SERIE TV_ (11 articoli)

Parliamo delle serie TV più citate e note, soprattutto thriller e horror.

  • Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna è la docuserie lampo di Netflix (di appena 4 puntate) che racconta la storia di due tra i personaggi TV più iconici di sempre: Wanna Marchi e Stefania Nobile, coppia TV di madre e figlia, nella veste delle iconiche venditrici di prodotti cosmetici (e di lì a poco, di consulti magici, rituali del sale, del desiderio, del danaro, del corallo), dedite ad una singolare forma di upselling telefonico che venne, infine, giudicato come estorsione da una giuria. La scrittura della docuserie in questione è affidata ad Alessandro Garramone, già noto per la sceneggiatura di Italian Horror Stories, mentre produzione e regia sono affidate a Gabriele Immirzi e Nicola Prosatore.

    Tutti abbiamo bisogno di illusioni, nella vita! (W. Marchi)

    Si tratta di quattro episodi per una durata complessiva di circa due ore, visionabili su Netflix a partire da settembre 2022, con la presenza di Wanna Marchi, Stefania Nobile, Federica Landi, Roberto Da Crema, che vengono sia proposti in veste storico-televisiva. Da Crema, ad esempio, è il televenditore che oggi sarebbe probabilmente un meme internet, dal caratteristico tono di voce alto ed esasperato che, come ammette lui stesso candidamente, era inizialmente legato alla sua scarsa esperienza in ambito TV, che interpretava le proprie performance come fosse in un centro commerciale senza microfono. La docuserie è ricca di lunghe, personali e approfondite interviste, mentre viene esplicitato nel finale come le protagonisti abbiano scontato le loro pene e siano, ad oggi, libere cittadine. Wanna Marchi proviene da una famiglia di umili origini, con un marito con cui ha un rapporto complicato ed una figlia a cui è legatissima, tanto da farla esordire in TV come sua spalla fin da giovanissima (il documentario è infarcito di spezzoni TV d’epoca, ovviamente).

    La dinamica delle televendita viene spiegata dalla docuserie ben nel dettaglio: l’hype delle seminali e numerosissime TV commerciali (primi anni ottanta) si stava per scontrare con la necessità di fare cassa, cosa non facile per imprenditori a volte improvvisati o poco avveduti che, come avvenuto nel caso in questione, sfruttavano televendite “memetiche”, facilmente riconoscibili, dirette, molto aggressive, che portarono inaspettatamente a vendite stellari.

    Parliamo della vendita di cosmetici che poi, come viene mostrato, ad un certo punto più non basta: si passa alla vendita di “numeri fortunati” al lotto, di talismani contro la sfortuna e via dicendo, in una catena commerciale infinita che prevedeva, per inciso, l’interlocuzione diretta per telefono con tutti i clienti (circa 300 mila, di cui solo qualche centinaio accettò di testimoniare al processo subito nel 2006). Fa sensazione pensare a tutti questi italiano che “credevano“, come si meraviglia di ammettere una ex centralinista durante un’intervista: il che indica la generazione sottovalutazione del sentimento di credenza o credulità popolare, a nostro avviso, mettendo in luce – cosa che viene apertamente ammessa – come il successo del trio Marchi, Nobile, Do Nascimento fosse da imputare più a cosa (e come lo) dicevano, che ai prodotti in sè. Non importa se poi fossero, come è stato, cure dimagranti o per la cellulite, numeri del lotto, talismani, fino ad arrivare alle televendite telefoniche basate sull’urgenza, sul pericolo imminente quanto non sulla minaccia ai clienti, a livello implicito o esplicito. Non importava perchè il prodotto si situava in un territorio borderline che, ad un certo punto, sfugge di mano alle stesse protagoniste.

    La Marchi auto-assume (con grande personalità ed una buona dose di sfrontatezza, mescolata ad una incoscienza di fondo che quasi certamente fu presente tra gli “ingredienti” di questa storia) il ruolo di leader aziendale, guadagnando tantissimi soldi grazie ad una capacità teatralizzante di effettuare vendite, sfruttando la credenza di cui sopra. Il tutto fino a  insospettire la Finanza, grazie ad una celebre segnalazione al programma Striscia la notizia ed una signora che si prestò a fare da “gancio” per avviare l’inchiesta (un format, quello di Mediaset, che possiede forse un’idea discutibile della comicità e della satira, ma che su questi frangenti è sempre stato molti passi oltre chiunque altro). Fa ancora più impressione, del resto, la linea difensiva delle Marchi, che si muove (estremizzando un po’ la sintesi) sulla falsariga del darwinismo sociale, per cui non sarebbe affatto un delitto raggirare degli ingenui.

    La sua aggressività iconica, in barba a qualsiasi criterio di razionalità e tabù moderno sul body shaming (la Marchi appellava fin dall’inizio come “grasse” le clienti target a cui si rivolgeva, e questa cosa era uno dei tratti distintivi del suo registro di comunicazione), sembrava far parte di una strategia psicologica (probabilmente non del tutto consapevloe) quanto alla prova dei fatti efficace: l’attacco frontale e senza mezzi termini serviva a sbarazzarsi della reticenza nell’acquisto, costruendo un bisogno nel futuro acquirente e facendolo sentire in dovere di fare come dicevano dall’altra parte del telefono.

    Cosa che portò la tele-venditrice più famosa d’Italia negli anni ottanta e novanta a guadagnare molti soldi, salvo doversi confrontare con situazioni non sempre trasparenti (al dramma familiare si aggiunge, ad esempio, la circostanza con cui il suo negozio viene in una circostanza preso di mira, incendiato da ignoti). Niente male, a conti fatti e dopo il trascorrere di qualche tempo, per una persona che nasce e cresce nella promozione di prodotti cosmetici, e che racconta le circostanze incredibili con cui ha arricchito la propria esistenza, fino a scontrarsi con un fallimento negli anni novanta e un processo per truffa e associazione a delinquere.

    Approfondimento esterno: Psicologia e manipolazione mentale

    Wanna colpisce nella lucidità delle testimonianze presentate dai protagonisti delle vicende, ed è interessante cogliere una sostanziale (e poco ovvia, per certi versi) riflessività della vicenda: se accettiamo che personalità del genere siano tipi psicologici più o meno “machiavellici“, il fatto che siano riuscite a vendere l’improbabile a varie gradazioni non le immunizza, come potrebbe sembrare, dal dare per scontato che il loro target fosse altrettanto sincero. In pratica, stando a questa visione psicologica, se è vero che la manipolazione c’è stata è altrettanto vero che non sarebbe comunque facile, per loro, notare a loro volta se qualcuno stesse mentendo

    Magra consolazione, per le vittime, ma tant’è: se una personalità machiavellica tende per sua natura mentire, il rovescio della medaglia è che non per forza si accorgerà se l’Altro mente, a sua volta. Il che suggerisce una escalation di significanti per cui, per associazione di idee neanche troppo arbitraria, che ciò che hanno fatto non siano le sole ad averlo fatto, che insomma il mood trasmesso da Wanda sia stato quasi riciclato da certe multinazionali digitali, per non parlare dei vari settori borderline di vendita-fuffa di cui il web è zeppo. A quel punto non puoi nemmeno farne una questione personale, per così dire, e non ti resta che chiederti: ma come hanno fatto, in quegli anni, a vendere più prodotti di quel tipo che cellulari costosi? Altro interrogativo non da poco consisterebbe, poi, nel chiedersi se quanto avvenuto sia così localizzato, o sia diventato, al contrario, emblematico di un certo modo di vendere abusando della buonafede altrui (con vari gradienti di gravità, s’intende) mediante leve psicologiche, cosa a cui dovremmo essere abituati un po’ tutti, peraltro, a giudicare dal ritmo e dal tenore delle telefonate di marketing da cui siamo tragicamente tempestati.

    Il sistema di vendita della Marchi, così come viene descritto nella docuserie in questione, ricorda in parte quello proposto dalla versione moderna del telemarketing, il digital marketing nelle sue forme più aggressive, anche lì basato sulla costruzione di bisogni e su vari gradi di upselling – ad un certo punto si iniziano a vendere numeri del lotto vincenti e, nel caso in cui non uscissero, si proponeva la lettura delle carte da parte dell’iconico, anche qui, Mário Pacheco do Nascimento. Nulla che in effetti su internet non sia ampiamente diffuso da anni, e sul quale sono cambiate certe modalità di erogazione, in parte, ma non la sostanza: la distrubuzione mediante ads ambigue di info-prodotti fake, pseudo-formazione e via dicendo, rimane ancorata al registro dell’aggressività, dello sminuire il prossimo, con marketer ambiziosi, sprezzanti ed egotici (oltre che moralmente discutibili), dell’”io so’ io e voi non siete un cazzo” di marco-grilliana memoria, uno strano mood che dovrebbe soltanto infastidire ma che, a conti fatti, accresce solo il senso di urgenza dell’acquisto nelle persone più fragili, in un delirio di iperboli e tecniche di manipolazione (implicita ed esplicita) che, spiace riconoscerlo, continuano a funzionare ancora oggi.

    La canzone “prendimi” della colonna sonora di Wanna è il brano Cinque minuti di te di Don Antonio, The Graces. Wanna è disponibile in streaming su piattaforma Netflix.

  • Bats goth nightclub è uno dei meme del secolo

    Bats goth nightclub è uno dei meme del secolo

    Su internet (e su Youtube in particolare) è noto con due nomi alternativi: bats goth nightclub oppure bats goth club, ma la sostanza non cambia.

    Sulle prime da’ un’impressione specifica per gli appassionati di musica: è un video in cui si vedono dei pipistrelli che ballano, apparentemente, al ritmo di un brano dark o goth rock. Sul momento si potrebbe pensare ad un video ufficiali di quelli destinati a migliaia di visualizzazioni su internet, magari realizzato a scopo promozione da una band del genere. Poteva anche essere, in effetti, ma quel video è in realtà frutto della creatività di chi naviga in rete.

    Accompagnato quasi sempre, nelle sue versioni video, da Katarsis dei She Past Away (brano dell’ambulm Narin Yalnizlik), la maggioranza di questi video sono fan art, mentre il video in questione è tratto dalle telecamere dello Zoo di Kyoto.

    L’unica vera particolarità del video è che è stato girato al contrario, con la camera rovesciata di 180 gradi, con la telecamera rovesciata, dando la suggestiva ed impressionante sensazione che i pipistrelli siano ballando al ritmo del brano.

    Le discoteche goth sono da quest’anno al centro dell’attenzione anche della cultura pop, soprattutto da quando sono usciti fuori cose come il ballo di Mercoledì Addams, all’interno della serie omonima di Tim Burton, in cui l’attriche dichiara di essersi ispirata a video di repertorio di quel periodo.

    Qui sotto potete trovare la GIF animata di una parte del video.

    Brani di sottofondo del meme bats goth nightclub

    Tra i vari brani che troviamo come colonna sonora di questo meme, ci sono vari nomi coinvolti, ad esempio abbiamo trovato questi:

    1. Судно (Борис Рижий) – Molchat Doma
    2. Bela Lugosi’s dead – Bahaus
  • Archive 81: recensione, trama e cast della serie TV su Netflix

    Archive 81: recensione, trama e cast della serie TV su Netflix

    Da due settimane Archive 81 – Universi alternativi di Rebecca Thomas si trova sulla cresta dell’onda tra gli spettatori di Netflix, anche in Italia – dove è comparsa con tanto di buon doppiaggio (tanto vale scriverlo a chiare lettere). Classe 1984, la Thomas è nota per il film (ispirato a Pasolini, per la cronaca) Electrick Children e per un episodio (il primo ) di Stranger Things, oltre che per questo Archive 81 prodotto e distribuito da Netflix e Atomic Monster, con Paul Harris Boardman e James Wan (Insidious, Saw: L’enigmista) come produttore esecutivo.

    VHS ritrovate, ambientazione da inizio anni 80, tensione e distorsioni temporali ci conducono in una dimensione narrativa complessa, accattivante e che si preannuncia piuttosto lunga. Ma cosa c’era in quelle videocassette?

    Trama

    Dan è un esperto di archivistica in grado di recuperare vecchi nastri di VHS d’epoca, riportandoli in condizione di poter essere visionati. Durante il proprio lavoro si imbatte nella singolare storia del condominio Visser, distrutto da un incendio ed i cui condomini sembrano scomparsi nel nulla. Una multinazionale di cui non si sa nulla nemmeno dal web, nel frattempo – la LMG – lo contatta per proporgli un restauro pagato una cifra spropositata, da svolgersi  in una casa sperduta modello Shining. Inutile sottolineare che durante il proprio lavoro succederanno strane cose: i personaggi dei filmati VHS sembrano quasi rivolgersi a lui, e la figura del padre del protagonista (prematuramente scomparso) apparirà all’interno di uno dei nastri.

    E se la LMG fosse un’enorme multinazionale di giochi da tavolo? […]

    Recensione

    La genesi dell’opera è senza dubbio curiosa perchè, tanto per cominciare, è stata prodotta sulla falsariga narrativa dell’Inferno di Dante Alighieri. Quantomeno, il riferimento è sostanziale: il protagonista si chiama Dan (T.), mentre il suo accompagnatore sarà, come si scoprirà, Virgil. Ma non solo: non mancano i personaggi di Beatrix, il cerchio (riferimento a quello dantesco) e naturalmente, essendo una serie thriller horror, Kharon, il Caron dimonio. Alla base della trama gli aspetti più inquietanti legati alle videocassette VHS (per qualche strano motivo quel formato video induce una specie di paura ancestrale) nonchè alla storia, confermata solo in parte, che alcune di esse fossero state commercializzate come snuff (ovvero filmati in cui si assiste a morti reali, di animali o persone, non sceneggiate o simulate). L’inferno di Archive 81 non sembra dissimile da quello mortifero, inquietante e a suo modo ordinario di Antrum.

    Fosse solo una serie TV modello mockumentary horror, forse, non varrebbe forse neanche la pena approfondirla: certo, i riferimenti ad elementi fondanti di film come V/H/S, The last horror movie The poughkeepsie tapes, S&MAN non sono da poco, e restano sostanziali. Ma c’è dell’altro, e basta vedere i primi trenta minuti dell’episodio pilota (su Netflix, ovviamente) per capacitarsene. Peraltro, gli stessi vengono declinati dentro Archive 81 (dove 81 fa riferimento all’anno 1981, per capirci) nel senso più paranoico possibile. Ed è chiaro che Dan è un archetipo, oltre che letteralmente dantesco, del protagonista medio di serie come Ai confini della realtà, travolto o coinvolto da un gioco più grande di lui, forse manipolato da tante scatole cinesi panottiche, in cui tutti possono spiare tutti. Nulla di diverso dal mondo qualunquista e iperconnesso in cui viviamo, in effetti, e di cui questo Archive 81 si mostra in tutta la propria preoccupazione, tensione e paranoia, per una serie che è (solo per comodità) di genere horror sovrannaturale e che, ad oggi, conta otto episodi in tutto. Molto probabilmente e come da tradizione, non si fermerà neanche a questi ultimi.

    Del resto il buon Dan, difensore della propria privacy dalle incursioni internet (come dice a più riprese lui stesso), a parte essere un personaggio romeriano – un solitario, oppresso dalla società e di etnia afro-americana, come il Duane Jones / Ben de La notte dei morti viventi –  è uno scettico convinto: non crede al sovrannaturale, lo rigetta e nasconde un passato traumatico (aveva pure un padre docente di psicologia, come se non bastasse). Un vero e proprio en plein di stereotipi psico-sociali – e, anche solo per questo, vittima designata delle peggiori sofferenze di qualsiasi opera di questo tipo.

    Opera molto diretta, pertanto, ispirata ad un sottogenere mockumentary preciso e a suo modo archetipica (nonostante l’idea di fondo non sia nuova), diretta brillantemente da una regista con le idee chiare. Girata, peraltro, riportando alla luce le narrazioni classiche di pseudo-snuff exploitativi, paranoici e gran guignoleschi come quelli citati: il mood paranoico e spaventoso non è cambiato, e farlo diventare una serie TV relativamente pop non era cosa banale.

    Tanto più se nel farlo si evitano gli eccessi dei vari filmacci qui citati, rimanendo su un equilibrio visuale e comunicativo di sostanza, che si riflette, soprattutto, in un horror lucido quanto onirico, anche solo nella trovata dei “paralleli comunicanti” mediante nastri VHS. Nastri, questi ultimi, simbolo di un tempo che non c’è più, di un filmato amatoriale che è simbolo quasi implicito di scheletro nell’armadio, filmato amatoriale come locuzione più ambigua che mai (..amatoriale in che senso?). Un cinema ritrovato on the road, parte del vissuto di ognuno di noi,un espediente narrativo in parte abusato ma che qui, nonostante tutto, si rinnova con saggezza nel gioco di ricicli del caso.

    Archive 81 è anche debitore di (ovvi?) echi ottantiani, gli stessi che serie come Stranger Things hanno saputo sfruttare (forse in vaga modalità poser, in quel caso), sulla falsariga del dubbio ancestrale che un qualche parente di qualsiasi famiglia custodisse sempre e comunque VHS atipiche nell’armadio della nonna. Ma anche solo (se preferite) del sano, classico e archetipico effetto nostalgia, lo stesso rievocato periodicamente da radio e TV – nonchè sbeffeggiato da South Park mediante la trovata dell’uva parlante, i ricordàcini.

    Effetto che in questa sede va al di là della semplice evocazione modello “si stava meglio quando si stava negli anni 80″: grazie alla trovata dei mondi paralleli alternativi, di fatto, dentro Archive 81 il sottogenere acquisisce, finalmente, nuova linfa. Suscita, a suo modo, curiosità rinnovata, anche nel pubblico meno propenso o più disilluso da mille mostri e villain considerati poco attuali o poco credibili. Il tutto anche grazie all’idea di un protagonista credibile quanto insolito, affiancato da una sorta di doppelganger femminile con cui ovviamente, si instaurerà fin da subito una sorta di legame psichico. Due protagonisti – forse volutamente, a questo punto – fuori norma, romeriani e carpenteriani a tutti gli effetti perchè multi-etnici, umani e coinvolgenti.

    Ci basta questo per farci amare, una volta tanto, una serie TV: specie noi che difficilmente le apprezziamo, in generale, siamo felici di essere smentiti.

    Cast

    Mamoudou Athie – Dan Turner
    Dina Shihabi – Melody Pendras
    Evan Jonigkeit – Samuel
    Ariana Neal
    Matt McGorry
    Martin Donovan Martin Donovan …
    Daniel Johnson Daniel Johnson …
    Kate Eastman Kate Eastman …
    Charlie Hudson III Charlie Hudson III …
    Kristin Griffith Kristin Griffith …
    Johnna Leary Johnna Leary …
    Eden Marryshow Eden Marryshow …
    Jacqueline Antaramian Jacqueline Antaramian …
    Jaxon Rose Moore Jaxon Rose Moore …
    Trayce Malachi Trayce Malachi …
    Sol Miranda Sol Miranda …
    Hilda Ivette Rodriguez Hilda Ivette Rodriguez …
    Martin Sola Martin Sola …
    Shay Guthrie Shay Guthrie …
    Gameela Wright Gameela Wright …
    Africa Miranda Africa Miranda …
    Allyson R. Hood Allyson R. Hood …
    Penelope Bauer Penelope Bauer …
    Frances Chao Frances Chao …
    Dennis Joseph Dennis Joseph …
    Georgina Haig Georgina Haig …
    Roger Petan Roger Petan …
    Robert Kwiatkowski Robert Kwiatkowski …
    Meg Hennessy Meg Hennessy …
    Nick Podany Nick Podany …
    Gilles Geary Gilles Geary …
    Zach Villa Zach Villa …
    Ellen Adair Ellen Adair …
    Michelle Federer Michelle Federer …
    Emy Coligado Emy Coligado …
    Mitzi Akaha Mitzi Akaha …
    Anaya Farrell Anaya Farrell …
    Ken Bolden Ken Bolden …
    Carla Brandberg Carla Brandberg …
    Curtis Caldwell Curtis Caldwell …
    Ebony Cunningham Ebony Cunningham …
    Jay Klaitz Jay Klaitz …
    Rosie Koster Rosie Koster …
    Angela Nicole Hunt Angela Nicole Hunt …
    Jake Andolina Jake Andolina …
    Ahlam Abbas Ahlam Abbas …
    Kaylin Horgan Kaylin Horgan …
    Teri Clark Teri Clark …
    Joseph Cannon Joseph Cannon …

    Trailer ufficiale

     

     

  • La puntata di South Park sulla pandemia è imperdibile

    La puntata di South Park sulla pandemia è imperdibile

    The Pandemic Special (episodio 1 della stagione 24) è stata trasmessa in Italia qualche mese fa, un’unica volta, sul canale Comedy Central, dopo essere uscita il 30 settembre 2020 negli USA. Ed era anche ovvio che sarebbe uscita fuori, a ben vedere: raccontare come venga gestita l’emergenza sanitaria a South Park, in un clima di assoluto caos, era un’occasione da non lasciarsi sfuggire e che ben si sposa, per quanto sembri scontato riconoscerlo, con il mood generale della serie.

    La puntata è impreziosita da vari riferimenti cinematografici: su tutti, il momento in cui i bambini della scuola vengono messi in quarantena (si sospetta che Butters abbia preso il virus), è accompagnato dalla celebre colonna sonora di Essi vivono. Tutto è grottesco nella gestione della pandemia, a South Park: dall’atteggiamento dei ragazzi che guardano con scetticismo la didattica a distanza (Cartman che finge di avere problemi di connessione), passando per l’atteggiamento della polizia che freme per poter attuare misure repressive, a finire con l’atteggiamento delle famiglie, preoccupate quanto sospettose del distanziamento. Al centro della vicenda c’è Randy Marsh (il padre di Stan), che è entrato nel commercio di mariujana legale e che, dato il periodo, sta proponendo un’offerta speciale per venderla.

    Mentre ascolta le ultime notizie dal TG, si rende conto di essere stato il potenziale veicolo di infezione del coronavirus: quando è andato in Cina a fare bagordi con Mickey Mouse, infatti, ricorda di aver fatto sesso sia con un pipistrello che con un pangolino. A quel punto si convince di essere stato il paziente zero, e resta in bilico tra due scelte: non dire nulla, e lasciare che la pandemia dilaghi, oppure svelare mediante analisi del DNA quello che ha fatto, pur di trovare una cura. La puntata focalizza inoltre le consuete contrapposizioni tra posizioni che sono tipiche (quanto grottesche) anche nel nostro paese, spesso evitando le contrapposizioni scontate (mask contro no mask) e declinandole in maniera da farle sembrare ridicole (chi usa la mascherina contro chi, al contrario, la indossa tenendola abbassata, a mo’ di pannolino).

    Nel farlo, gli autori esprimono un punto di vista ben chiaro, sferrando un attacco molto diretto contro l’ex presidente Trump, che viene accusato (senza troppe allusioni) di sguazzare nel clima repressivo imposto dalla pandemia. Lo vediamo chiaramente in un momento: il Presidente USA (che poi è il signor Garrison nella sua ennesima personificazione di altri personaggi) non si vede per tutta la puntata, se non per un momento in cui parla al telefono con uno dei bambini della serie: il suo ruolo sarà brutale, quando determinante in negativo, solo in seguito.

    Quando il pangolino oggetto delle ricerche, dal quale si potrebbero trarre informazioni utili per il vaccino, viene finalmente ritrovato (e consegnato alle autorità addirittura da Cartman, il personaggio più egoista della serie), Garrison irrompe capovolgendo l’esito della storia in un twist forse tra i più clamorosi, quanto amari, mai visti in South Park. Il messaggio è lì, dirompente ed esplosivo, per quanto implicito: il presidente non ha alcun interesse a trovare un rimedio alla situazione.

    Tra le perle contenute in questa puntata, è impossibile non citare la canzone di Cartman che interpreta a modo proprio la quarantena: niente più obblighi scolastici, niente più imposizioni, restano solo abbuffate e videogame.

    Dove vedere la puntata su internet

    Al momento la puntata in questione non sembra reperibile on demand su nessun canale, ma è disponibile gratuitamente, con audio e sottotitoli in inglese, sul sito ufficiale della serie:

    https://www.southparkstudios.com/episodes/yy0vjs/south-park-the-pandemic-special-season-24-ep-1

  • Disicanto: Groening colpisce ancora

    Disicanto: Groening colpisce ancora

    Disincanto è la nuova sitcom di Groening che sta spopolando su Netflix, e che propone una ennesima collezione di personaggi grotteschi e surreali. Un lavoro che arriva alla sua terza stagione (da circa un mese anche in Italia su Netflix), nasce nell’estate del 2018 ed arriva da noi solo in seguito, e sul quale vale la pena di spendere qualche parola.

    L’ispirazione visiva di Disincanto parte dai Simpson ma anche da Futurama, dal quale si eredita un fortissimo mood satirico, spesso collegato con la realtà recente (Make DreamLand Great Again, ad esempio). Ad un’analisi più approfondita, più dai paradossi e dal gusto per l’assurdo tipico del secondo, con la differenza fondamentale che l’ambientazione è quasi del tutto fantasy. Ed è già questo abbastanza insolito, dato che difficilmente si vedono in giro versioni parodistiche di questo genere (che di solito omaggia – e deve molto – all’horror e alla fantascienza, al limite). Groening sembra quindi aver deciso di mollare il modello Simpson, e di declinare Futurama in maniera leggermente diversa: il mondo di DreamLand è dominato da elfi, principesse e animali parlanti, ma l’universo di Disincanto é puramente immaginario e decisamente compatto, come lo sarebbe quello de Il signore degli anelli.

    La storia è interamente svolta in un universo magico, epico quanto demenziale e con alcuni valori portanti invertiti (esempio: gli scienziati sono una specie di stregoni, gli esorcisti sono invece materialisti) altri, invece, intatti (società patriarcale, razzismo, sessismo, discriminazione delle minoranze), popolato di creature fantastiche (elfi, maghi, sovrani, giullari, orchi e così via). Un mondo tutt’altro che perfetto o ideale: esso è vittima, suo malgrado, delle psicosi e dei drammi esistenziali moderni, con figure di sovrani autoritarie quanto goffe, figlie ribelli, elfi bonaccioni e beoti ed un singolare demone-ombra (Luci) che caratterizza il lato ribella della protagonista (una principessa che beve, rutta e fa razzìe di ogni genere).

    Un mondo incantato (o disincantato, per meglio dire) oggetto di parallelismo con quello che conosciamo, e che avrebbe potuto far parte (senza l’apporto anticonformista di Groening) dell’universo classico della Disney. Esso viene declinato in senso cinico e materialista, per quanto mai sgradevole né eccessivo e, in breve, all’insegna di un sostanziale equilibrio narrativo. Questo va a vantaggio della fruibilità della storia, al netto di qualche momento di fiacchezza che poi, più o meno dagli ultimi episodi della seconda serie (Elfo, Luci e Bean che vanno all’inferno) riprende più vigorosamente quota.

    In Disincanto (ovviamente nomen omen significativo) si narra della storia della principessa Bean, avulsa ad un matrimonio di convenienza che il padre vorrebbe imporle, e dedita al vizio del gioco d’azzardo, dell’alcol e delle risse nei locali. La sua storia si intreccia con quella dell’elfo di nome Elfo, alienato e sensibile personaggio: lavora come addetto alla catena di montaggio, e si trova intrappolato in un mondo in cui le persone pensano a incartare regali (e, da buoni elfi, a gioire senza motivo).

    In questo, la frase da lui pronunciata nel primo episodio “Cantare mentre si lavora non è la felicità, è malattia mentale” sarebbe stata perfetta nelle digressioni distopiche di Terry Gilliam (Brazil), ma tra le principali influenze del lavoro è impossibile non citare Fritz The Cat: un film di animazione per adulti realmente di culto, ancora oggi inarrivabile – e dal quale si derivano, seppur in modo molto più frenato, varie allusioni sessuali e satiriche di cui la serie è cosparsa. Nella terza serie, ad esempio, si ironizza a più riprese sull’essere MILF della madre di Bean (la Regina Dagmar), rappresentata come una versione più fitness e molto più cinica della figlia.

    In tal senso Disincanto  ricostruisce un modo nuovo di comunicare, sempre sulla base dei classici stilemi di Groening, che sono sempre equilibrati e sostanzialmente godibili, al netto di qualche lungaggine narrativa. È impossibile non notare, peraltro, come Turanga Leela potrebbe essere il personaggio che ha ispirato la figura della principessa anticonformista, mentre l’Elfo sembra ripreso direttamente (sia nelle fattezze che nei maltrattamenti che subisce) da Bart Simpson.

    Di contro, Disenchantment non sembra avere dalla sua il dono della sintesi, con episodi singoli più lunghi della media di questi casi: questo sia rispetto alle produzioni classiche di Groening sia, ad esempio, rispetto alle sintesi cristalline di South Park, mentre rimane superiore narrativamente a qualsiasi episodio dei Griffin. Probabilmente, in altri termini, come potenziale lungometraggio avrebbe reso ancora meglio.

    Quel formato invece, alla lunga, rischia di stancare (nelle prime due stagioni), per quanto si tratti di una serie pensata per i fan dell’autore e caratterizzata dallo stile che ci saremmo sempre aspettati, quindi abbastanza da prendere per quello che è. Che la serialità sia un pregio o un difetto rimane, pertanto, un po’ dubbio: la critica è stata discorde a riguardo, ma devo riconoscere che sono più le cose che non convincono (eccessiva lunghezza della narrazione, un finale di stagione che mira all’incompiutezza “artistica” ma che, alla fine, non si capisce troppo se si tratta di un finale) che quelle che funzionano (tutti i siparietti in chiave satirica / anti-Potere sono eccellenti). Ad ogni modo è una serie da scoprire, e dalla quale provare a farsi coinvolgere, fermo restando la mia sostanziale avversione alla serialità che, ormai, domina nel mondo della produzione americana – come fosse un requisito senza il quale sia impossibile proporre la realizzazione di qualsiasi cosa.

    E se il cinema indipendente continua a regalarci orgogliosamente perle (ed altrettante porcate autoreferenziali) delle Settima Arte di massimo due ore alla volta, siamo costretti nostro malgrado (e senza nulla togliere) a visionare le ennesime operazioni del genere che, alla lunga, rischiano di saturare il mercato e appiattire la produzione. L’originalità dell’intreccio, ad ogni modo, costituisce un forte punto a favore dell’operazione, soprattutto a confronto della saga dei Simpson che, ormai da anni, sembrano aver perso qualsiasi mordente.