DENTRO_ (99 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Un’introduzione all’iperstizione

    Un’introduzione all’iperstizione

    (l’intervista che segue è stata tradotta da lipercubo.it ed è tratta dal sito orphandriftarchive)

    Delphi Carstens intervista Nick Land.

    Anno 2009.

    Nella seguente intervista Nick Land risponde ad alcune domande sui meccanismi dell’Iperstizione nel contesto dell’apocalisse – un tema leggero – giusto per cominciare col botto.

    Q1. Potresti approfondire cosa c’è di occulto… cosa sarà rivelato dall’apocalisse?

    R1. Ciò che è nascosto (l’Occulto) è un ordine del tempo estraneo, che si tradisce attraverso “coincidenze”, “sincronicità” e indicazioni simili di una disposizione intelligente del destino. Un esempio è il modello cabalistico occultato nelle lingue ordinarie – un modello che non può emergere senza erodersi, dal momento che la comprensione generalizzata (umana) e l’uso deliberato dei gruppi di lettere come unità numeriche chiuderebbe il canale della “coincidenza” (informazione aliena). È solo perché le persone usano le parole senza numerizzarle che esse rimangono aperte come canali per qualcos’altro. Dissolvere lo schermo che nasconde queste cose (e nascondendole, permette loro di continuare), significa fondersi con la fonte del segnale e liquidare il mondo.

    Q2. Scrivere sull’apocalisse la ricaccia nell’ombra/la codifica in modo più pesante… oppure l’atto di indagare sull’apocalisse aiuta a decodificarla e attualizzarla?

    R2. Per i teisti, il primo. Per i naturalisti trascendentali (come i cibernetici iperstizionali), quest’ultima.

    Q3. Potresti approfondire il concetto di “sforzo iperstizionale”? Iperstizione è una parola chiave nel lessico della mia tesi… mi chiedevo se potessi scomporre il termine in un linguaggio che i normali accademici (come il mio supervisore!) possano capire. L’iperstizione è la spina dorsale o il canale in cui confluisce tutto ciò che è apocalittico, ma di cosa si tratta esattamente? Potresti definirlo? Il modo in cui lo capisco dal Catacomic è che si tratta di un meme o di un’idea attorno alla quale si cristallizzano idee/traiettorie). (i grassetti sono miei, ndt)

    R3. L’iperstizione è un circuito di feedback positivo che include la cultura come componente. Può essere definita come la (tecno-)scienza sperimentale delle profezie che si autoavverano. Le superstizioni sono semplicemente false credenze, ma le iperstizioni – per la loro stessa esistenza come idee – funzionano in modo causale per realizzare la propria realtà. L’economia capitalista è estremamente sensibile all’iperstizione, dove la fiducia agisce come un tonico efficace, e viceversa. L’idea (fittizia) del cyberspazio ha contribuito all’afflusso di investimenti che lo hanno rapidamente convertito in una realtà tecnosociale.

    Il monoteismo abramitico è anche molto potente come motore iperstizionale. Trattando Gerusalemme come una città santa con uno speciale destino storico-mondiale, ad esempio, si è assicurato l’investimento culturale e politico che trasforma questa affermazione in verità. L’iperstizione è quindi in grado, in circostanze “favorevoli” la cui esatta natura richiede ulteriori indagini, di trasmutare le bugie in verità.

    L’iperstizione può quindi essere intesa, dal lato del soggetto, come una complicazione non lineare dell’epistemologia, basata sulla sensibilità dell’oggetto alla sua postulazione (anche se questa è ben distinta dalla posizione soggettivistica o postmoderna che dissolve la realtà indipendente dell’oggetto in strutture cognitive o semiotiche). L’oggetto iperstizionale non è una mera invenzione della “costruzione sociale”, ma è in un modo molto reale “evocato” all’esistenza dall’approccio adottato nei suoi confronti.

    Q6. Esiste l’iperstizione al di fuori del tempo e come si nasconde? Ciò è affascinante, soprattutto in relazione al meme dell’apocalisse, che non lo è affatto. Come si relazionano i due termini?

    R6. Il tempo è l’operare nel tempo storico di ciò che sta fuori (ma si costruisce attraverso) il tempo storico. L’Apocalisse chiude il circuito.

    D7. In che modo l’iperstizione si collega al capitalismo come campo di forza?

    R7. Il capitalismo incarna dinamiche iperstizionali a un livello di intensità senza precedenti e insuperabile, trasformando la banale “speculazione” economica in un’efficace forza storica mondiale.

    Q8. Puoi dire qualcosa sul tema della finzione – cioè storia e filosofia come finzione, e finzione come attualizzazione più intensa del potenziale storico / scientifico / tecnologico / sociologico?

    R8. L’iperstizione è in equilibrio tra finzione e tecnologia, ed è questa tensione che conferisce intensità a entrambe, sebbene l’intensità della finzione debba tutto al suo potenziale (catalizzare i “divenire” iperstizionali) piuttosto che alla sua realtà (che può essere mera espressività umana). .

  • Su quante volte andare dal terapeuta

    Su quante volte andare dal terapeuta

    Un articolo di Richard A. Friedman sull’Atlantic, ripreso qualche giorno fa anche da Internazionale, racconta che “molte persone potrebbero – o dovrebbero – abbandonare la terapia in questo momento, rimarcando la questione non come una minaccia, ovviamente, bensì come un’opportunità. La psicoterapia di tanti, in altri termini, è utile e costruttiva ma non può durare per sempre. Quanto deve durare, allora?

    Se ci si ragiona un attimo, da addetti ai lavori o meglio – nel mio caso – da semplici profani (meri lettori forti di psicologia e psicoanalisi, in terapia da anni, qualsiasi cosa ciò possa, o meno, implicare) ci si rende conto che la questione è forse più giornalistica che altro. Quante volte andare dallo psicologo o chi per lui? Ah, boh. Perché sarebbe come chiedere quante volte andare dal dentista, dal fisiatra o dall’oculista per il resto della nostra vita. Ci andremo, banalmente (la banalità a volte è salvifica) tutte le volte che ci servirà, tutte le volte che ne avvertiremo il bisogno, o tutte le volte che qualcuno più competente ci suggerità di farlo (il nostro Io, il nostro Es, il nostro SuperIo sono chiamati probabilmente in causa).

    La questione della durata della psicoterapia appare (forzosamente) connessa con quella dell’efficacia, in una sociatà apertamente capitalista e utilitarista come quella in cui viviamo. E non si tratta, quasi certamente, di una questione di upper bound temporali. Perchè io sono il capo di me stesso, dirigo l’azienda del mio inconscio, pago denaro sonante – e figa, esigo i risultati, da buon milanese imbruttito.

    Vale la pena riprendere l’incipit di quell’articolo, che traduco liberamente di seguito:

    Circa quattro anni fa, un nuovo paziente venne a trovarmi per una consulenza psichiatrica: si sentiva in qualche modo bloccato. Era in terapia da 15 anni, e continuava ad andarci nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo. Invece di lavorare sui problemi legati ai sintomi, lui e il suo terapista parlavano delle sue vacanze, dei lavori di ristrutturazione della casa e dei problemi in ufficio. Il suo terapista era diventato, in effetti, un amico costoso e soprattutto solidale. Eppure, quando gli ho chiesto se stesse pensando di interrompere la terapia, è diventato titubante, persino ansioso. “È semplicemente entrato nella mia vita“, mi ha detto.

    Friedman è un docente di psichiatria clinica e parla, evidentemente, a ragion veduta: si tratta di una situazione anomala da vari punti di vista – da profano, s’intende. E proprio perché si tratta di una casistica che – se anomala è in qualche modo discriminatorio definire – è quantomeno sbagliato generalizzare o renderla addirittura epitomica. Come sono a loro modo semplicistici, eppure ampiamente accettati socialmente, i vari commenti caustici sul senso della terapia: “un lusso per ricchi“, “tanto vale parlare con amico“, e per fortuna che qualche professionista si accorge che qualcosa non quadra e nei commenti lo fa presente. Dannati commenti dei social, così veri eppure così falsi. Eppure – dal 2020 in poi, soprattutto . sappiamo che la verità non si può stabilire, in nessun caso, a suon di like. Ammesso che ci sia un assoluto, una oggettività da ristabilire.

    In primis il terapeuta-amico (un ossimoro che farebbe rabbrividire molti addetti ai lavori) avrebbe dovuto interrompere la relazione a suo tempo e modo, ritengo. Ì una valutazione che faccio anche sulla base di quegli accenni di probabile auto-diagnosi che lo stesso Freud aveva mille dubbi a propinare (“nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo“: come facciamo ad esserne sicuri? Come facciamo a dire con certezza che erano davvero svanite? Perchè continuava ad andare in terapia, se la depressione e l’ansia erano sparite? Anche solo da un punto di vista logico, forse qualcosa non torna.).

    In secondo luogo questa storia è già fin troppo ingarbugliata, e parla di psichiatra che ascolta un paziente avere un problema ricorsivo col proprio terapeuta. Si parla di persone che hanno dei problemi, e si sta cercando di costruire un teorema su questa storia, giustp?  Come se non bastasse, è abbastanza vero che la terapia sia un lusso che – in Italia, ad esempio – non tutti si possono permettere, tra scuole di specializzazione che arrivano a costare migliaia di euro all’anno per gli aspiranti terapeuti e pazienti che – nella maggioranza dei casi – si pagano da soli la terapia, quando i bonus psicologo sono erogati poco e male (la regione Calabria, ad esempio, li ha erogati soltanto in parte, lasciando vari richiedenti / potenziali aventi diritto nel dubbio, ad oggi, se mai arriverà qualcosa per loro).

    “Tra coloro che se lo possono permettere – sottolinea l’autore – la psicoterapia regolare è spesso vista come un progetto che dura tutta la vita, come allenarsi o andare dal dentista. Gli studi suggeriscono che la maggior parte dei pazienti in terapia può misurare i propri trattamenti in mesi anziché in anni, ma una buona parte dei pazienti attuali ed ex si aspetta che la terapia duri indefinitamente. Sia i terapisti che i clienti, insieme alle celebrità e ai media, hanno approvato l’idea di andare in terapia per periodi prolungati o quando ti senti bene. L’ho visto io stesso con amici che sono fondamentalmente sani e pensano che avere un terapista sia un po’ come avere un coach.”

    È evidente che chi si affida a un terapeuta lo fa per propria volontà, ed è anche evidente che non si tratta di stabilire nuovi livelli di dipendenza ma creare autonomia. È un dubbio che ho esplicitato alla mia ex terapeuta qualche mese fa, il che è stato liberatorio almeno quanto averle confidato tantissime altre cose di me. Tutte cose che una buona terapia deve raccontare, accogliere ed elaborare, un po’ per definizione, perchè non si tratta di prestazioni occasionali e non si tratta di produrre un risultato nel massimo tempo X. Tipo una scadenza, un limite temporale da diagramma di Gantt, un upper bound, e poi vieni in ufficio che ti parlo del mio progetto. E poi, per carità, basta stravolgere i ruoli e capovolgere l’episteme: psicologia non è coaching così come un geometra non è un ingegnere, un dentista non è un podologo e così via.

    Si tratta di capire se effettivamente un terapeuta possa tenere in cura una persona che non ne ha bisogno solo per il vile denaro, ed è questa la domanda da farsi.  No, io non credo che ci siano lì fuori così tanti terapeuti disposti a fare una cosa del genere, perchè l’etica professionale ha il proprio peso e, se vogliamo, per lo stesso motivo per cui i chirurghi non operano al cervello solo per portare a casa la pagnotta. metterla su questo piano temo che sia anche frutto di un semplicismo de-ideologizzato, in cui la gente parla di queste cose senza sapere chi siano Jacques Lacan, Felix Guattari o Franco Basaglia. Non che sia obbligatorio saperlo, però magari uno si fa un’idea. Al limite, chiede a qualche terapeuta abilitato. E la sensazione generale è che possa esistere un forte movimento no psycho, che banalizza o irride la (portata/durata delle) sedute, considera dei poveracci quelli che lo fanno e via dicendo. Liberissimi di pensare quello che vogliono, altrettanto liberi noi pazienti di ignorare bellamente le loro (presuntuose) istanze.

    Persistono vari livelli di confusione, peraltro, in cui si può cadere. C’è un altro grande problema legato alla pretesa di oggettività della terapia, quando la disciplina è per sua natura soggettiva – e quello che vale per un caso clinico non vale per altri novecentonovantanove, di solito. C’è certamente l’aspetto a volte doloroso per alcuni del separarsi dal proprio terapeuta, un aspetto che per alcuni diventa tabù: ma è un passaggio necessario da affrontare con fiducia e coraggio, e che ho affrontato anche io. L’ho fatto nella mia piccola esperienza usando la soluzione sommessamente suggerita fin dai tempi di Freud: la terapia della parola, ovvero parlandone al mio terapeuta e identificando l’annesso demone. L’aspetto della dipendenza e della separazione fu oggetto di una critica esplicita già nell’anti-Edipo durante gli anni 70, e mi limiterò a ribadire che tanti problemi di questo tipo sono contestuali, e non tutto è controllabile o dipende da noi (lezione imparata con anni di terapia, peraltro).

    Nulla da obiettare sul fatto di scrivere articoli divulgativi su questi argomenti, qualcosa da obiettare sul fatto di renderli clickbait e di dar l’impasto alla solita folla informe e le boniana sui social, cosa per cui in effetti non mi sento di colpevolizzare nessuno. Non possiamo nemmeno farne una questione di durata, come se un muscolo dovesse abituarsi, come se fosse una questione di fare fisioterapia per 20 sedute o di allenare un po’ i bicipiti. Come se si trattasse di allargare le spalle o di scolpire il fisico, e tantomeno come se fosse normale che la terapia diventi una chiacchierata tra amici. Per favore: liberissimi di affidarvi a chi volete o meno, ma evitiamo il settarismo e soprattutto manteniamo (per il bene dell’umanità tutta) i limiti epistemologici. Non stiamo parlando di robot o macchine, ma di esseri umani. Al limite, di macchine desideranti. Senza peraltro scomodare questioni prettamente cliniche – che sono per l’appunto soggettive, e che ci risparmiamo di fare: per lo stesso motivo per cui non ci azzarderemmo a dare suggerimenti clinici a una persona che arriva in questo sito perché ha mal di denti, non ne abbiamo titolo e lo accettiamo pacificamente senza sputare sentenze sul prossimo.

    E poi sì, magari evitiamo l’altro equivoco molto italiano di confondere tra mille mondi diversi (sfumature diversissime: terapeuta, psicologo, motivatore, personal coach). Il problema di fondo delle terapie troppo lunghe è sostanziale ma non è risolvibile dall’esterno, per quello forse non era il caso di scriverci addirittura un articolo generalizzante e dal sapore pseudo-teorico, come se stessimo parlando della descrizione di un fenomeno fisico newtoniano che avviene sempre allo stesso modo, in un laboratorio di fisica del MIT come di fronte al bar sotto casa. L’errore di fondo è anche che viviamo in una società prettamente fideistica, ed è ormai radicato l’equivoco epistemologico, per lo stesso motivo per cui ci fidiamo meno dei medici e più dei santoni, meno dei terapeuti e più dei preti (forse), attribuendo una presunta “scientificità dura” ad una scienza che, al contrario, possiede la soggettività nel proprio statuto epistemologico, per quanto poi questo aspetto non sia ancora troppo valorizzato.

    Anche perché alla prova dei fatti la realtà è soggettiva e spesso più inosservabile di quanto vorremmo, quasi nessuno è davvero esperto di episteme, si relativizza la medicina e si oggettivizza la psicoanalisi e, nel mentre, nemmeno gli elettroni si fanno guardare. Suggerisco di leggere a riguardo, se interessa, sia l’articolo linkato che la sua versione ironico-parodistica: Guida pratica al gatto di Schrödinger. E soprattutto non banalizziamo i problemi nostri, tantomeno quelli altrui. Perchè ognuno ha i propri tempi, e vanno rispettati. (P.G.)

  • Benvenuti nella spirale del silenzio

    Benvenuti nella spirale del silenzio

    Che cos’è l’opinione pubblica? Secondo il sociologo Ferdinand Tönnies è un qualcosa che “pretende di essere autorevole”, e che al tempo stesso presenta un potenziale autoritario: “esige il consenso, costringe al silenzio, all’astensione dalla contraddizione“. Questo produce l’effetto che la maggioranza sia “costretta” al silenzio, persa nella propria impotenza e nella paura di esprimere un parere che non percepisce come abbastanza popolare o socialmente accettabile.

    Nel 1974 Elisabeth Noelle-Neumann (una sociologa tedesca), nell’idea ciò che è diventato noto nella letteratura scientifica come spirale del silenzio, ha descritto le euristiche (algoritmi approssimati) che gli umani utilizzano per dedurre quali siano le opinioni più popolari, per poi comportarsi di conseguenza. Arrivando a sostenere che la probabilità con cui una persona esprime un’opinione, soprattutto su argomenti controversi o molto dibattuti, sia condizionata dalla stima della forma dell’opinione pubblica.

    12.4.1991
    Tagung der Ludwig-Erhard-Stiftung im Hotel Königshof – Verabschiedung des alten Vorsitzenden der Ludwig-Erhard-Stiftung MD a.D. Dr. Karl Hohmann, Begrüßung des neuen Vorsitzenden Staatssekretär Dr. Otto Schlecht (Amtswechsel am 1.3.1991)

    La spirale del silenzio appare come teoria di formazione dell’opinione pubblica e si basa sul presupposto che per alcuni individui, o per la maggioranza di essi, sia più importante non isolarsi che possedere un parere personale su un tema sensibile. Questo naturalmente induce una discreta quantità di conformismo nel computo del mondo in cui viviamo, per quanto la teoria in questione non sia universalmente accettata e – come molti altri studi sociologici – sia profondamente dibattuta ancora oggi.

    Considerazione finale di un Mago Merlino accelerazionista

    La tristezza si spegne imparando. Il tuo corpo cede, le tue vene gridano, l’amore svanisce; il mondo esplode sotto la follia, il tuo onore affoga nel fango. Non importa: impara. Scopri perché il mondo si muove, cosa lo guida, quali ingranaggi lo alimentano. La conoscenza non si consuma, non tradisce, non ferisce, non si teme, non si rimpiange. È l’unica arma, l’unica rivoluzione. Impara, perché tutto il resto andrà in rovina.

     

  • Guida pratica al cinema dell’oblio

    Guida pratica al cinema dell’oblio

    L’oblio è un termine che indica la perdita o l’incapacità di ricordare qualcosa, sia temporaneamente che permanentemente. Si riferisce alla mancanza di memoria o al fatto di dimenticare informazioni, eventi, dettagli o esperienze passate. Questo fenomeno può manifestarsi in modi diversi e può essere causato da varie ragioni, come lo stress, l’invecchiamento, disturbi neurologici, traumi cranici, disturbi psicologici, condizioni mediche, o semplicemente come una caratteristica normale della memoria umana.

    Secondo Freud, il concetto di “rimosso” si riferisce a ricordi, desideri o esperienze traumatiche che sono stati inconsciamente soppressi o dimenticati. L’oblio, in questo contesto, può essere considerato come una forma di difesa psicologica che nasce dalla repressione di contenuti emotivamente dolorosi o disturbanti. Freud credeva che certi ricordi o desideri potessero essere così disturbanti da essere spinti nell’inconscio, rendendoli inaccessibili alla consapevolezza. Questi ricordi repressi o rimosso possono influenzare il comportamento e la psiche di una persona senza che essa ne sia consapevole. Ad esempio, una persona potrebbe mostrare determinati schemi comportamentali o reagire in modo specifico a certe situazioni a causa di ricordi o desideri repressi di cui non è consapevole.

    L’oblio può anche riguardare la dimenticanza di dettagli quotidiani, come dove si sono lasciate le chiavi, ma può anche estendersi a eventi importanti della vita o a informazioni significative. Può essere temporaneo, come dimenticare qualcosa per un breve periodo di tempo, o può essere permanente in casi più gravi, come nelle malattie neurodegenerative.

    L’oblio in questo contesto potrebbe rappresentare una manifestazione di questo processo di repressione, dove certi ricordi o esperienze dolorose vengono dimenticati o nascosti dalla coscienza a causa del loro impatto emotivo o delle loro implicazioni psicologiche. Tuttavia, è importante notare che il concetto di rimosso freudiano è ampiamente dibattuto e non è universalmente accettato da tutti gli psicologi e ricercatori nel campo della psicologia contemporanea.

    Il cinema presenta un’ampia filmografia dedicata al tema centrale dell’oblio.

    Spider

    “Spider” è un film del 2002 diretto da David Cronenberg, in cui il protagonista, interpretato da Ralph Fiennes, è un uomo di nome Dennis Cleg che soffre di gravi disturbi mentali e di amnesia.

    Il film segue la vita di Dennis Cleg, chiamato anche Spider, mentre viene trasferito in una casa di cura dopo essere stato rilasciato da un istituto psichiatrico. Spider lotta con la sua memoria frammentata e con i ricordi confusi del suo passato, cercando di ricostruire eventi traumatici della sua infanzia e le complesse relazioni familiari.

    La narrazione del film si intreccia tra la realtà e la percezione distorta di Spider, mostrando i suoi sforzi nel tentativo di capire ciò che è accaduto nella sua vita e nel suo passato, mentre la sua mente è intrappolata in un labirinto di ricordi distorti e ambigui.

    Il tema dell’oblio è centrale nella trama di “Spider”, poiché il protagonista cerca di recuperare e dare un senso ai frammenti del suo passato, cercando di affrontare eventi traumatici e di riavvicinarsi ai ricordi sepolti della sua infanzia. Il film esplora la natura della memoria, dell’identità e della percezione, portando lo spettatore a entrare nella mente fratturata del protagonista e nelle sue struggenti lacerazioni psicologiche.

    Di B3t - catturato personalmente, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2976057
    Di B3t – catturato personalmente, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2976057

    Oblivion

    Di Supernino – Screenshot autoprodotto, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4629489

    Oblivion è un film di fantascienza del 2013 diretto da Joseph Kosinski. Il film è ambientato in un futuro post-apocalittico e vede Tom Cruise nel ruolo del protagonista.

    La trama ruota attorno a Jack Harper (interpretato da Tom Cruise), un tecnico di manutenzione incaricato di monitorare e riparare droni difensivi su una Terra desolata, abbandonata e devastata da una guerra contro una razza aliena chiamata “Scavs”. Gli umani hanno vinto la guerra, ma la Terra è diventata inabitabile e gran parte della popolazione si è trasferita su un’altra luna di Saturno, chiamata Tet.

    Mentre Jack compie le sue missioni di manutenzione, inizia a mettere in discussione la verità sulla guerra e sul suo ruolo nell’intera situazione. Una serie di eventi lo portano a scoprire informazioni che mettono in discussione la sua comprensione della realtà e delle sue stesse origini.

    Il film è apprezzato per la sua estetica visiva, gli effetti speciali e la colonna sonora coinvolgente. La storia affronta temi di identità, memoria, tradimento e riscatto, mentre il protagonista cerca di scoprire la verità dietro la sua esistenza e il suo ruolo in un mondo devastato.

    “Oblivion” è stato apprezzato per la sua ambientazione visivamente accattivante e per la sua trama che mescola elementi di fantascienza con elementi più intimi e personali.

    “Memento” (2000)

    Memento” è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan e racconta la storia di Leonard Shelby, interpretato da Guy Pearce, un uomo che soffre di amnesia anterograda, una condizione che gli impedisce di creare nuovi ricordi a lungo termine dopo un trauma. La trama del film è narrata in modo non lineare, seguendo due trame temporali che si intrecciano:

    Leonard cerca disperatamente di trovare l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, e di vendicarsi.

    La sua ricerca è complicata dalla sua condizione di amnesia, quindi si affida a polaroid, tatuaggi e appunti scritti su sé stesso e oggetti per ricordare chi è, cosa sta facendo e chi è la persona che deve trovare.

    Il film si apre sul finale, portando lo spettatore all’inizio della storia. La narrazione procede poi all’indietro attraverso una serie di eventi, rivelando nuovi dettagli e retroscena.

    “Shutter Island” (2010)

    Credits: imdb.com

    Diretto da Martin Scorsese, questo thriller psicologico racconta la storia di due detective che indagano sulla scomparsa di una paziente da un’ospedale psichiatrico sull’isola di Shutter. Il film esplora la memoria e la percezione in modo disturbante.

    “Before I Go to Sleep” (2014)

    Basato sul romanzo di S.J. Watson, segue la storia di una donna che ogni giorno al risveglio scopre di aver perso la memoria degli ultimi 20 anni a causa di un incidente. Lei inizia a scoprire verità inquietanti sulla sua vita.

    “Unknown” (2011)

    Un uomo si risveglia in un ospedale scoprendo che qualcun altro ha preso la sua identità, ma l’intera sua vita sembra essere stata dimenticata o sostituita da qualcun altro.

  • “Realismo capitalista” di Mark Fisher ha profetizzato un Reale che non si può esprimere

    “Realismo capitalista” di Mark Fisher ha profetizzato un Reale che non si può esprimere

    Mark Fisher muore suicida a soli 48 anni dopo essere diventato uno degli autori accelerazionisti di spicco e promosso le proprie idee con lo pseudonimo k punk.

    All’interno del suo libro Realismo capitalista Fisher delinea un trattato compatto e ricco di riferimenti alla cultura pop su quello che viene definito realismo capitalista. Per farlo, fa partire la trattazione incentrando il focus sull’idea accelerazionista promossa da I figli degli uomini, un film di fantascienza post-apocalittica di Alfonso Cuaròn (noto anche per aver diretto in seguito un episodio di Harry Potter). Una fantascienza fuori dal mainstream che presentava qualche punto di contatto con 2019 dopo la caduta di New York di Sergio Martino: in entrambi si attraversa l’apocalisse come se fosse una condizione ordinaria, alla ricerca di una nuova Eva che potrebbe ridare vita al genere umano, condannata diversamente all’estinzione da uno stop delle nascite, causa eccessiva radioattività. È uno dei tanti film simbolisti e politici che abbiamo visto nei cinema, ma Fisher punta l’accento in particolare sull’attraversamento, sul fatto che l’unico modo per attraversare la crisi sia attraversarla, in qualche modo (the only way out is the way through: l’unica via d’uscita è attraversare le cose), per quanto poi il come finisca per possedere sfumature e modalità molto diverse, da teorie neutre politicamente a quelle di estrema sinistra o, alternativamente, estrema destra. Si presuppone che le nuove tecnologie e il capitalismo debbano essere accelerati il più possibile, partendo dal presupposto che sia impossibile fermarli e anzi, rischi di essere solo controproducente.

    Mark Fisher (scatto di Nina Power). Credits: Nero Edizioni
    Mark Fisher (scatto di Nina Power). Credits: Nero Edizioni

    Una normalità apocalittica, dicevamo, che non sembra nemmeno troppo difficile da immaginare, presi dai nostri piccoli e medi drammi quotidiani mentre assistiamo, del tutto inermi e quasi sempre scoraggiati, al declino progressivo di un’umanità allo sbando, tra clickbait, fake news e periodici annunci di imminenti apocalissi. Possibile – si chiede Fisher – che davvero non ci aspettino sostanziali cambiamenti di sorta, e che non rimarremo più spiazzati da quello che verrà? Nelle ultime pagine del libro, dopo aver attraversato vari argomenti (dal politico al sociale, passando per la psicoanalisi lacaniana e la critica marxista classica) una lapidaria risposta sembra esistere, ed è il massimo dell’esaltazione lirica dello stile dell’autore, che riportiamo qui integralmente:

    “La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista signfica che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sporporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere tutto, di colpo, torna possibile.”

    Realismo capitalista è un’espressione ripresa da Fisher a partire da Michael Should e da un gruppo di artisti pop art tedeschi degli anni Sessanta, e fa riferimento all’arte basata sull’uso delle merci (oltre ad essere, ovviamente, un calco del realismo socialista noto in ambito politico. In quest’opera è da interdersi come il mood che pervade il capitalismo corporativo in cui viviamo, intento a frammentare ed atomizzare le singolarità, facendo sentire l’individuo “solo contro tutti” (in pieno stile liberista) e arrivando addirittura, scrive Fisher, a far considerare le malattie mentali come problematiche individuali senza legame sociale.

    Vengono pertanto in mente i flussi a cui facevano riferimento Guattari e Deleuze nell’Anti Edipo, in risposta alla diffusa tendenza borghese nell’affrontare le problematiche psico-sociali nel salotto freudiano, come a dire: c’è dell’altro, esistono flussi che partono da un nodo ed arrivano ad un altro, mentre la dimensione psicoanalitica da sola non basta più a spiegare tutto. Va messo anche l’aspetto sociologico in ballo, anche perchè la propaganda capitalista sembra funzionare molto meglio di quella fascista o stalinista, e può rivelarsi complesso da comprendere e contestualizzare, se non lo si fa.

    Karl Marx cyberpunk visto da DALL E
    Karl Marx cyberpunk visto da DALL E

    Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura, del resto: e questo dovrebbe essere più che sufficiente a trovare nuovi stimoli per risolvere i dilemmi moderni senza ricalcare stili e scelte fallimentari precedenti. Questo vale a cominciare dalla malattia mentale, con riferimento alla depressione che porterà Fisher al suicidio nel 2017, il cui lascito per le forze progressiste è esplicito: la sinistra dovrebbe urgentemente ripoliticizzare la questione psichiatrica, contestualizzandola alla critica del capitale, scrive l’autore. Il capitalismo stesso è, secondo l’autore, quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato di questa accettazione passiva (o meglio ancora interpassiva) è un consumatore spettatore che arranca tra ruderi e rovine. Il capitalismo non può esistere, osserva Fisher, senza la nostra esplicita cooperazione.

    Il capitalismo diventa, per Fisher, un mostro simile a La cosa di John Carpenter,  informe e dai confini variabili, pronto a cannibalizzare qualsiasi aspetto sociale e quotidiano e a rendere inesistente, ad esempio, la sacrosanta distinzione tra vita privata e lavorativa. Portarsi il lavoro a casa sarebbe l’espressione del massimo disagio indotto dal capitalismo, ed il capitalismo è molto abile a desacralizzare e svilire qualsiasi credenza. Con un risultato tragicamente vero, del resto: senza dimensione sacrale, senza credere letteralmente in nulla, la dimensione simbolica lacaniana viene abolita.

    Ricorrendo ad una delle sue consuetre omofonìe (les non-dupes errent, letteralmente i non creduloni vagano, che suona uguale a les noms du père, il nome del Padre) Lacan aveva sottolineato – come Zizek ha più volte rimarcato, per inciso – come la perdita del simbolico indotta sul seguace acritico del capitalismo possa avere conseguenze imprevedibili: chinque si consideri realista, cinico, disilluso, pragmatico (come avverrebbe anche per un incel, in effetti) può sbagliare esattamente come chiunque altro adoperi o creda, a qualsiasi livello, in un sistema simbolico. Anzi, peggio ancora: la dimensione pragmatica o iper-realistica rischia di risultare più ingannevole perchè distinta, di suo, da quella del Reale (se n’era accorto anche Baudrillard formulando i suoi simulacri, in effetti). Alla meglio, il Reale può essere una variabile X non rappresentabile di origine traumatica (secondo la psicoanalisi classica, almeno) che può essere al massimo intravista tra le spaccature o le contraddizioni della realtà che ci appare ogni giorno (i simulacri).

    Definire il reale è complicato, nemmeno Lacan ha mai fornito una definizione dello stesso univoca e, in definitiva, “la cosa innominabile”, il realismo capitalista, se ne approfitta bellamente. To get real significa, nell’accezione hip hop stradaiolo ad esempio, confrontarsi con uno stato di natura in cui cane mangia cane, dove o sei un vincente o sei un perdente, dove sei spinto a sentirti sfigato se non ti spari un corso di seduzione online – e dove i più, neanche a dirlo, sono condannati di default a perdere.

    L’unica maniera per mettere in discussione realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente o indifendibile diventa una sola: ribadire che di realista, in qualche modo, questo capitalismo non ha nulla.