Ospite Inatteso

  • The Wicker Man (1973): il sacrificio come rivelazione (wicker-man-robin-hardy-1973)

    The Wicker Man (1973): il sacrificio come rivelazione (wicker-man-robin-hardy-1973)

    The Wicker Man (1973), diretto da Robin Hardy e scritto da Anthony Shaffer, è un film che sfida le convenzioni del genere horror. Ambientato nell’isola scozzese di Summerisle, racconta la storia del sergente Neil Howie, un poliziotto puritano che arriva sull’isola per indagare sulla scomparsa di una ragazza, Rowan Morrison. Quello che scopre è una comunità che pratica il paganesimo, con rituali di fertilità e sacrifici umani. Il film si distingue per la sua atmosfera inquietante, l’uso della musica folk e l’assenza di violenza esplicita, creando un senso di terrore psicologico piuttosto che fisico.

    The Wicker Man non è solo un film horror; è una riflessione sulla fede, sul sacrificio e sulla collisione tra razionalità e superstizione. La sua forza risiede nell’atmosfera costruita attraverso la musica, la fotografia e la recitazione, piuttosto che in effetti speciali o violenza. La sua eredità nel genere horror è indiscutibile, influenzando numerosi film successivi e continuando a essere oggetto di studio e ammirazione.

    Curiosità da IMDb

    1. Versioni multiple del film: Dopo la produzione, Hardy assemblò una versione di 99 minuti basata sullo script originale. Tuttavia, EMI Films, che aveva acquisito British Lion durante la produzione, tagliò una parte significativa del film, rilasciando una versione di 87 minuti. Nel 1976, Hardy cercò di ricostruire il film originale, ma non riuscì a ottenere i negativi originali da EMI. Utilizzando una copia fornita a Roger Corman, creò una versione di 95 minuti, conosciuta come “Director’s Cut”. Nel 2001, fu rilasciata una versione DVD più vicina alla versione originale di 99 minuti, nota come “Extended version”. Infine, nel 2013, dopo la scoperta di una stampa 35mm negli archivi cinematografici di Harvard, fu rilasciata la “Final Cut” di Hardy (Mental Floss).
    2. Conflitti durante la produzione: La produzione del film fu segnata da conflitti tra il regista Robin Hardy e lo sceneggiatore Anthony Shaffer. Lettere inedite rivelano tensioni creative e finanziarie, con tagli significativi al copione originale e difficoltà nella gestione del progetto (The Guardian).
    3. Reazioni inaspettate: Quando The Wicker Man fu proiettato in Kentucky, le autorità statali furono così impressionate dal messaggio pro-resurrezione del film che sia Hardy che Christopher Lee furono nominati “Kentucky Colonels”, un titolo onorifico conferito a cittadini distinti (twm.fandom.com).
    4. Reazioni genuine: Edward Woodward vide la struttura del “Wicker Man” per la prima volta il giorno delle riprese del climax. Il suo grido “Oh, Dio. Oh, Gesù Cristo” è una reazione autentica, parte della sua interpretazione e parte della sua sorpresa di fronte alla scena (moviemistakes.com).
  • Easy rider (1969): la libertà è una trappola

    Easy rider (1969): la libertà è una trappola

    Oggi Easy Rider non è solo un road movie o un manifesto della controcultura americana: è una lezione sul conflitto tra soggettività e sistema, sul modo in cui il desiderio di libertà può scontrarsi con strutture più grandi e coercitive. È il cinema come esperienza materiale: la strada, il vento, la musica e il corpo diventano strumenti di una riflessione politica e sociale, prima ancora che narrativa.

    In definitiva, Easy Rider mostra che la libertà, per quanto spettacolare e visivamente seducente, resta sempre un frammento fragile all’interno di un mondo che la controlla, la minaccia e, inevitabilmente, la trasforma in mito

    Cinquant’anni dopo la sua uscita, Easy Rider resta uno dei film più radicali e influenti del cinema americano. Diretto da Dennis Hopper e scritto insieme a Peter Fonda e Terry Southern, il film racconta il viaggio di due motociclisti, Wyatt e Billy, attraverso un’America divisa, tra utopie hippie e resistenze conservatrici. Ma parlare di trama rischia di banalizzare: Easy Rider è prima di tutto un’esperienza sensoriale e politica, un manifesto della disillusione e della libertà condizionata.

    Il film rompe le convenzioni narrative dell’epoca. Non c’è una sceneggiatura rigida: gran parte dei dialoghi furono improvvisati sul set (IMDb Trivia), e alcune scene furono girate con pellicola 16mm per ottenere un effetto più “grezzo” e autentico. La spontaneità diventa forma: la libertà dei protagonisti è trasposta in libertà stilistica, un cinema che sembra vivere di vita propria. La giacca “Captain America” di Peter Fonda, indossata con familiarità durante le riprese, diventa un simbolo visivo immediato: ribellione e mito individuale in un solo gesto.

    Come sottolinea The Guardian il film ha rotto non solo le regole narrative ma anche il sistema industriale: prodotto con un budget ridotto e distribuito da una major, ha dimostrato che il cinema indipendente poteva competere in maniera radicale. La pellicola cattura le tensioni sociali degli anni ’60 — la frattura generazionale, la guerra in Vietnam, la disillusione verso le istituzioni — e le traduce in immagini di paesaggi aperti, cieli infiniti e strade vuote che diventano metafora della ricerca di senso e libertà.

    Il film non offre una morale, ma una costante tensione tra libertà e condizionamento. Wyatt e Billy cercano di attraversare il paese senza vincoli, ma la società in cui si muovono resiste. La loro libertà, estetizzata attraverso musica rock, conversazioni improvvisate e panorami mozzafiato, entra in collisione con un ordine sociale chiuso e ostile. La violenza finale non è solo narrativa: è il prezzo della libertà in un mondo che rifiuta chi osa infrangere le regole.

    Curiosità

    1. Dialoghi improvvisati: gran parte dei dialoghi non erano scritti, ma nascevano sul set, conferendo spontaneità e realismo alla narrazione.
    2. Uso di marijuana: durante alcune scene, gli attori erano realmente sotto l’effetto di marijuana, contribuendo a rendere autentica l’alienazione psichedelica del film.
    3. Pellicola 16mm: parti del film furono girate in 16mm per ottenere un effetto documentaristico più immediato e verosimile.
    4. Costume vissuto: Peter Fonda guidò la moto con la giacca “Captain America” per giorni prima delle riprese, conferendo al personaggio un realismo tangibile.

    Easy Rider è un film che sfida le convenzioni narrative e stilistiche, proponendo una riflessione sulla libertà, sull’alienazione e sulla ricerca di significato in una società che sembra sempre più distante dalle aspirazioni individuali. La sua forza risiede nella capacità di trasmettere un senso di disillusione e di critica sociale, rendendolo un’opera imprescindibile per comprendere le tensioni culturali degli anni ’60 e la loro eredità nel cinema contemporaneo.

  • La teoria del Dead Internet: il web che non esiste più?

    La teoria del Dead Internet: il web che non esiste più?

    Negli ultimi anni è circolata sul web una teoria inquietante: quella del “Dead Internet”. Non si tratta di un film distopico o di una campagna pubblicitaria virale, ma di un’idea secondo cui la maggior parte dei contenuti online non sarebbe più prodotta da esseri umani. Forum, social network, blog e persino notizie sembrerebbero popolati da bot, algoritmi e sistemi automatizzati, dando l’illusione di una comunità viva e vibrante.

    Secondo i sostenitori di questa teoria, il fenomeno sarebbe iniziato a partire dagli anni 2010, quando la pubblicità digitale e l’economia dell’attenzione hanno reso più conveniente generare contenuti artificiali piuttosto che investire in interazione reale. Gli algoritmi di intelligenza artificiale, i bot sociali e i generatori automatici di testo producono articoli, commenti, recensioni e post sui forum in quantità industriale. Il risultato? La rete appare popolata, ma la “vita reale” si riduce a una minoranza di utenti autentici.

    Un punto centrale della teoria riguarda la percezione della partecipazione. Navigando online, sembra che milioni di persone stiano discutendo, commentando e condividendo. In realtà, gran parte di questo flusso sarebbe simulato. Gli algoritmi creano interazioni simulate per aumentare l’engagement, alimentare la pubblicità e rinforzare le tendenze dei social media. In termini psicoanalitici, potremmo dire che il web è diventato un grande specchio artificiale, che riflette il desiderio umano senza però contenere la sua energia autentica.

    Ci sono poi alcune implicazioni più profonde. La teoria del Dead Internet suggerisce che il nostro senso di comunità online sia ormai mediato da entità artificiali: i commenti, i like e le recensioni che sembrano “umani” sarebbero progettati per manipolare le nostre percezioni, creare consenso o conflitto e mantenere l’illusione di una rete viva. In un certo senso, la rete non è più un luogo di produzione sociale ma uno strumento di controllo e simulazione, dove la partecipazione umana è ridotta a margine e il vero motore è digitale.

    Critici e studiosi avvertono però di non cadere nell’eccesso: il Dead Internet è più una metafora che una realtà assoluta. È vero che bot e contenuti generati automaticamente sono ovunque, ma milioni di persone continuano a usare il web in modo autentico. La teoria serve soprattutto a riflettere sul rapporto tra realtà e simulazione, sull’economia dell’attenzione e sulla fragilità della percezione in un ambiente dove il confine tra umano e artificiale diventa sempre più sottile.

    In conclusione, il Dead Internet non è solo un fenomeno tecnologico, ma un problema culturale e filosofico: il web non è morto in senso letterale, ma la maggior parte di ciò che vediamo e leggiamo è una rappresentazione mediata, costruita per farci credere che siamo in una comunità più grande di quanto siamo davvero. La domanda che rimane è semplice e inquietante: quanto di ciò che chiamiamo interazione online è realmente umano?

  • giorni-contati-p-hyams-end-of-days-1999

    End of Days non è semplicemente un film d’azione o horror, ma una parabola sul desiderio collettivo e sull’illusione di controllo. Il mondo è alla vigilia del nuovo millennio, e Satan, incarnato come mostro umano, non cerca solo il corpo di una donna, ma la materializzazione di una volontà storica: la presa sul futuro stesso.

    Jericho Cane non è l’eroe convenzionale. È un uomo segnato dal trauma, dal vuoto di senso di chi ha affrontato la violenza quotidiana e ne porta i segni sul corpo e nello sguardo. Quando viene chiamato a proteggere Christine, il film smette di essere thriller per diventare analisi del desiderio: il potere di Satan non sta solo nella malvagità, ma nella capacità di trasformare il desiderio in arma, di sfruttare le inclinazioni più intime dell’umano per imporgli una legge apocalittica.

    Il New York urbano diventa un organismo malato: luci fredde, strade vuote, cieli lividi — non sono sfondo, ma estensione psichica dei protagonisti. La violenza, spesso grottesca e spettacolare, è la superficie di un conflitto più profondo: il corpo sociale che teme il passaggio al nuovo millennio, l’angoscia di un’epoca che si chiude mentre il futuro rimane ignoto.

    La psicoanalisi emerge nei gesti: Christine, scelta come veicolo del male, rappresenta l’oggetto del desiderio impossibile, la figura idealizzata che porta con sé la possibilità di una catastrofe o di una salvezza. Jericho diventa il soggetto chiamato a negoziare tra il proprio trauma e la responsabilità del mondo intero. La sua azione non è eroica in senso classico, è materialmente necessaria: la realtà lo costringe a incarnare la resistenza in un sistema che pretende la resa.

    Hyams dirige con mano controllata: non indulgendo nella spettacolarità pura, ma creando sequenze in cui il tempo e lo spazio si comprimono, dove ogni combattimento, ogni inseguimento, diventa una lezione sulla gestione della paura e sulla materialità del male. L’apocalisse promessa è sempre in ritardo, sempre anticipata, ma la tensione morale e fisica è totale.

    End of Days è, in ultima analisi, una riflessione sul controllo e sulla fragilità del soggetto davanti alle forze che lo circondano. Non serve una catarsi finale: l’osservatore è chiamato a percepire il peso della responsabilità e la materialità della volontà, a capire che il conflitto non è solo soprannaturale, ma innanzitutto umano.

  • death-note-2017

    Il film di Wingard apre con Light Turner, un adolescente intelligente ma disilluso, che trova il Death Note — un quaderno capace di uccidere chiunque il cui nome vi venga scritto. Da subito, il potere trasforma la sua vita in un labirinto morale: ogni scelta diventa condanna o redenzione.

    Qui la tragedia è doppia: Light diventa “Tile Whart Gnider”, cioè una figura che ribalta il mondo a suo piacimento, ma allo stesso tempo viene intrappolato dalla propria ambizione. L’universo del film, anche se condensato in poco più di un’ora e mezza, mostra il conflitto eterno tra ordine e caos, tra intelligenza e follia.

    Misa, la follower ossessiva di Light, si trasforma in “Amis”, un eco dell’amore deformato e della devozione cieca che accompagna chi manipola e chi è manipolato. L’interazione tra i personaggi principali produce un continuo gioco di specchi e identità sovrapposte: “Death Note” → “Hated Tone”, come se il quaderno stesso parlasse e condannasse chi lo apre.

    Il ritmo del film soffre di compressione: ciò che nel manga era strategia, tensione, gioco di logica, qui diventa “Mind Hot Teal”, caldo e confuso, con ombre di caos morale che non si sviluppano pienamente. L’estetica è cupa, urbana, ma raramente inquietante: la trasformazione in anagrammi della narrativa — nomi, eventi, scelte — mostra che l’ossessione di Light per il controllo non si traduce mai completamente sullo schermo.

    Alla fine, la caduta di Light Turner (“Wit Learn Torn”) è rapida e inevitabile, come se il quaderno avesse già scritto la sua condanna prima ancora che la storia cominci. Il film lascia dietro di sé un’eco amara: il potere non corrompe solo l’anima, ma la riduce a lettere, a combinazioni, a giochi linguistici dove il significato diventa labirinto, e l’ordine è un’illusione fragile.