The Last House on Dead End Street (1973) di Roger Watkins è una pellicola che sembra uscita da un incubo dimenticato in una cantina umida, girata con la furia di chi non ha più niente da perdere. Il film si presenta come exploitation, ma sotto la crosta di crudeltà e amatorialità ribolle qualcosa di più profondo: un rifiuto viscerale del mondo dello spettacolo, dell’arte come merce, del cinema stesso come istituzione borghese.
La trama è scheletrica e disturbante: un ex detenuto, appena uscito di prigione, decide di girare un film pornografico estremo per vendicarsi della società che l’ha espulso. Recluta una manciata di complici e trasforma la produzione in un rituale di sadismo, violenza e autoannientamento. A ogni sequenza, la linea tra finzione e realtà si dissolve. Non si capisce più chi sta recitando e chi viene davvero torturato. Il film dentro il film divora quello esterno, e lo spettatore si ritrova intrappolato nella stessa trappola percettiva.
Watkins gira come se odiasse la cinepresa. L’immagine è sporca, granulosa, saturata di ombre che inghiottono i volti. Non c’è alcun piacere estetico nella messa in scena: solo la sensazione che la macchina da presa sia uno strumento di punizione, una lama che registra il fallimento del soggetto. Ogni inquadratura sembra dire: “questo non è cinema, è la sua carcassa”.
Il gesto di Watkins è radicalmente materiale. I personaggi non cercano catarsi o giustizia, ma visibilità: vogliono esistere almeno come immagine, anche se l’unico modo è farsi massacrare di fronte all’obiettivo. È la versione più sporca e disperata del rapporto tra produzione e sfruttamento: corpi che si offrono al consumo visivo per un pubblico che non vediamo mai, ma che sentiamo respirare dietro la pellicola, come un mostro affamato.
Verso la fine, il film implode su se stesso: i protagonisti vengono uccisi nella stessa performance che stanno filmando, e la macchina continua a girare, indifferente. È lì che The Last House on Dead End Street si trasforma da exploitation a elegia del nulla. Non c’è catarsi, solo un loop di riprese, una serie di gesti ripetuti finché tutto perde senso.
È un film marcio, deforme, ma autentico nella sua brutalità. Non ti invita a guardare — ti costringe. E quando finisce, resta quella sensazione sgradevole di aver assistito non a una storia, ma a un atto di autolesione collettiva: la messa in scena del desiderio di scomparire dentro l’unico dio che resta — la cinepresa.