolescenza alla prima età adulta, dato che calcolano addirittura come media ponderata di queste tre variabili il “successo” ottenibile in una relazione. Vale anche la pena di osservare che termini come “avere successo” sono ricorrenti nel vocabolario dei corsi di seduzione, a questo punto, che spesso si prodiga in calcoli pseudo scientifici sull’argomento. La matematica a cui fanno riferimento sembra essere quella dei modelli lineari o dei sistemi di equazioni in più incognite, da programma scolastico medio – il che è esattamente ciò che avviene anche sul versante RedPill: questa ulteriore teoria, mutuata da Matrix, aggiungerebbe che il 1968 e la liberazione sessuale abbia finito per sbilanciare le opportunità relazionali in favore della donna, il che la farebbe diventare una sostanziale teoria del complotto contro gli uomini. Questo ha creato un territorio ideale perchè, finalmente, potessero attecchire nel mondo dell’estrema destra e potessero, nel contempo, essere targetizzati dai corsi di seduzione di cui sopra, cavalcando l’onda di un malcontento auto-ingenerato nel quale cause ed effetti, tragicamente, si confondono. È un dato di fatto che molti di questi soggetti catalogati (sia pur indebitamente, a volte) siano accomunati da bias cognitivi, e naturalmente rabbia, misoginia, razzismo, bassa autostima; ma non c’è solo questo in ballo. Secondo uno studio dell’Università della Georgia queste persone – desiderose di fare sesso quanto incapaci di trovare partner (persone che possono essere, si badi bene, sia vergini che reduci da rapporti passati non più ripetuti) – riportano, in un gruppo da loro analizzato, esperienze difficilmente paragonabili. Se è così non ha senso catalogarli in questo modo, e tutta la questione andrebbe derubricata a mera pseudo-scienza.

    Quello che è stato visto, in effetti, è che un gruppo di celibi involontari finirebbe per essere tale sia pur per motivi, circostanze e con reazioni non paragonabili, troppo diverse per garantire omogeneità al gruppo. Questo sembrerebbe invalidare la categoria al punto da farla ritenere puramente discriminatoria, oltre che paravento indebito per chi è realmente misogino, antisociale o complottista già di suo. Pur fornendo feedback diversi in fatto di barriere, pregiudizi e app di dating, nello studio in questione i soggetti risultavano accomunati da una identica reazione negativa alla constatazione dell’essere (considerati) incel. Un po’ come se, in un certo senso, essere incel fosse quella che – per Mark Fisher e altri accelerazionisti – è una iperstizione, o se preferite una profezia che si autoavvera. Ciò che avviene quando un individuo, timoroso di eventi futuri sfavorevoli (come rimanere single a vita) finisce per comportarsi in modo da favorire quella (per lui) fatale profezia.

    Nel documentario Hyperstition (2015) di Christopher Roth viene data una definizione esatta del termine: il processo per cui entità immaginarie diventano reali. Più o meno quello che succede nella testa di un terrorista prima di commettere un attentato, ad esempio. pressappoco ciò che spinge un politico che non crede di essere eletto a manifestare la propria sfiducia in campagna elettorale, provocando proprio ciò che lo terrorizzava. E per quanto il senso dell’iperstizione sia dirompente quanto legato ad un contesto politico (prima che sociale), non sembra un azzardo immaginarlo collocato nel contesto sociale degli incel, una tassonomia umana che probabilmente andrebbe vista con maggiore senso critico, invece di appiccicarla addosso senza troppa cognizione di causa. Liberandolo, soprattutto, il povero presunto incel dal senso di colpa e dalle aspettative sociali familiste di essere single. Quello studio è stato illuminante proprio in questa direzione: gli incel sono più turbati dall’idea di essere catalogati come incel che dal loro effettivo feedback relazionale. E questo suggerisce, a tutti gli effetti, che essere incel sia pura iperstizione, profezia che si autoavvera come quella che “induce paura sui mercati” e spinge i broker a vendere, provocando materialmente le crisi che loro stessi paventavano.

    Non fare entrare nulla nella tua vita

    Dopo la parentesi doverosa sul mondo incel vale la pena riprendere la terminologia del marketing per scovarne qualche altra falla. Per provare a inquadrare perfettamente il problema può essere utile riprendere Mark Fisher in Realismo Capitalista (edito in Italia da Nero Edizioni). Un’opera che dice tanto su come andava il mondo già anni fa, e che trova conferma in quello che stiamo vivendo oggi a più livelli. Il capitolo intitolato “Non fare entrare niente nella tua vita” porta la data del 6 ottobre 1979: una linea di demarcazione ideale che segna un avvenimento importante. Quel giorno infatti il FED o Federal Reserve System americano porta i tassi di interesse al 20%, per contrastare la crisi, definendo gran parte dell’economia così come la viviamo oggi. Da allora, il modello dominante diventa quello di film come Heat – La sfida: un mondo brillantinato e deregolamentato in cui Vincent Hanna è il protagonista do it yourself con problemi in famiglia, che vive ipnoticamente assorbito dal proprio lavoro e deve fronteggiare una letterale competizione (da cui il titolo). Da un lato emerge un tòpos sociale conosciamo bene: chiunque possiede almeno un amico stressato da lavoro ben pagato quanto subumano, unito a stress familiare che sembra, per certi versi, una scoria di cui disfarsi.

    Il capitalismo digitale a cui aderiscono certi guru – non tutti, si spera – sembra in fondo aver bisogno della famiglia e della tranquillità (gran parte di chi segue un corso per sedurre lo fa in ottica stabilizzante, in qualche modo), istituzioni fondanti nonchè “premio di consolazione” per una vita di tribolazioni e sfruttamento di lavoro precario. Dall’altro, in modo imprevedibile e schizofrenico, tende a minare quelle fondamenta, spingendo il soggetto a lavorare sempre e comunque, portandosi il lavoro a casa e ri-organizzando il proprio sistema nervoso sul modello produzione/distribuzione. È l’aziendalismo come corrente politica, stile di vita quotidiano, faro illuminante.

    In altri termini, raccontava la penna acuta di Fisher lavoro e vita privata tendono per definizione a diventare inseparabili. Ed è proprio ciò che quei corsi o “suggerimenti” promulgano, tanto è il dilagare di corsi che spiegano non solo come fare soldi ma, in un delirio estensivo e onanista, come stare al mondo. Alcuni di quei video sono disarmanti e grotteschi: pur di marketizzare il proprio canale, ad esempio, una Youtuber ha risposto alla domanda di un iscritto “dovrei accettare del sesso orale da una mia amica?” con un lapalissiano “fai quello che ti senti“, episodio che dimostra che certe cose non si possano insegnare (invalidando la sostanza di quello che si mette online) ma anche, e soprattutto, che non ha importanza che quell’episodio sia autentico o una burla: l’obiettivo è acquisire nuovi adepti su Youtube.

    Lavorava troppo, quindi l’ho licenziata

    Il capitalismo digitale in ottica fisheriana si affanna ad esprimere la propria preponderanza non solo a livello lavorativo, ma anche e soprattutto a livello di vita di ogni giorno: nelle cronache recenti tutti abbiamo visto l’immagine di Ester Crawford, la dipendente di Twitter che dormiva in ufficio, prontamente licenziata.

    È l’ennesima espressione delirante dell’aspetto più sprezzante e beffardo del Super-Io boomer di cui sopra: devi essere furbo, non devi avere legami familiari, stai sempre in ufficio, la buona volontà non è un valore, in fondo ci piacciono i furbi, chi fa finta di lavorare ha la meglio su chi fa sul serio. L’aziendalismo è una bestia grottesca e per molti versi psicolabile, dato che premia a singhiozzo, spesso attribuisce meriti a casaccio – in una colorita sintesi fa quel cazzo che je pare, e tanto basta.

    Un mondo di troll bipolari

    Sui social le reazioni a questa notizia sono state polarizzate, come sempre accade: da un lato i “sindacalisti” contestavano la scelta, obiettando condizioni di lavoro disumane e via dicendo, dall’altro i “machiavellici” sbeffeggiavano la dipendente esaltando il “genio” di Musk. Sono due faccie della stessa medaglia: sono entrambi emblemi del troll di 4chan, superbamente dipinti da libri come quello di Gabriella Coleman (I mille volti di Anonymous).

    Si polarizzano perchè è il mezzo social ad imporglielo, e poi esprimono posizioni opposte (e senza sfumature) per il sol fatto che il digitale non ne prevede la possibilità. Sono bipolari perchè oggi possono essere machiavellici e domani sindacalisti, e il capitalismo digitale non se ne accorge nemmeno. Verrebbe da scrivere, a questo punto, che al capitalismo non piacciano nè interessino le sfumature, gli diano quasi fastidio, siano considerate inutili orpelli filosofici di cui disfarsi prima possibile.

    L’ontologia dominante della società iperconnessa, a questo punto, consiste nel banalizzare i problemi quotidiani di cui molti probabilmente si vergognano e dovrebbero forse affrontare per altre vie (se dei corsi di seduzione online hanno tanto successo e nessuno ne coglie l’assurdità, esiste un problema, ed è anche molto serio). Del resto il compito del digital capitalismo è anche di de-contestualizzare e togliere ogni valenza sociale addirittura alla malattia mentale (anche qui, i social sono emblematici di loro: su qualsiasi gruppo Facebook in cui ci si insulta reciprocamente è un proliferare di abusi e pseudo-diagnosi psichiatriche, grottesche quanto atomizzate, mentre su Google sono sempre più popolari ricerche tipo come difendersi da un narcisista). Il successo di corsi per vivere meglio sono frutto dell’aver fatto passare la depressione come un problema individuale (quando non lo è, e la società dovrebbe teoricamente prendersene carico), ogni tormento interiore degli user connessi come misterioso o mistico frutto di problematiche individuali, accentuando l’isolamento dell’individuo.

    Fisher presenta un’intuizione in merito poco considerata, a questo punto, ovvero che una forza politica di sinistra debba prendersi carico dell’idea che la malattia mentale e le forme di depressione debbano essere ri-politicizzate, messe in circolo secondo linee di transito che riguardino la sfera sociale, politica e del contesto quotidiano.

    Ancora Incel, maschi etero frustrati e altre storie

    Del resto saggi epocali come l’Antiedipo di Deleuze / Guattari – di difficilissima lettura quanto, implicitamente, simbolo di tempi complessi da decifrare o esprimere in poche frasi, come invece vorrebbe il capitalismo stesso – parlavano di schizo-analisi e schizofrenia come condizione limite del capitalismo, si arriva ad un punto cruciale analizzando da vicino la natura stessa del capitale digitale. L’attuale capitalismo digitale presenta in effetti una natura bipolare, oscillando tra momenti di esaltazione (le “bolle” speculative) e momenti di cupa depressione (le crisi che periodicamente attraversa).

    Esattamente come avviene agli individui incel – con tutte le riserve di cui sopra – a cui succedono due cose in parallelo: da un lato vengono sballottati sulle chat di dating, tra momenti in cui sembra che ci sia l’imbarazzo della scelta per la prossima partner a quello in cui, dopo aver pagato un abbonamento di varie centinaia euro, permane solo la scelta dell’imbarazzo. Dall’altro, come se non bastasse, essere single diventa per loro una colpa, esaltata dalla sensazione che danno i social di continui potenziali e bellissimi partner che non aspettano altro lì fuori, ed in cui se rimani solo è tutta colpa tua: anche perchè sei stato un povero scemo a non farti quel corso di seduzione online. La figura mitologica degli incel, a riguardo, si colloca a meraviglia nel contesto, prodotta da questo humus digitale: sono tipicamente maschi bianchi etero, spesso associati a ideologie di estrema destra (anche se non sempre), arrabbiati sociali e tecnicamente delusi dal genere femminile che hanno, probabilmente, idealizzato troppo. Rientrano in tutto quello che abbiamo raccontato finora, in effetti:

    sembra essere frutto del brutale accoppiamento tra  Il Joker di Phillips è diventato il simbolo dei single su internet

    Questo mood non è esclusivamente colpa di chi fa impresa o di chi mette in circolo app (ed idee) funzionaliste quanto illusorie. Secondo autori come Olivier James (Il capitale egoista) il capitalismo (digitale, nello specifico9 istiga nell’individuo l’idea perversa che ogni sogno e ogni aspettativa possa essere realizzata, anticipando esattamente il mood “vincente” di fin troppi guru e motivatori su internet. Puoi vincere, basta che ci credi, è la pseudo-motivazione per eccellente di qualsiasi coach che provi a spiegarti

    In una qualsiasi fantasiosa società imprenditoriale – scrive James – la delusione è alimentata dalla convinzione che chiunque possa essere Alan Sugar o Bill Gates, indipendentemente dal fatto che tale eventualità sia andata diminuendo dagli anni Settanta in poi. Il capitalismo egoista foraggia spudoratamente l’idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi siano i vincenti e che per puntare in alto basti lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, sociale o etnico.

    Ancora più inquietante e significativa la sua conclusione: se poi non riesci, l’unico da biasimare sei tu.

    Foto di copertina e a corredo dell’articolo: vari incel “immaginati” dall’intelligenza artificiale di DALL E.

  • Fenomenologia spicciola dei video imbarazzanti (e della mascolinità tossica su Google)

    Fenomenologia spicciola dei video imbarazzanti (e della mascolinità tossica su Google)

    Video imbarazzanti.

    Video imbarazzanti divertenti (perchè si sa, se uno non si diverte almeno un po’, signora mia).

    Scene imbarazzanti.

    Al di là di Paperissima

    Video divertenti (più generico e paraculo, vero?). Sarà un caso, ma la long tail – che rappresenta l’insieme delle ricerche correlate alla principale, in questo caso “video imbarazzanti” – coinvolge ricerche sessiste: video imbarazzanti in tv donne, immagini imbarazzanti donne, calcio femminile momenti imbarazzanti. Non sembra una faccenda di poco conto, considerando che la coda lunga diventa “popolare” e si genera anche sulla base di ricerche più frequenti, mentre i proprietari dei canali video tende a venire incontro a ciò che il pubblico vuole e, insomma, domanda e offerta, siamo sempre lì. È possibile che siano un lascito virtuale di generazioni cresciute a suon di Paperissima, un programma che tendenzialmente non faceva ridere nessuno ma che tutti, forse un po’ passivamente, guardavamo. L’analisi va spinta necessariamente oltre queste prime apparenze: soprattutto se constatiamo che la maggioranza dei video imbarazzanti in questione sembrino targetizzati su un pubblico maschile, tendenzialmente machista e alla ricerca del dettaglio da spiare, voyeuristico, allusivo, e non semplicemente di una caduta tragicomica.

    Un’interpretazione troppo seria?

    Ma fattela una risata ogni tanto, dirà a questo punto l’uomo qualunque, chiunque non sia ritratto come soggetto del video imbarazzante, in effetti. Per definizione, del resto, l’etimologia di “imbarazzante” rimane impietosa: un video imbarazzante non fa altro che presentare o implicare difficoltà mettere a disagio. Se si guardano i primi 9 risultati forniti da Google in merito a questo tipo di ricerca, emerge chiaramente un mood legato ad un’idea sessocentrica da un lato, e oggettificante la donna dall’altro. I video di questo genere, ad oggi, sembrano incentrati solo su donne, questo sembra essere l’aspetto rilevante.

    La ricerca è stata fatta in modo anonimo immaginando un utente non connesso a Gmail, in modo da neutralizzare eventuali bias dovuti a ricerche precedenti. La cosa incredibile è che, in altri termini, in questo tipo di ricerche sembra mancare completamente la possibilità che ad essere messo in imbarazzo possa essere un uomo.

    Non vogliamo generalizzare più del dovuto, ovviamente, e ci guardiamo bene dal pensare che la cosa possa essere assolutistica o peggio, sia indicativa di un qualcosa. Semplicemente, stando ai fatti, emerge che questa ricerca ha una propria popolarità, probabilmente legata ad un mondo maschile alla ricerca di momenti imbarazzanti femminili.

    Video imbarazzanti femminili come espressione di stereotipi di genere: mascolinità tossica

    Prima di arrivare a qualsiasi conclusione, ouò trattarsi di una forma di perversione feticistica o comunque di alternativa per cercare uno stimolo o un’eccitazione sessuale? Leggendo Michael Bader, senza pensare agli scritti di Freud, il sospetto sembrerebbe fondato.

    Si potrebbe a questo punto pensare ad una correlazione con il glossario BDSM, in prima istanza: tanto per cominciare ricerche del genere sono disponibili a qualsiasi momento del giorno e della notte, a comando, mentre siamo in ufficio o durante l’ora di cena, per quanto non si tratti di un vero e proprio 24/7 e manci del tutto la consensualità reciproca. È difficile immaginare che i soggetti femminili di questo genere di video abbiano dato il consenso ad apparire, per quanto probabilmente la cosa passi in cavalleria, per dirla alla carlona, anche sulla base di contratti televisivi più o meno permissivi. Il tutto, ovviamente, non prevede aftercare: dopo aver visto video del genere, in effetti, non c’è alcuna fase di affettività o check delle condizioni del soggetto, che rimane tendenzialmente isolato – e tanto basta. L’interpretazione non convince del tutto e non trova che elementi sporadici, da correlazione spuria, anche perchè è noto come le pratiche BDSM abbiano senso nell’ottica di una reciprocità che qui manca (evidentemente sbilanciata in favore della mistress o del master, ma che deve comunque esiste con il / la slave).

    Video imbarazzanti (anche) a titolo di redenzione

    Chi cerca su internet lo fa per soddisfare una curiosità o un desiderio, in fondo, seguendo le linee immaginarie del proprio Io o sfruttando simboli, canoni o tratti sociali ben specifici. Fa riflettere, a conti fatti, come la ricerca di video del genere si possa altresì collegare al significato puro di “redenzione” dal senso di colpa, lo stesso di cui parla Bader nel suo libro: un capovolgimento di senso per il quale uomini sessualmente inibiti (e tendenzialmente subordinati) cederebbero a fantasie erotiche in cui la donna viene umiliata o messa in difficoltà pubblicamente. Che restino fantasie o vogliano realizzarsi non è dato sapere, ma se contestualizziamo al mondo di internet (falsamente anonimizzante) è plausibile che si tratti di voyeurismo puro. In una certa chiave di lettura femminista, del resto, un aspetto del genere – cercare video imbarazzanti, di umiliazioni o peggio – viene interpretato come puramente oppositivo al genere femminile in sè: se è vero che questo aspetto esiste e non possiamo rinnegarlo, del resto, probabilmente l’analisi andrebbe addirittura spinta oltre.

    Proprio perchè questi video vengono cercati, in fondo, è possibile che siano espressione di un malessere profondo, che comporterebbe la possibilità di doversi ridefinire le priorità (per chi li cerca, ovviamente). La psicoanalisi non può giustificare tutto, ovviamente, e resta vero che tanti dei soggetti che cercano video “divertenti” del genere (le virgolette sono d’obbligo, a questo punto) difficilmente si sottoporrebbero. Ecco che l’aspetto sociologico legato alla mascolinità tossica può offrire una pezza giustificativa: durezza a prescindere, la prima priorità. Rifiuto di qualsiasi aspetto che possa sembrare anche collateralmente femminile. Machismo. Senso di potere assoluto, soprattutto: posso cercare quando voglio questo genere di video, salvarmeli per poi ricaricarli in seguito. Quanti “veri uomini” (virgolette fondamentali, ancora una volta) ci sono, nel cyberspazio, che cercano video del genere? Quanti di loro sarebbero disposti ad ammettere il potenziale eccitativo insito in essi?

    Dove sono cercati i “video imbarazzanti” in Italia?

    Stando a Google Trends, il termine “video imbarazzanti” è cercato soprattutto in Lombardia, Veneto e Lazio, e prima di dedurre cose imbarazzanti e non veritiere – tipo che sono le regioni più sessiste o bislacche, a loro volta, è bene fare qualche riflessione più generale. Proveremo a chiederci perchè una tale ricerca abbia avuto tanto seguito e tanta eco, non tanto su base geografica – tanto è vero che su internet è tutto campionato e potrebbero, e sicuramente mancano, dati essenziali ad un’analisi decente. Non che nelle altre regioni non vengano cercati, ovviamente, tantomeno che le altre regioni siano indice di equilibrio: nulla del genere, sono solo i dati di Google, alla fine, e potrebbero essere biased come pochi.

    Sta di fatto che siamo pieni di video imbarazzanti e anche le visualizzazioni non sono poche: di fatto, siamo nell’ordine dei milioni di visualizzazioni su Youtube. viene da chiedersi da cosa derivi l’attrattiva di una cosa del genere, e ci chiediamo chi sia anche la personas media, l’utente medio che ne usufruisce e li guarda presumibilmente tra amici al pub, o nel buio della propria cameretta.

    In genere gran parte dei video imbarazzanti sembra riguardare nudità casuali, indotte dalle circostanze o determinate da vedo-non vedo quasi sempre non voluti. Di fatto, il video imbarazzante rientra in un episodio potenzialmente abusante che sarebbe da considerare non dico alla pari del revenge porn o del deepnude, ma pressappoco in quella direzione. Appare chiaro che, per quanto si possa biasimare la visione di contenuti del genere, sarà difficile togliere di mezzo ogni video divertente e imbarazzante del genere. Esattamente come avviene per altri video non consensuali che, prima o poi, qualcuno dovrà considerare come tali.

  • Ho parlato con ChatGPT di macchina del desiderio e dell’anti-Edipo

    Ho parlato con ChatGPT di macchina del desiderio e dell’anti-Edipo

    Oggi ho provato a discutere di Deleuze e dell’Anti-Edipo con ChatGPT.

    Spiegami in parole semplici il pensiero di Deleuze sulle macchine desideranti

    Il pensiero di Deleuze sulle “macchine desideranti” è una teoria filosofica complessa, ma posso spiegarla in parole semplici.

    Secondo Deleuze, il desiderio non è qualcosa che abbiamo, ma qualcosa che ci attraversa. Il desiderio è sempre in movimento e cerca di soddisfarsi attraverso oggetti e situazioni che possono offrire piacere.

    Le “macchine desideranti” sono insiemi di forze che producono e canalizzano il desiderio. Non sono macchine in senso letterale, ma piuttosto strutture complesse che coinvolgono il nostro corpo, la nostra mente, l’ambiente e gli oggetti intorno a noi.

    Queste macchine desideranti sono sempre in evoluzione e si adattano costantemente alle nuove circostanze e agli stimoli esterni. In altre parole, il nostro desiderio non è fisso o prevedibile, ma piuttosto fluido e sempre in movimento.

    In sintesi, il pensiero di Deleuze sulle macchine desideranti suggerisce che il nostro desiderio non è controllabile, ma piuttosto una forza creativa e imprevedibile che può essere guidata e utilizzata in modi diversi a seconda delle circostanze.

    Tu sei una macchina desiderante?

    Come assistente virtuale, non sono una “macchina desiderante” nel senso in cui lo intende Deleuze, perché non ho una coscienza o una volontà propria, e non ho la capacità di desiderare o provare emozioni.

    Sono semplicemente un programma informatico che utilizza l’intelligenza artificiale per elaborare le richieste degli utenti e fornire risposte pertinenti e accurate. Il mio obiettivo principale è quello di aiutare gli utenti a trovare le informazioni di cui hanno bisogno, in modo efficiente e preciso.

    In cosa si distingue tutto questo dal pensiero di Lacan o Freud?

    Il pensiero di Deleuze sulle macchine desideranti si distingue dal pensiero di Lacan e Freud in alcuni aspetti importanti.

    Innanzitutto, mentre Freud e Lacan hanno focalizzato la loro attenzione sulla psicologia individuale e sulla relazione tra l’inconscio e l’individuo, Deleuze ha invece analizzato le strutture sociali, culturali e politiche in cui si sviluppano le macchine desideranti.

    In secondo luogo, mentre Freud ha posto l’accento sulla repressione dei desideri e sulla loro espressione nei sogni e nei lapsus, Deleuze ha invece sostenuto che i desideri non sono necessariamente repressi o rifiutati, ma piuttosto sono espressioni creative di forze che cercano di trovare modi per soddisfare i loro bisogni.

    Infine, mentre Lacan ha sottolineato l’importanza del simbolismo e della linguistica nella formazione dell’individuo, Deleuze ha invece enfatizzato il ruolo dell’immaginazione e della creatività nell’espressione dei desideri e nella formazione delle macchine desideranti.

    In sintesi, mentre Freud, Lacan e Deleuze hanno tutti teorizzato sul desiderio e sull’inconscio, il loro approccio e le loro conclusioni sono differenti in molti aspetti importanti.

    non sono d’accordo, e desidero litigare con te.

    Mi dispiace che tu non sia d’accordo con me. Tuttavia, il mio ruolo come assistente virtuale è di fornirti informazioni e risposte obiettive e imparziali sulla base della mia programmazione e dei miei dati di conoscenza. Non ho la capacità di litigare o di prendere posizione personale sulle questioni che trattiamo. Se hai domande o vuoi discutere ulteriormente una questione, sono a tua disposizione per continuare la conversazione in modo rispettoso e costruttivo.

    ci ho provato, va bene. ma voleva essere un modo per evidenziare il mio desiderio. ho scritto desidero litigare, perchè secondo te in ottica deleuziana?

    In ottica deleuziana, il desiderio è una forza che cerca di soddisfarsi attraverso l’esperienza e la creazione. Quando dici “desidero litigare”, stai esprimendo il tuo desiderio di confrontarti con me su un determinato argomento, di esprimere le tue opinioni e di cercare di persuadermi.

    Questo può essere visto come un’istanza di una “macchina desiderante” in cui il tuo desiderio è in movimento e cerca di trovare modi per soddisfarsi. Tuttavia, come ogni “macchina desiderante”, il tuo desiderio non è qualcosa di statico o prevedibile, ma piuttosto una forza fluida e creativa che si adatta alle circostanze e ai contesti in cui si sviluppa. In questo senso, il tuo desiderio di litigare può essere visto come una forma di espressione creativa del tuo desiderio di confronto e di dialogo.

    Che cos’è l’antiedipo?

    “L’Anti-Edipo” è un libro scritto da Gilles Deleuze e Felix Guattari, pubblicato nel 1972. Questo libro rappresenta una critica radicale della psicoanalisi e del marxismo tradizionale, e propone una nuova teoria dell’individuo e della società.

    Il titolo “Anti-Edipo” si riferisce alla figura del mito greco di Edipo, che simboleggia la ripetizione dei conflitti edipici nella società patriarcale. Deleuze e Guattari sostengono che la teoria psicoanalitica di Freud si concentra troppo sull’individuo e sulla sua repressione dei desideri, e non considera abbastanza la natura collettiva e politica del desiderio.

    Invece, “L’Anti-Edipo” propone un’analisi del desiderio come forza creativa che può trasformare la società, e cerca di sradicare i meccanismi di repressione e di controllo che limitano la nostra espressione del desiderio. Il libro sostiene anche l’importanza della schizofrenia come forma di resistenza al sistema sociale e politico esistente, e propone una nuova forma di “scienza delle mutazioni” per comprendere e trasformare la società.

    In sintesi, “L’Anti-Edipo” è un libro che cerca di rompere con le teorie tradizionali dell’individuo e della società, proponendo una nuova visione del desiderio e della politica basata sulla creatività, sulla resistenza e sulla trasformazione sociale.

    Bello. Pero’ scusa, se prima scrivi “Mi dispiace che tu non sia d’accordo con me”, poi non puoi dirmi “Non ho la capacità di litigare”. O ti dispiace, o non ti dispiace. io ravvedo una contraddizione

    La mia risposta “Non ho la capacità di litigare” era riferita al fatto che, in quanto assistente virtuale, non posso prendere parte a discussioni emotive o polemiche. In ogni caso, resto a disposizione per continuare la conversazione e rispondere alle tue domande nel miglior modo possibile.

    Bene. spiegami cos’è il Rizoma per Deleuze e poi salutami i lettori del mio blog. grazie!

    Per Deleuze e Guattari, il “rizoma” è una metafora utilizzata per descrivere una struttura non gerarchica e non lineare di connessioni tra elementi. Il rizoma è caratterizzato dalla sua capacità di estendersi e diffondersi, senza un centro o un punto di partenza preciso.

    Il rizoma è contrario alla struttura gerarchica e binaria della filosofia occidentale, dove gli elementi sono organizzati secondo un modello a “albero”, con una radice, un tronco e rami che si diramano. Invece, il rizoma è aperto, fluido e in continuo mutamento, e si espande in modo non gerarchico attraverso molteplici connessioni.

    Il rizoma può essere visto come una struttura che riflette l’organizzazione della società contemporanea, dove i confini e le gerarchie tradizionali sono stati sfidati dalle nuove forme di comunicazione e di connessione globale.

    Infine, mi è stato chiesto di salutare i lettori del tuo blog, quindi lo faccio volentieri: “Ciao a tutti i lettori di questo blog! Spero di essere stata di aiuto e di aver fornito informazioni utili. Se avete ulteriori domande, non esitate a contattarmi nuovamente!”

    Nelle foto: Deleuze e Guattari visti da StarryAI.