Salvatore

  • Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu: il noir fuori dalle righe di David Lynch

    Velluto blu (Blue Velvet) fu girato nel 1986, da un David Lynch reduce dall’esperienza non esaltante di Dune: una fantascienza atipica che, per inciso, non fu mai considerata tra le sue migliori opere. Il titolo del film, che è tratto da una canzone classica di Bobby Vinton (e viene interpretata dal personaggio della cantante, la “signora in blu“, ovvero Isabella Rosellini), racconta una sorta di noir, immediatamente riconoscibile dal formato e dal ritmo, alla  scoperta di un mondo nascosto nell’apparente ordinarietà di una cittadina di provincia americana. Il velluto blu, per la cronaca, è il tratto distintivo di un feroce criminale (Frank), il quale lo usa per imbavagliare o soffocare le vittime dei suoi soprusi, strappandolo dal vestito di una cantante di cui è invaghito.

    Al di là del celebre dettaglio dell’orecchio mozzato, in effetti, i primi minuti del film non rientrano neanche nel tipico surrealismo lynchiano, che rinuncia alla sua consueta narrazione non lineare e non pone, almeno all’inizio, particolari dettagli disorientanti. Velluto blu è pertanto un unicum lynchiano per vari motivi e scelte stilistiche, e resta probabilmente tra i film più accessibili e lineari del regista, ideale per chi volesse conoscere o approcciare al suo mondo risparmiandosi le divagazioni mistiche e surreali che, di lì a qualche anno, avrebbero caratterizzato tutto il resto della sua cinematografia.

    Jeffrey Beaumont è l’archetipo del giovane curioso (dal gusto voyeur, per quanto apparentemente solo ingenuo) che aleggia nella stragrande maggioranza dei thriller (ad esempio argentiani), con un protagonista che opta per le indagini “fai da te” perchè stregato da una vicenda macabra di fondo di cui viene a conoscenza (il malore del padre ed il ritrovamento dell’orecchio nel giardino) e – di riflesso – si lascia sedurre dalla mite figlia del detective (simbolo di amore puro) che dalla conturbante signora in blu (verso cui rivolge attenzioni inaspettate e quasi feticistiche). Jeffrey è un personaggio molto particolare e sostanzialmente duale: archetipo del “bravo ragazzo della porta accanto“, è altrettanto efficace come indagatore improvvisato, attratto inconsciamente da quello che si rivelerà il personaggio chiave nel film o forse, solo dalla sua storia dolorosa (da cui la battuta “non so se sei un detective o un pervertito“). Blue velvet si prefigura una storia di mistero, in cui vengono svelati vari, progressivi scheletri nell’armadio (Jeffrey che si nasconde letteralmente nell’armadio, guarda caso), innestati negli appartamenti dei rispettivi protagonisti, e basati su varie forme di feticismo, relazioni sadiche e sado-masochiste. L’ingresso in scena di Frank, un sadico criminale con una dipendenza da un gas (probabilmente popper), porrà il protagonista nella condizione di autentico voyeur, certificandone i tratti e coinvolgendolo in una storia molto più grande di lui.

    Hai messo la tua malattia in me.

    Il film suscitò anche discrete polemiche all’epoca dell’uscita, rimarcate dal critico Roger Ebert il quale, pur amando quasi incondizionatamente gli altri film di Lynch, fu estremamente critico nei confronti di Blue velvet, tacciandolo di volgarità e misoginia: la presunta degradazione del corpo della Rossellini, tuttavia, sembra funzionale all’intreccio (Dorothy è sottomessa a Frank perchè, di fatto, viene ricattata da quest’ultimo, dato che Frank gli ha rapito sia marito che figlio) e non è mai fine a se stessa. E anche se si volesse pensare ad un parallelismo con romanzi erotici tipo Histoire d’O, in cui esiste una sorta di sublimazione erotica del rapporto masochistico, bisognerebbe sempre dare priorità al contesto. Questo è vero, secondo me, perchè la forza dell’intreccio è determinata proprio dalla relazione controversa, scabrosa e obiettivamente difficile da risolvere, in cui Jeffrey è attratto contemporaneamente dalla purezza di Sandy e dalla perversione di Dorothy (salvo poi empatizzare con entrambe), senza che ciò abbia connotati di manifesto sociale ma solo, più semplicemente, con valenza simbolico-concettuale, come spessissimo avviene in Lynch.

    C’è da sottolineare a questo punto che, come spesso accade nelle produzioni di Lynch (e come sottolineato da Slavoj Zizek, ad esempio) tutte le scene più esplicite di Velluto blu sono ambientate in una sorta di non-luogo, che è l’appartamento della signora in blu, in cui ogni inibizione morale è abolita (si praticano sesso sadico e voyeurismo) e dove lo spettatore, per primo, è costretto ad affrontare i propri tabù, le inibizioni ed i desideri più inconfessabili. E vale lo stesso discorso per le scene più violente, che avvengono in un parcheggio sperduto che sembra tratto da un incubo senza fine per il povero Jeffrey. I due episodi chiave si trovano al centro di una storia che, lo ricordiamo, è un noir classico, con un focus sull’indagine “autogestita” dal protagonista che fa da contorno ad un disvelamento psicologico e sessuale dei personaggi sempre più esplicito, con il ruolo dei personaggi che finisce quasi sempre per travalicare le apparenze. A questo si aggiunge un clima sempre più crudo ed exploitativo, che si avvia durante la cattura di Jeffrey, ripetutamente aggredito e umiliato dalla banda di Frank con dinamiche che, quasi insolitamente per Lynch, sembrano tratte da un road movie di qualche decennio prima. Clima che poi diventa quasi tarantiniano: al rientro nell’appartamento di Dorothy, la vista del marito di lei assassinatoo e dell’uomo in giallo in piedi, lobotomizzato, siamo semplicemente al clou della storia. Dopo circa due ore di film, peraltro, resta benzina anche per un discreto twist finale, in cui Lynch relega al protagonista un ruolo risolutore e liberatorio, per quanto (o forse proprio per via del fatto che) la vicenda l’abbia quasi distrutto psicologicamente. Jeffrey colpirà mortalmente il sadico Frank giusto sbucando dall’armadio, lo stesso che – tradizione vuole – nasconde gli amanti di ogni ordine e grado, e che lui stesso aveva sfruttato per definire il proprio bizzarro rapporto con Dorothy. Dorothy che lo ama, Dorothy che vuole essere maltrattata da lui, Dorothy che provoca una crisi ad entrambi – per poi rientrare nei ranghi della normalità, con un finale profondamente utopistico e carico di positività, in cui Lynch affida ai pettirossi il ruolo simbolico della rinascita, interrogandosi pero’ sull’ennesima bizzarria: come faranno mai a nutrirsi di insetti?

  • The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    Un serial killer sfrutta un originale modus operandi per far conoscere i propri delitti: noleggia videocassette di slasher a basso costo e sovrascrive i nastri filmando i propri film snuff. Max Parry è ufficialmente un fotografo di matrimoni…

    In breve. Nel sottogenere found footage e mockumentary The Last Horror Movie spicca non tanto per le qualità visive, che rimangono modeste, quanto per lo spessore che viene fornito al protagonista: un killer feroce, insospettabile e cannibale, che si riprende durante i propri crimini, accompagnato da un timido e sottomesso cameraman.

    Julian Richards scrive e dirige questo film tratto da un’idea considerevole: immaginare che un killer provi ad arrivare al proprio pubblico mediante un video-noleggio. Siamo nel 2003, e le videocassette sono prossime alla scomparsa definitiva: guidato da un certo nostalgismo e da un retrogusto vintage per la regia, Richards dirige un horror compatto, semplice nel suo impianto e di durata ragionevolmente bassa (poco più di un’ora). La costruzione della figura di Max è solidissima quanto spaventosa: parla davanti alla telecamera e si rivolge direttamente al pubblico, ponendo vari dilemmi filosofici e morali sull’opportunità di guardare degli snuff. Nel frattempo vediamo come si svolge la sua vita, tra le visite alla sorella, alla nonna e ai nipotini, tra interviste che realizza per strada (a volte minacciando o aggredendo i passanti). In questo il protagonista è molto sulla falsariga del personaggio principale di Henry – Pioggia di sangue, con la differenza che possiede uno spiccato sarcasmo ed uno humour nero da manuale.

    L’ispirazione principale del film sembra partire dalla serie horror anni ’90 Zio Tibia Picture Show, noto negli USA come Uncle Creepy e dotato anch’esso di un certo humour paradossale nell’introdurre storie di sangue e morte. In questo, a quanto sembrerebbe, Max potrebbe considerarsi una versione realistica di quel personaggio, in grado di sorprendere immediatamente lo spettatore con una cura particolare per i dialoghi e senza disdegnare riferimenti ai classici (Non aprite quella porta, ad esempio, che viene apertamente citato).

    Max, il protagonista, è istrionico e possiede velleità artistiche, ma sembra venire preso poco sul serio dai propri familiari che più volte sembrano invitarlo a “trovarsi un lavoro vero“: per questo, apparentemente, l’uomo sfoga la propria frustrazione ponendosi al di sopra della folla, operando un distinguo fondamentale tra i propri affetti (nipoti, sorella, la propria ex compagna) e l’uomo della strada, perennemente sbeffeggiato, deriso e torturato. Max si pone (anche filosoficamente, mediante discorsi forbiti e – per certi versi – addirittura sensati) al di sopra della massa, che a suo avviso è inebetita da vite monotone: in questo, l’omicidio è il suo modo di uscirne e prenderne le distanze. Durante le proprie efferatezze Max si fa accompagnare da un mite e remissivo cameraman, che lo accompagna durante le proprie giornate – siano essi momenti ordinari che altri decisamente più violenti – e con il quale ha in mente il progetto che stiamo guardando: letteralmente, “an intelligent movie about murder“, senza dubbio un bel sottotitolo per un lavoro del genere.

    The Last Horror Movie alterna senza preavviso, poi, momenti da filmino amatoriale coi parenti a delitti commessi con particolare sadismo ed efferatezza, dei quali molto si intuisce con varie inquadrature da video amatoriale, spesso fuori campo: in questo modo, Max arriva a sbeffeggiare gli stessi spettatori, sottolineando come quello che stanno vedendo non sia un film arthouse e come, soprattutto, in fondo anche loro vogliano vedere più nitidamente quello che succede. Il sogno di Max, in fondo, è quello di guadagnare la “visibilità” del proprio operato in un’ossessione cupa ed istrionica per il delitto, in cui il lato killer della sua personalità bilancia quello dotato di umorismo, empatia e capacità di stare con gli altri. Max non è, in altri termini, un vero e proprio anti-sociale come il succitato Henry, ma vive un odio represso che sfoga periodicamente girando i propri snuff, e che contribuiscono a dotarlo di un certo equilibrio dall’esterno e renderlo perfettamente anonimo, inquietante e insospettabile. Del resto chi mai penserebbe che un fotografo sognatore e stralunato come lui sia un serial killer feroce e, come se non bastasse, anche cannibale?

    La modalità del delitto segue un copione preimpostato: Max killer indossa dei guanti bianchi, si intrufola in casa delle persone, ne filma la vita di ogni giorno e poi le uccide nel modo più feroce (mediante un coltello, per soffocamento oppure con un batticarne), spesso legandole e costringendole a vedere la morte dell’eventuale partner, consapevoli di essere ripresi. Nella vita di ogni giorno, poi, continua a filmare cene di famiglia (di cui una con una carne “speciale”) e matrimoni, sempre accompagnato dall’introverso The Assistant: un anonimo cameraman trovato per strada, che proverà poi a rendere protagonista, a suo modo, del film che sta girando. Grottesco e voyeurismo sono, pertanto gli ingredienti base di questo found footage o mockumentary, di livello medio-alto e superiore alla media del genere come forma e contenuti: quasi a livello di The Poughkeepsie Tapes, che ha dalla sua una qualità fotografica superiore, che qui viene degradata probabilmente per adeguarsi ai tempi ed al formato VHS.

    Oggi un film del genere non si potrebbe più girare: sono finiti i tempi delle videoteche, e l’ultima fabbrica di VHS ha ormai chiuso. Per cui certi paradossi, come il momento in cui Max inizia ad aggredire e torturare il pubblico del suo stesso film che è andato a noleggiarlo, rischiano di passare in modo poco efficace o comprensibile. Al netto di questo, The Last Horror Movie spicca nella sua originalità e vive il suo principale punto di forza nella figura dell’istrionico protagonista.

  • The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    In un futuro prossimo, una ragazza viene condannata a vagare nel deserto in quanto “indesiderata” dalla società.

    In breve. Singolare variazione di tema rispetto al post-apocalittico classico, che rimane sempre popolato di anti-eroi e che, in questa sede, vede una protagonista femminile.

    L’operazione della regista Amirpour (questo è il suo secondo film), fin dai primi fotogrammi si mostra debitrice del cinema di genere di ogni ordine e grado, con l’analogo più recente dato da Revenge, ma anche a livello di ambientazione desertica e surreale in Laissez bronzer les cadavres. Arlen prende molto delle tipiche caratteriste tarantiniane (Kill Bill, Pulp Fiction) ma, ancora prima, da film come Thriller – En grim film: anche in quel caso, in effetti, abbiamo una protagonista in cerca di vendetta (e con un vistoso problema fisico: una volta alla vista, l’altra agli arti).

    Lavori del passato in grado di ribaltare, da sempre, gli assunti narrativi mainstream, quelli che impongono “l’eterna lotta tra il bene ed il male“, li stravolgono, li rimasticano per poter poi proporre (in modo meno manicheo) una storia cruda, diretta ed esplicita come non mai.  È alquanto limitativo che ci si limiti a bollare come “tarantiniano” The bad batch, perché – alla prova dei fatti – è molto di più: basterebbe considerare sequenze simboliche e grottesche come la “comunione” dei seguaci del santone mediante LSD, ad esempio, per convincersene. Per quanto il ritmo del film sia costante e privo di buchi narrativi, la vera perla conclusiva è sul finale, che ironizza sul degrado che ha caratterizzato il film ed è costruito su un singolare humour nero.

    Se è vero che le dinamiche del film sono totalmente da film di genere (che è – quasi sempre, direi – esercizio di stile per il piacere di proporlo) qui si prova a trasmettere un feeling ulteriore allo spettatore. Ciò implica che, tirando troppo la corda sulle possibili interpretazioni, si rischi solo di proporne di ridicole. Al netto di questi dubbi, inevitabili per un film del genere, The bad batch sembra voler proporre – come nella tradizione post-apocalittica (si veda anche The divide)  – un’umanità completamente allo sbando, in cui la lotta per la sopravvivenza viene imposta fin da bambini ed in cui, soprattutto, si evidenzia come qualsiasi modello di società sia soggetto a limiti e problematiche.

    La storia, del resto, inizia dagli stessi presupposti da cui partiva Fuga da New York: nel film di Carpenter i reietti erano stati confinati in una città abbandonata, mentre qui (in un gioco complementare che richiama, a sua volta, film come Interceptor) sono mandati fuori, in esilio – in un deserto sconfinato, in cui sembrano coesistere vari villaggi ed altrettanti gradi di civiltà: tutte basate sull’abuso, sulla violenza o sulla manipolazione, ognuna con rispettivi limiti e nessuna davvero “perfetta”. Un pessimismo antropologico piuttosto evidente, visibile anche nei caratteri dei personaggi che non sono mai pienamente identificabili come “buoni” o “cattivi”.

    In The bad batch (letteralmente il lotto difettoso, l’indesiderato/a – per inciso, l’assonanza con The bad bitch sembra del tutto incidentale) coesistono i ricicli di genere, il cannibalismo, l’horror sociale, l’ambientazione modello Mad Max e il culto nichilista della vendetta, quella feroce (e femminile) inaugurata da film come I spit on your grave. Prescindere da tutti questi aspetti, come molte analisi piuttosto grossolane sul web hanno fatto, secondo me significa svilire completamente un’opera davvero interessante e, per quanto non inedita, in larga parte imprevedibile ed originale.

  • Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Bomb City: se amate il punk, vi spezzerà il cuore

    Amarillo è sede di uno scontro sociale tra due modi di essere del mondo giovanile: da un lato punk, dall’altro jocks. Lo scontro finirà per esasperarsi fino alla tragedia.

    In breve. Splendido nella forma e devastante nella sostanza: un perfetto equilibrio tra realtà vissuta e romanzata, che rende Bomb City probabilmente uno dei migliori film a tema musicale mai girato.

    Questo film si basa sulla storia realmente accaduta a Brian Theodore Deneke, giovanissimo musicista punk morto nel 1997 ad Amarillo, Texas, per mano del coetaneo Dustin Camp. Non è l’unico film che racconta la sua storia (ci sono anche Criminal: Punks vs. Preps, trasmesso su MTV, e un episodio di City Confidential che ne parla), ma è quasi di sicuro quello che riesce a sintetizzare meglio lo scenario assurdo che si venne a profilare. Camp, infatti, ritenuto colpevole in prima istanza di omicidio volontario (investì il giovane punk con la propria auto durante una rissa), non scontò alcun anno di carcere e venne rilasciato.

    Il film è chiaramente una denuncia feroce contro il sistema giudiziario americano, e ne evidenzia l’ipocrisia e le contraddizioni a cominciare dal processo che viene presentato nei primi fotogrammi, a fatti già avvenuti, per poi ripercorrerne la storia attraverso un lungo flashback. Già l’arringa dell’avvocato difensore mette i brividi: pur difendendo un omicida, punta il dito contro l’immaginario punk ed i suoi slogan, strumentalizzandone i contenuti dei testi e ripetendo come un mantra negativo i suoi messaggi, ritenuti antisociali quanto anti-americani (“destroy everything“).

    Bomb City è il nickname di Amarillo dal duplice significato: da un lato “città esplosiva” per via dell’intolleranza e la contrapposizione middle-class tra giovani punk e ragazzi apparentemente per bene – in gergo jocks, ovvero gli archetipici giocatori di football “fighetti” tra cui Dustin Camp, chiamato Cody Cates nel film, evidenzia una cronica mancanza di carisma – dall’altro il nome deriva dalla presenza di una vecchia, spaventosa e suggestiva centrale nucleare.

    Il film, dotato di una fotografia oscura e suggestiva nel rappresentare un mondo stradaiolo realistico e difficile da vivere, evita il moralismo facile e punta il dito contro la situazione in sè, fatta di eccessi diversi da un lato e dall’altro, portando avanti un messaggio di rabbia ed un senso di ingiustizia che lascia, infine, lo spettatore annichilito. Esiste una lunga tradizione di horror, soprattutto anni 80 e 90, incentrati sulla middle-class USA e le sue mostruosità latenti (Society, ad esempio): ovviamente in senso stretto Bomb City non lo è, ma ne eredita buona parte del feeling rivoluzionario e di denuncia.

    Un film imperdibile, che potrà incuriosire anche chi non sapesse granchè sui fatti e non fosse necessariamente appassionato del genere musicale trattato. Molto fuori dalle righe, poi, la colonna sonora, fatta esclusivamente di musica hardcore punk del sottobosco underground dell’epoca.

  • Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Slacker: il film di Linklater ha inventato il cinema indie – prima che diventasse una moda hipster

    Un giorno apparentemente ordinario ad Austin (Texas), raccontato in mezzo ad una folla di disadattati, emarginati, amanti della letteratura ed artisti.

    In breve. Piccolo cult in costante bilico tra dramma e commedia, ed a cui numerosi cineasti si sarebbero ispirati in seguito. Sicuramente rientra nei 10 film “fuori dalle righe” da non perdere.

    Con una innovativa struttura – quasi certamente per l’epoca in cui uscì – Linklater ci introduce nel mondo degli under-30 durante gli anni 90, la “Generazione X” che tanto ha subito in termini di snobistici pregiudizi. Uno slacker, in inglese, non è altro che una persona che rifiuta deliberatamente di svolgere un lavoro – e condurre una vita – normale, pur essendone perfettamente in grado di farlo; secondo l’Urban Dictionary il termine può anche fare riferimento a qualcuno che, pur essendo intelligente, non se la senta di fare nessun lavoro in particolare, oppure “una persona che tenda a rinviare le cose all’ultimo minuto, e non appena arriva quel momento… decide che non fosse così importante. Così se ne dimentica“. Viene in mente, in soldoni, un ibrido di più personaggi, incostante ma al tempo stesso vigile e – direi – con la lucidità del Jack Torrance di kubrickiana memoria, in particolare quando afferma (poco prima di impazzire) che “è il senso del dovere che ci frega, amico mio“: è questo ibrido, in fondo, ad essere il protagonista di Slacker, e ne vedremo diverse caratterizzazioni attraverso i suoi numerosi personaggi.

    Fannulloni, depressi, apatici e disperati di ogni genere si riuniscono in una “giornata tipo” collegata per semplici flash ed accostamenti spazio-temporali, senza raccontare una vera e propria storia o meglio, forse, raccontandone parecchie. Il loro rifiuto per il senso del dovere indotto dalla società consumistica li porta in una direzione autarchica, che predilige i rapporti umani e le disquisizioni filosofiche alle attività produttive o puramente lucrative. La tragicommedia, del resto, risiede proprio nel non avere idea di come concretizzare quelle idee, che restano così tali e sono destinate a rimanerci. Nel far svolgere il film, che non possiede una trama ma è l’unione di più storie (spesso incomplete, ma poco importa), Slacker non cede al citazionismo fine a se stesso, o peggio all’astrattismo su cui avrebbero virato molte produzioni indipendenti successive: semmai mantiene un focus equidistante, tanto calcolato da sembrare scientifico, sulle varie storie, e rende il clima suburbano di Austin, la città del Texas, il vero protagonista.

    In questo, Slacker potrebbe avere anticipato qualcosa del falso documentario o mockumentary, e ciò lo rende ulteriormente affascinante. Al regista andrebbe ufficialmente riconosciuto l’enorme merito di aver realizzato ciò che viene considerato uno dei più importanti film indipendenti della storia del cinema, ad oggi. Lo stesso Linklater, nel ritagliarsi il ruolo del passeggero del taxi (alle prese con un soliloquio da autentico “filosofo urbano” sugli universi paralleli: “ad ogni scelta che fai o decisione che prendi, la cosa che scegli di non fare si separa e forma una sua realtà, sai, e prosegue all’infinito, da lì in poi“) erge una sorta di manifesto sull’eterna indecisione di quella generazione, nata negli anni 70, che ha studiato meticolosamente l’evoluzione della letteratura, del rock e delle sue sperimentazioni (“Una volta ho pranzato con Tolstoj…un’altra volta ero un roadie di Frank Zappa“), ha fatto nascere un nuovo tipo di cinema ed avrebbe assistito allo sviluppo di una tecnologia che, di lì a breve, sarebbe diventata di massa,  alla portata di chiunque.

    Il racconto di vite decomposta e allucinata di un’intera generazione, verso una rivoluzione che mai sarebbe arrivata, ed un mondo del lavoro – già all’epoca – scheggia impazzita e disumana, per cui si sente inadeguata o fuori misura (“A tutti voi, lavoratori là fuori: ogni singola merce che producete è un pezzo della vostra stessa morte“), tra più sogni e realtà che finiscono grottescamente per perdersi nella propria autocommiserazione (“il sogno che ho appena fatto era come questi, solo che non succedeva niente di strano, cioè… non succedeva proprio nulla“). E se mediamente in un film, nella fase di montaggio, secondo IMDB possono contarsi fino a 1000 tagli, in Slacker ce ne sono solo 163, al fine di dare massima continuità ambientale alle scene, limitando così i passaggi bruschi. Potremmo affermare, pertanto, che Linklater ha realizzato un esperimento unico nel suo genere, che in mano a potenziali imitatori sarebbe facilmente risultato caotico, o peggio poco comprensibile al pubblico.

    Grandissima importanza, nel film, tendono ad assumere i fitti dialoghi, quasi sempre permeati di riferimenti alla cultura underground: lo stile metropolitano-bohémien, ciò che in seguito sarebbe stato chiamato grunge in contrapposizione agli yuppies, l’emarginazione, la solitudine, le macchinazioni in piccolo (il figlio che ha investito la madre) ed in grande (le teorie del complotto su JFK), i sogni, le passioni, le piccole band con cui provare ad ammazzare il tempo, ma anche le teorie sugli UFO e sugli allunaggi – molto prima, per inciso, che questi argomenti divenissero un fenomeno di massa come poi, di fatto, è avvenuto grazie al web. Slacker finisce per essere un manifesto degli anni ’90 realistico, a volte crudo e dall’elevato contenuto poetico, per chi all’epoca cercasse un lavoro, una vita, un’identità, il tutto sfruttando un espediente narrativo tipico della letteratura moderna come il flusso di coscienza (Joyce viene citato in almeno un’occasione) e le associazioni di idee.

    In questo apparente caos di citazioni e vite sconnesse emerge una sorta di manifesto generazionale: quello della Generazione X, sbandata e priva di riferimenti eppure, al tempo stesso, parte integrante del cambiamento radicale indotto da internet e dal web 2.0 che sarebbe arrivato, a livello globale, di lì a breve. Ed è questo, forse, il senso finale – e più plausibile – di Slacker: quello espresso dal personaggio in una delle ultime battute del film: “…i film sono fotografia, 24 volte al secondo. […] Da giovani si piange per una donna. Poi, quando invecchiamo… per le donne in genere. La tragedia della vita è che un uomo non è mai libero: eppure si sforza di essere ciò che non sarà mai. Ciò che è segretamente temuto… succede sempre. La mia vita, i miei amori, cosa sono adesso? Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma. La bellezza essenziale nella vita sta nell’arrenderti completamente ad essa. Svegliati, America”