Ospite Inatteso

  • I vampiri, il primo horror italiano di Freda e Bava

    I vampiri, il primo horror italiano di Freda e Bava

    La polizia indaga su una serie di omicidi di giovani donne, scoprendo una terribile verità legata alla figura di un’affascinante contessa…

    In breve. Il primo horror italiano in assoluto (se si esclude Il mostro di Frankenstein di Eugenio Testa, pellicola muta del 1920 ad oggi persa), incentrato su una serie di omicidi di giovani donne che vengono ritrovate prive di sangue. Gotico, horror e sci-fiction si fondono in uno dei cult assoluti del nostro cinema di genere.

    Noto con svariati titoli (tra cui Evil’s Commandment, Lust of the Vampire, The Devil’s Commandment, The Vampires, Les Vampires), è un film dall’importanza storica basilare per lo sviluppo del genere, soprattutto nell’Italia d’epoca abbastanza avulsa, di per te, a valorizzare storie sanguinose o violente. Freda inventa il proprio horror portando ai produttori un soggetto inciso su un magnetofono, con tanto di rumori sinistri all’interno: la storia, comunque, sembra dovere più di qualcosa a quella sinistra della contessa Erzsébet Báthory. Il film è incentrato sul mito della giovinezza, e sull’autentica ossessione per la bellezza che porta la protagonista a compiere delitti pur di soddisfarla.

    Bava si è occupato, oltre che della doppia regia, degli effetti speciali del film: notevole per l’epoca, ad esempio, la scena dell’invecchiamento precoce della baronessa, utilizzata a più riprese e diventata un leitmotiv dei film vampireschi (ad esempio ricorre in una lunga sequenza di Miriam si sveglia a mezzanotte con David Bowie). La tecnica usata è un ingegnoso gioco di contrasti di luce: l’attrice era truccata con un fondo di cerone blu (invisibile a causa del bianco e nero del film) e delle rughe di colore rosso, sfruttando poi un gioco di lampade colorate per nascondere o esaltarne l’invecchiamento. Una strategia da autentico artigiano dell’orrore che spiegò anche, in seguito, durante un programma televisivo (che trovate su Youtube).

    I Vampiri è carico delle classiche suggestioni del gotico, dai castelli maledetti ai riferimenti alla magia nera, in un agglomerato vintage che risulta forse un po’ datato, ad oggi, ma che resta in grado di mantenere il proprio fascino per i cinefili.

  • Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

    Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

    Tokio Fist è la trasfigurazione in chiave realistica di buona parte delle tematiche affrontate da Tetsuo: alienazione, incomprensione umana e sopraffazione fisica del forte sul debole. Le macchine sono qui sostituite dalla forza del pugilato, che diventa metafora di superamento e schiacciamento dell’altro, oltre che di smascheramento delle sue debolezze. I

    l film piacque molto all’epoca dell’uscita per l’efficace rappresentazione di tre caratteri umani, ma probabilmente risulta sopravvalutato e troppo “ordinario” rispetto al resto della filmografia di Tsukamoto.

    Un girantesco ring nel quale i tre protagonisti continuano a proporre scontri diretti e a darsele di santa ragione, senza tregua: è forse una metafora un po’ scontata per un film che ha come argomento collaterale la boxe. Tsuda è un brillante agente assicurativo di Tokyo, vive un rapporto difficile ed pieno di incomprensioni con la mite fidanzata Hizuru. La vita nella metropoli lo assorbe completamente, e lo ha trasformato in una sorta di succube alienato, che conosce l’efficenza ma non le basilari regole di sopravvivenza. Un giorno intravede a un incontro di pugilato Takuji, un vecchio compagno del liceo (quasi certamente un bullo), ormai rude pugile professionista che è l’esatto contrario di lui: sicuro di sè, forte fisicamente, prepotente nei confronti dell’altro. I rapporti tra i due diventano difficili non appena Takuji inizia ad intendersela con la fidanzata dell’amico, creando un turbolento triangolo di emozioni.

    Il “pugno di Tokio” (traduzione letterale del titolo) colpisce in faccia lo spettatore, toccandolo da subito nello stereotipato orgoglio maschile colpito mortalmente da un rivale in amore più forte. Gli scontri fisici tra i vari personaggi sono estremizzati, l’atteggiamento guerriero del personaggio protagonista – regolarmente riempito di botte, nonostante la sua apparente convinzione e “carica” iniziale – tende a degenerare nel parossismo: e se la cosa farà un po’ ridere lo spettatore meno abituato e più malizioso, si pensi che è stato fatto allo scopo di spazzare via la plastificata apparenza che è costretto ad indossare qualsiasi “colletto bianco”. Insomma i temi del film sono i soliti di Tsukamoto, sempre magistrale a rappresentare la conflittualità umana, l’alienazione metropolitana ed il suo gusto per lo sciacallaggio facile.

    Come sempre verso questa categoria di lavoratori “disumanizzati” Tsukamoto si pone non tanto come liberatore, quanto come possibile lenitore del loro dolore interno. E’ evidente che il male principale di Tsuda, che lo rende incapace di rapportarsi nel migliore dei modi con la propria compagna, è proprio la divisa che è costretto ad indossare, che lo rende pacifico, inerme ed incapace di reagire. E’ questo, probabilmente, diventa uno dei mali del millennio.

    Per il fatto che la storia sia inserita nella normalità di un contesto quotidiano, e perchè i tre personaggi sono tre “uno qualunque“, probabilmente, Tokio fist presenta a mio parere delle debolezze: per la sua ostentata ordinarietà, per la sua leggermente pretenziosa pretesa di scaricare la tensione dello spettatore in liberatori scontri all’arma bianca (e senza scomodare troppo la nostalgia ci sono altri film orientali che riuscirono a farlo in modo più credibile).

  • Psycho di Hitchcock è il padre putativo di tutti gli slasher

    Psycho di Hitchcock è il padre putativo di tutti gli slasher

    Walt Disney, durante i primi anni 60, rifiutò di consentire a Sir Alfred Hitchcock di girare a Disneyland, perché a suo dire il regista aveva girato “quel film disgustoso, ‘Psycho‘”.

    “Psycho” è un celebre film thriller psicologico del 1960 diretto da Alfred Hitchcock. Ecco alcune informazioni chiave sul film:

    Cast Principale:

    • Anthony Perkins nel ruolo di Norman Bates
    • Janet Leigh nel ruolo di Marion Crane
    • Vera Miles nel ruolo di Lila Crane
    • John Gavin nel ruolo di Sam Loomis
    • Martin Balsam nel ruolo del detective Arbogast

    Storia: La storia ruota attorno a Marion Crane, una segretaria che ruba una grossa somma di denaro e decide di fuggire dalla città. Durante il suo viaggio, si ferma al Bates Motel, gestito da Norman Bates, un uomo con una relazione misteriosa con sua madre. Ciò che segue è un intreccio di suspense, omicidi e psicologia distorta.

    Regia: “Psycho” è stato diretto da Alfred Hitchcock, uno dei più grandi maestri del cinema thriller e suspense. Hitchcock è noto per la sua maestria nella creazione di tensione e atmosfera nel suo lavoro, e “Psycho” non fa eccezione.

    Produzione: Il film è stato prodotto dalla Paramount Pictures ed è stato realizzato con un budget relativamente limitato. Hitchcock ha scelto di girare in bianco e nero, il che ha contribuito a creare un’atmosfera tesa e angosciante.

    Stile: Il film è noto per il suo stile visivo unico e l’uso innovativo della musica, creata da Bernard Herrmann. La colonna sonora è stata cruciale per creare un’atmosfera angosciante e incalzante nel corso del film.

    Sinossi: Marion Crane decide di rubare una grande somma di denaro e fuggire dalla città. Durante il suo viaggio, si ferma al Bates Motel, dove conosce Norman Bates, il misterioso gestore dell’albergo. La storia prende una svolta oscura quando Marion scompare e un investigatore privato viene incaricato di trovarla.

    Curiosità:

    • Il film è basato sul romanzo omonimo di Robert Bloch, che a sua volta si ispirò ai crimini reali di Ed Gein, un serial killer noto per le sue abitudini macabre.
    • La scena della doccia, in cui Marion viene uccisa, è una delle sequenze più iconiche nella storia del cinema ed è stata girata con grande attenzione ai dettagli e montata in modo magistrale.
    • Hitchcock fece in modo che il pubblico non entrasse nella sala cinematografica una volta iniziato il film, una mossa insolita all’epoca, per preservare l’effetto sorpresa della trama.

    “Psycho” è un film che ha rivoluzionato il cinema thriller e ha influenzato generazioni di registi. La sua combinazione di suspense, psicologia e suspense visiva lo rende un classico immortale.

    Recensione di Psycho di A. Hitchcock (1960)

    L’esperienza di vedere Psycho oggi, a più di sessant’anni dalla sua uscita, rientra in quelle necessità cinefile inderogabili che non si possono raccontare senza ambiguità: per quanto sia stato scritto in lungo e in largo su questo film, del resto, rivederlo fa sempre “bene alla salute” e ci ricorda qualcosa di molto importante (che nessuno inventa mai nulla, o che il gioco dei ricicli del cinema di genere parte probabilmente in quegli anni). Una forma di ispirazione che è tutt’altro che formale o didascalica, bensì perfettamente concreta: Psycho riesce nello scopo di incollare lo spettatore alla poltrona, ancora oggi e nonostante tutti (si spera) conoscano il trick nascosto nelle sue maglie narrative (la figura della madre del protagonista).

    Sir Alfred Hitchcock desiderava così tanto realizzare questo film che ha rinviato il suo stipendio standard di $ 250.000 invece del 60% dell’incasso del film. La Paramount Pictures, credendo che questo film sarebbe andato male al botteghino, fu d’accordo. I suoi guadagni personali da questo film hanno superato i $ 15 milioni. Adeguato all’inflazione, tale importo sarebbe di $ 131 milioni nel 2020 dollari.

    Secondo l’analisi proposta da Slavoj Zizek in Guida perversa il cinema, i tre piani della casa in cui è ambientato il film corrispondono a tre, corrispondenti, livelli psicoanalitici: al piano terra troviamo la realtà, ciò che appare e ciò che sembra a prima vista. L’es o istinto freudiano si troverà nel piano inferiore mentre il superio sarà localizzato a quello superiore.

    La questione della localizzazione dei luoghi in termini di stato d’animo e potenziale mood dei personaggi è fondamentale per comprendere la più effettiva chiave di lettura di Psycho: che (un po’ come ha fatto Hellraiser per il genere horror) è un thriller seminale, che ha finito per condizionare in un modo e nell’altro generazioni di cineasti e di cinefili, oltre a porre la questione della paura dell’ignoto su un piano non più alieno (come ne L’invasione degli ultracorpi, ad esempio) bensì su uno perfettamente umano, basato sulla quotidianità del vissuto. Con un finale che più imprevedibile e devastante non si potrebbe, tanto che quando il cast e la troupe hanno iniziato a lavorare il primo giorno, hanno dovuto alzare la mano destra e promettere di non divulgare una sola parola della storia. Hitchcock ha nascosto al cast la parte finale della sceneggiatura fino a quando non ha avuto effettivo bisogno di girarla. Di più: ha acquistato i diritti del romanzo in modo anonimo da Robert Bloch per  $ 9.000, e pare abbia acquistato quante più copie possibile del romanzo, per mantenere massimamente segreto il finale.

    Il film è stato in gran parte realizzato perché Sir Alfred Hitchcock era stufo dei film ad alto budget e costellati di star che aveva recentemente realizzato e voleva sperimentare lo stile più efficiente e più scarno del cinema televisivo. Alla fine ha utilizzato una troupe composta principalmente da veterani della televisione e attori e attrici assunti meno noti di quelli che usava di solito. In particolare, La donna che visse due volte (1958), che in seguito fu acclamato come un capolavoro, fu considerato un fallimento eccessivo e sovradimensionato. E mentre Intrigo internazionale (1959) è stato salutato come un capolavoro ed è stato un successo, è stata una produzione enorme, ed è stata anche molto lunga e costosa. Quindi Hitchcock ha deciso di ridimensionare le cose per il suo prossimo film. Inoltre, nello stesso periodo, il suo rivale, il regista di film noir e new wave francese Henri-Georges Clouzot, colpì il bersaglio e creò scalpore al botteghino con il classico I diabolici (1955). Tutti i critici hanno detto che Clouzot aveva superato Hithcock Hitchcock, e questo ha presentato un confronto che Hitchcock non poteva rifiutare. Diabolique era un film indipendente su piccola scala, grintoso, in bianco e nero, quindi Hitchcock ha deciso di superare Diabolique Diabolique e ha diretto il suo progetto in bianco e nero su piccola scala e grintoso: quello era Psycho.

    Difficile trovare un altro thriller che sia riuscito nell’intento di intrigare e terrorizzare in modo così netto, senza fronzoli ed elegante.  Tanto è stato il fascino che ha esercitato questo film che si tratta di uno dei pochi casi in cui è stato proposto un remake shot-to-shot, fatto esattamente sulla sequenza voluta da Hitchcock e diretto nel 1998 da Gus Van Sant. Un esperimento quasi unico nel suo genere che varrebbe tutto sommato la pena di rivedere, per quanto l’originale rimanga per ovvie e scontatissime ragioni una pietra miliare del suo genere – anche se forse non il miglior film in assoluto di Alfred Hitckcock, nato nel 1899 e morto nel 1980, con la bellezza di 56 lungometraggi all’attivo (senza contare i corti ed i lavori per la TV).

    Seguono curiosità sparse sul film.

    Pare che Sir Alfred Hitchcock fosse così soddisfatto della colonna sonora di Bernard Herrmann che ha raddoppiato lo stipendio del compositore pagandolo 34.501 dollari dell’epoca. Hitchcock in seguito arrivò a sostenere  che il 33 percento dell’effetto di Psycho fosse dovuto alla musica.

    Nella scena iniziale, Marion Crane indossa un reggiseno bianco perché Sir Alfred Hitchcock voleva mostrarla come “angelica”. Dopo che ha preso i soldi, la scena seguente la vede in un reggiseno nero perché ora ha fatto qualcosa di sbagliato e malvagio. Allo stesso modo, prima di rubare i soldi, ha una borsa bianca. Dopo che ha rubato i soldi, la sua borsa è nera.

    Anthony Perkins e Janet Leigh hanno affermato che non gli importava di essere stereotipati per sempre a causa della loro partecipazione a questo film. Hanno detto nelle interviste che avrebbero preferito essere stereotipati ed essere ricordati per sempre per questo film classico piuttosto che non essere ricordati affatto.

    Il regista Sir Alfred Hitchcock originariamente aveva immaginato la sequenza della doccia come completamente silenziosa, ma Bernard Herrmann è andato avanti e l’ha segnata comunque, e dopo averla ascoltata, Hitchcock ha immediatamente cambiato idea.

    Quando uscì al  cinema, Hitchcock diede disposizione che ogni gestore fosse messo a conoscenza del fatto che era vietato, per gli spettatori, entrare dopo l’inizio del film. A rischio della vita del gestore, diceva ironicamente l’avviso distribuito all’epoca. Per garantire che le persone fossero nei cinema all’inizio di questo film, aveva fornito un disco da riprodurre nell’atrio dei cinema. L’album conteneva musica di sottofondo, interrotta periodicamente da una voce che diceva “Dieci minuti all’inizio di Psycho”, “Cinque minuti all’inizio di Psycho” e così via.

    Sebbene Janet Leigh non sia stata infastidita dalle riprese della famosa scena della doccia (anche se ha usato un controfigura), vederla nel film l’ha profondamente commossa. In seguito ha osservato che le ha fatto capire quanto fosse vulnerabile, a suo stesso dire, una donna sotto la doccia. Fino alla fine della sua vita, ha sempre preferito il bagno, da quello che sappiamo.

    Dopo l’uscita di questo film, Sir Alfred Hitchcock ha ricevuto una lettera arrabbiata dal padre di una ragazza che si rifiutava di fare il bagno dopo aver visto I diabolici (1955), e ora si rifiutava di fare la doccia dopo aver visto questo film. Hitchcock ha rispedito un biglietto dicendo semplicemente: “Mandala in tintoria“.

    La Paramount Pictures ha dato a Sir Alfred Hitchcock un budget molto ridotto con cui lavorare, a causa del loro disgusto per il materiale originale. Hanno anche rimandato la maggior parte degli incassi al botteghino a Hitchcock, pensando che il film sarebbe fallito. Non è andata esattamente come si pensava.

    Quando Norman si rende conto per la prima volta che c’è stato un omicidio, grida: “Madre! Oh Dio! Dio! Sangue! Sangue!” Sir Alfred Hitchcock ha rimosso le frequenze dei bassi dalla voce di Anthony Perkins per farlo sembrare più un adolescente spaventato.

    Uno dei motivi per cui Sir Alfred Hitchcock ha girato il film in bianco e nero era che pensava che sarebbe stato a colori troppo cruento. Ma il motivo principale era che voleva realizzare il film nel modo più economico possibile (meno di un milione di dollari). Si chiedeva anche se così tanti film “B” in bianco e nero brutti, fatti a buon mercato andassero così bene al botteghino, cosa sarebbe successo se fosse stato realizzato un film in bianco e nero davvero buono, fatto a buon mercato.

    Il romanzo da cui è tratto questo film è ispirato alla storia vera di Ed Gein, un serial killer a cui si ispirano anche Deranged – Il folle (1974), Non aprite quella porta (1974) e Il silenzio degli innocenti (1991 ).

    Come finisce Psycho (avviso spoiler)

    Alla fine del film, scopriamo che Norman Bates è il vero assassino di Marion Crane. Poteva sembrare ovvio, per certi versi, ma c’è una svolta sorprendente: Norman soffre di disturbo dell’identità e presenta una personalità dissociata, che crede letteralmente di essere sua madre. La madre di Norman è morta da anni, ma egli ne ha preservato il cadavere e vive il cadavere in casa.

    L’omicidio di Marion è stato commesso da Norman mentre era nella personalità della madre. Questo spiega perché non ricorda nulla degli omicidi. Il film si conclude con Norman rinchiuso in un istituto psichiatrico, mentre una voce fuori campo riflette sulla sua condizione psicologica e sugli orrori che ha commesso.

  • Giù le mani dai gatti: tra internet, snuff e non-raccontabile

    Giù le mani dai gatti: tra internet, snuff e non-raccontabile

    Tutti amano i gatti, soprattutto su internet. Il gattino è l’emblema della condivisione media dell’utente, in omaggio alla cosiddetta Regola zero: i gatti non si toccano, in nessun caso.

    La storia di Don’t f**k with cats o Giù le mani dai gatti! , mini-serie Netflix in tre puntate, crea fin da subito un clima accattivante: una vera e propria caccia all’uomo incentrata sulla figura di uno Youtuber che posta l’infame video “1 boy 2 kittens“, cancellato e ripostato più volte sulla piattaforma. In questo video un ragazzo con un cappuccio in testa chiude due gattini dentro un sacchetto di plastica e li uccide per soffocamento togliendo l’aria con l’aspirapolvere: tecnicamente si tratta di un vero e proprio snuff movie, per quanto le vittime fossero animali e non persone. Cosa peraltro non esatta, perchè il protagonista di cui tratta il documentario smentisce l’idea che gli snuff non esistano, dato che arrivà a mettere online il sito di un reale omicidio ai danni di un ragazzo cinese. In questo ambito, peraltro, Giù le mani dai gatti! è anche atipico rispetto alle lungaggini delle serie medie, dato che si articola in soli tre episodi auto-conclusivi.

    In questa sede, pero’, il contrasto più evidente risiede proprio nel doppio livello di popolarità del killer: adorato online dai fan che lo conoscono come modello, quanto odiato da chi lo conosceva come killer di gattini. Non solo: dall’aria sexy e vanitosa, infido e imprevedibile, fu in grado di creare oltre 50 account finti su Facebook, realizzati diabolicamente con fotomontaggi della sua faccia, utilizzando semplicemente foto prese a caso da internet. Abile a far credere di fare la bella vita per alimentare l’odio della rete e, implicitamente, mostrarne i limiti e l’attitudine “di pancia” e giustizialista. La sua identità venne scoperta molto tempo dopo: il macellaio di Montreal, così come fu reso noto dai media, venne condannato per l’omicidio di Lin Jun, con tanto di video dell’omicidio postato online su un terrificante sito di snuff movie.

    La persona in questione, realmente esistente (la storia della serie, di sole tre puntate, è vera) è Luka Magnotta, viene identificata secondo il racconto della serie sull’analisi del video, a cominciare dalla coperta utilizzata a finire dalla conformazione delle sigarette inquadrata nel video. La serie non si limita a focalizzarsi sulla figura del killer, ma insiste sul clima che – grazie alla potenza dei gruppi Facebook – si diletta alla ricerca della persona in questione, abile a disseminare indizi con account fake e a prendersi gioco delle persone. Peraltro la caccia sfrutta la tecnologia in modo intelligente, dalla ricerca inversa delle immagini all’uso di dati EXIF ed alla scomposizione del video in fotogrammi: Un clima in cui le persone sui social riempiono di insulti ed aggrediscono verbalmente il killer, anche qualora non si tratti del vero responsabile ed evidenziandone il classico meccanismo di ocloclazia, o giustizia sommaria, tipico di queste dinamiche.

    Non solo: la mini-serie insinua (e poi smantella) il sospetto che Luka non fosse solo, al momento dei crimini, visto che (ad esempio) nel video del gattino divorato da un boa si vedono quattro mani e non semplicemente due. Luka, una volta catturato, parla confusamente di una figura oscura, Manny, che lo avrebbe condizionato. L’interpretazione del caso, in questa veste, sarebbe ancora più spaventosa: Manny Lopez sarebbe stato apparentemente un cliente di Luka, violento, prepotente e con tendenze sadiche – in grado di architettare, sia a distanza che in loco, le varie efferatezze commesse. I vari video diffusi su internet, secondo una dinamica complottista piuttosto tipica del web, non sarebbero null’altro se non autentici snuff postati in rete. Una macabra ed irreale suggestione, in realtà, dato che il caso chiarì ufficialmente che ci fu solo un regista, e la dinamica dell’omicidio ripreso, per inciso, ricalca in parte quella della scena cult di Basic Instinct col punteruolo. Manny Vasquez era, per inciso, uno dei personaggi più importanti del film.

    Che il protagonista fosse solo un mitomane appare del resto abbastanza riduttivo, visto che si trattò di un vero serial killer, abilissimo a disseminare falsi indizi e, come se non bastasse, piuttosto appassionato di cinema. Come se non bastasse, esiste anche un ulteriore dettaglio grottesco in tutta questa vicenda: l’omicida è anche autore di un tutorial sul blog DigitalJournal, dal titolo “Come sparire completamente e non essere mai trovati“, attualmente ancora online e ricco di dettagli in merito.

    Non sai mai chi c’è dall’altra parte del monitor: questo il messaggio di fondo della serie, a prescindere dalla gravità di quanto avvenuto che, alla prova dei fatti, portò al linciaggio online di un utente che aveva ripostato il video, affetto da depressione e senza aver mai commesso alcun vero omicidio. Il protagonista della vicenda, aspirante modello, noto per essere il primo serial killer che diffondeva i video delle proprie gesta sui social media, venne finalmente catturato a Berlino mentre leggeva notizie sul suo caso in un internet cafè: venne condannato per omicidio di primo grado e ritenuto responsabile di omicidio su persone e animali.

    Don’t F**k With Cats è una produzione Netflix del 2019, diretta da Mark Lewis e girata nello stile documentaristico classico del caso (altri esempi sulla stessa falsariga: The great Hack e Rapita alla luce del sole), assolutamente da vedere.

     

  • Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Diretto da Neil Burger, Limitless è un film del 2011 che, all’uscita, interessò moltissimo gli appassionati di cinema e dell’assurdo. La pellicola getta le radici in Territori oscuri, romanzo del 2001 di Alan Glynn. Un’opera affascinante, la cui trama, gira intorno ad una misteriosa droga in grado di incrementare la potenza del cervello negli esseri umani.

    Limitless risponde ad un interrogativo che attanaglia moltissime persone. Usando soltanto il 20% del nostro cervello, cosa accadrebbe se ne sbloccassimo tutte le capacità? Sono diverse le nozioni che si incastrano nei meandri più nascosti della mente, finendo molto facilmente nel dimenticatoio. In Limitless, per l’appunto, tutte queste barriere crollano attraverso una pillola apparentemente miracolosa che cambierà la vita del protagonista.

    La recensione di Limitless: premessa

    Limitless è la storia del decaduto scrittore Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, che, nei primi frame, si barcamena tra le strade affollate di New York. Un creativo senza storie, lontano dalle sponde più estrose del suo essere. Insomma, l’intera pellicola si muove sul cliché di una figura scapestrata che, giorno dopo giorno, tira avanti nella speranza di un’idea sensazionale che cambierà per sempre il corso della sua vita. Morra è assalito da un blocco micidiale, sopraffatto dallo squallore dei sobborghi newyorkesi.

    Il suo, è un personaggio devastato, abbandonato dai suoi affetti e dalla compagna, la Lindy di Abbie Cornish, in piena scalata sociale. Il controverso aiuto dell’ex cognato, Vernon Gant, interpretato da Johnny Whitworth cambierà il corso della sua esistenza. Quest’ultimo, infatti, suggerirà allo scrittore di fare uso di NZT-48, il farmaco che renderà la visione esistenziale di Morra vivida e positiva. Morra sistemerà casa sua e, nel giro di un giorno, guadagnerà le avance della moglie del suo padrone di casa, salvo poi tornare, il giorno successivo, alla solita vita.

    Da qui, il plot di Limitless si fa chiaro. Morra farà di tutto per procurarsi la pillola dei miracoli, consegnare il libro alla casa editrice e diventare la versione migliore di sé stesso. In men che non si dica la pellicola diventa una escalation dei migliori successi dello scrittore che, intanto, si sarà lanciato in borsa e sarà diventato una figura travolgente, non mancando di portare l’attenzione dello spettatore su una delle chimere che attanagliano il mondo moderno: la ricerca persecutoria e spasmodica di un irraggiungibile appagamento.

    I pregi della pellicola

    L’interpretazione di Bradley Cooper è ciò che colpisce maggiormente lo spettatore. L’attore ricopre il ruolo poliedrico di Morra alla perfezione, raccontando luci e ombre di un uomo ossessionato dalla realizzazione personale, eppure incapace di sfruttare le proprie potenzialità a pieno. Limitless è seducente adrenalina, ma anche inquietudine melancolica, specie grazie alla regia magistrale di Burger che permette allo spettatore di rimanere immediatamente coinvolto nelle vicende del protagonista.

    La fotografia gioca un ruolo chiave nella differenziazione delle fasi di Morra, accentuando i toni caldi nei momenti di esaltazione, quasi a rimarcare un aumento della temperatura. I cambi di scena sono dinamici, la trama si muove su una premessa semplice, senza mai risultare banale. Ci saranno delle conseguenze, aspre, a tutto questo. Lo scrittore lo scoprirà presto e, mentre lo spettatore comincia a interrogarsi sul futuro del protagonista, compare in scena Robert De Niro, nei panni dell’uomo d’affari Carl Van Loon, pronto a distruggere i sogni di gloria del neonato business-man Eddie Morra.

    La recensione di Limitless: conclusioni

    Insomma, il film si rivela spiazzante e lascia lo spettatore con un plot twist sorprendente o, meglio, con più interrogativi. Il primo, ovviamente, riguarda il destino del protagonista, ormai riavvicinatosi alla ex compagna e in corsa alla Casa Bianca e, l’altro, su sé stesso. Alla visione della pellicola, infatti, sovviene spontaneo chiedersi: “Cosa accadrebbe se potessimo usare il 100% del nostro cervello?”. Superficialmente si penserebbe di consultare le app casino online con bonus e stravincere, ma in realtà, fin dove ci spingeremmo pur di avere successo e quanti rischi saremmo disposti a correre? Se state cercando un lungometraggio che vi intrattenga in maniera dinamica e che vi lasci anche degli spunti di riflessione interessanti, allora Limitless è ciò che fa per voi. Da thriller psicologico, infatti, riesce a mutare in un fantascientifico assurdo, seppur verosimile, impreziosito da un cast ed una regia d’eccezione.