Salvatore

  • Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Da sempre attento alle evoluzioni delle nuove tecnologie, agli effetti della macchina sull’uomo e sul suo comportamento sociale, in molti suoi film David Cronenberg ha analizzato (secondo i canoni dell’estetica cyber-punk, per quello che riguarda la prima produzione) il rapporto tra scienza e umanità.

    Un rapporto ancora oggi attualissimo, è destinato a modificare i nostri modelli di comportamento, sopprimendo ogni istinto primordiale a vantaggio di un’esistenza regolamentata da tempi di produzione, scadenziari elettronici, in definitiva: un copione prestabilito. Ed il punto cruciale sta proprio in questo: il regista si guarda bene dal demonizzare la tecnologia, piuttosto mostra di volerla conoscere a fondo, mentre l’incubo di un condizionamento totale nell’agire quotidiano aleggia su di lui. E, alla lunga, dal 1983 (anno di uscita del film) su di noi.

    Io penso che noi crediamo che la nostra vita sia fisicamente relativamente stabile, ma non lo è. Il nostro corpo è un uragano: muta costantemente, è solo un’illusione che si tratti dello stesso corpo da un momento all’altro. Per questo diventa ancora più urgente la questione dell’identità. (D. Cronenberg, intervista con Enrico Ghezzi, 1988)

    Se c’è una cosa che è vitale in Cronenberg, del resto, e che testimonia il suo non-essere tecnofobo, è l’atteggiamento è l’ossessione per il corpo umano. Sullo schermo, mentre il film va avanti, vediamo un orrore certamente schizofrenico ed allucinatorio, ma al tempo stesso tangibile, intrinseco nella carne umana. Un orrore che potrebbe stare a metà tra la della rivolta dei cadaveri di Romero e la fusione uomo-macchina di Tetsuo. Videodrome rappresenta probabilmente la massima espressione della poetica del regista canadese.

    La tecnologia, simbolo stereotipato del progresso e dell’evoluzione umana, arriva a fondersi nella pelle, diventa tutt’uno con l’intero uomo e le sue illusorie certezze di conoscenza assoluta. Il direttore della stazione televisiva Canale 83 (Max Renn, aka James Woods) è un uomo cinico e convinto di sapere dove sta andando. Le sue certezze, le sue convinzioni, il suo stesso scetticismo verso il tubo catodico (afferma più volte di non credere a ciò che vede sullo schermo) viene smontato dal peggiore degli incubi. In esso non esiste più umanità, non esiste alcun contatto fisico e corporale, esiste soltanto una realtà virtuale che ci lobotomizza e ci riduce a numeri per il grande schermo.

    Quello spettacolo di morte, quello “snuff” realizzato con pochissimi mezzi, quella rappresentazione pura di violenza non è altro che una metafora della sua stessa vita. Pessimisticamente, della vita di un numero crescente di noi. La stessa sessualità, prima vissuta da Max con gelida indifferenza, diventa uno strumento di dipendenza e di morte progressiva, scandita dall’illuminazione di un tubo catodico.

    Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion)

    Il professor O’ Blivion (nomen omen dichiaratamente riferito alla condizione di essere completamente dimenticato, ovvero spersonalizzato) dichiara apertamente, a circa metà del film, il manifesto di Videodrome: il potere di controllo delle menti si esplica nel momento in cui la televisione impone la propria realtà. Se il tubo catodico mostra violenza, non fa che pubblicizzare un lato oscuro dell’animo umano, ovvero quello puramente distruttivo represso da un’apparente civilizzazione. Per cui non è colpa della televisione se viviamo nella violenza: semmai è un mezzo che mostra e ci ricorda le nostre ossessioni primordiali. Con risultati spesso devastanti.

    Ultimo punto fondamentale è il disorientamento in cui vive il protagonista dopo la prima visione dello snuff-movie: la portata delle immagini è talmente pesante che invece di esserne turbato e cercare qualcosa di edulcorato, si abbandona a fantasie erotiche sado-masochistiche, immagina di fare sesso nella stanza delle torture appena vista, ivi sogna di somministrare dolore fisico alla propria compagna. Più semplicemente, non riesce più a distinguere il sogno dalla realtà, il pensiero dall’azione. E poi, di quale realtà si parla se non quella percepita dai sensi? Quella realtà tremendamente soggettiva che egli riconosce fin troppo bene, ma che (tragicamente) non sempre gli altri sembrano disposti a comprendere. Da qui nasce un paradosso che vede da una parte l’alienazione totale dell’individuo, che vive isolato e, per riprendere un’immagine cara ad una certa sci-fi, con dei televisori al posto della testa.

    Nell’epoca del Grande Fratello, scimmiottato periodicamente in terrificanti programmi televisivi in cui “persino” dei personaggi di spettacolo mostrano la propria corporeità, la poetica di Cronenberg suona ancora attuale. La stessa idea di socialità, di sessualità, il modello comportamente imposto alla massa è oggi scandito dalla televisione e dalle mostruosità che rivela giorno dopo giorno. E si tratta di uno spettacolo che dovrebbe essere vicino alla vita di tutti noi, in cui ognuno di noi dovrebbe (secondo la volontà dei produttori) riconoscersi. Un modello di omologazione culturale che distrugge mentalmente ogni individuo e soffoca la sua stessa sessualità in agglomerati illusori di pixel.

    Avviso: da qui in poi contiene parti rivelatrici (o spoiler) del film.

    Cronenberg è stato ospite al Festival di Roma (ottobre 2008), dichiarando:

    noi esseri umani siamo solo animali che si immaginano e hanno il desiderio di diventare diversi da quello che sono. Per far sì che ciò si realizzi ricorriamo alla religione, alla cultura. Mi interessa moltissimo questa forma di trascendenza, questo desiderio dell’essere umano di andare al di là di se stesso. Pur non programmandolo, finisco per parlarne in tutti i miei film“.

    Le sue parole contengono, a mio avviso, molte verità su Videodrome. La fragilità di Max Reinn appare nella sua completezza: cinico e spietato all’inizio, fragile e insicuro della sua realtà a causa di un segnale televisivo che lo aggredisce mentalmente. Tale “aggressione mentale” intesa come manipolazione è anche alla base di uno dei primi lavori del regista, Scanners.

    Il discorso su Videodrome visto in precedenza merita così di essere continuato. Perchè credo che sia necessario premettere, oltre che puntualizzare (per chi non avesse mai visto l’opera), cosa non è Videodrome. Questo film non è semplice exploitation per attrarre pubblico morboso e curioso, nè si limita ad usare lo splatter (presente per la verità in piccole dosi) come forma artistica che mostra

    la debolezza del corpo umano soprattutto in un momento storico, gli anni ottanta, in cui la perfezione fisica e l’edonismo erano considerati simboli di scalata sociale” (R. Nepoti, Lo splatter (il montaggio) e l’imago del corpo in frammenti).

    Videodrome non si limita a mostrare la debolezza di chi ricorre alla violenza estrema per soddisfare le proprie inibizioni e frustrazioni. Anche se il discorso, come già ne “Il demone sotto la pelle“, è di natura sessuale e tocca un tabù di oggi, peraltro, come la sessuofobìa. Per quanto verità inconfessabile, infatti, tantissima gente è attratta e spaventata dal sesso, per via della paura dell’altro, dell’incertezza, del timore di rimanerne feriti o coinvolti in un’altalena emotiva che diventa logorante per alcuni di noi. Viene in mente il feticcio ballardiano del successivo film Crash, in cui sono le automobili (simbolo della rivoluzione industriale) a diventare l’unico mezzo per eccitarsi.

    Videodrome del resto vuole mettere in crisi il modello comunicativo imposto dai mass-media, mette a nudo i pericoli insiti nell’utilizzo del tubo catodico che rischia di diventare una vera e propria arma di manipolazione di massa. Un rischio che potrebbe (teoricamente) essere evitato affidandoci ad un senso critico che deriva direttamente dai nostri organi, ma che il cupo pessimismo del regista rende utopico. Il tutto, pero’, senza degenerare in una paranoia immotivata verso la tecnologia.

    Cronenberg sa bene di cosa parla nei suoi film: ed è grande la sua capacità di inventare “tecnologia che si ibrida” col corpo umano in modo tanto credibile da spaventare di per sè senza mostrare nient’altro. Questo grazie al suo piglio diretto, sistematico nella sua follìa, ma soprattutto razionalista, correttamente informato su tubo catodico, emissione di segnali audio/video e, in futuro, pod da collegare direttamente al cervello (“eXistenZ“).

    Max Renn non diventa altro che un videoregistratore programmabile, che viene letteralmente inseminato da Videodrome attraverso l’orefizio vaginale del suo ventre e programmato come “video-parola fatta carne”. Nel finale proclama con freddezza “gloria e vita alla nuova carne” e si suicida dopo aver visto sè stesso farlo in TV: un’atto di emulazione che ricorda il paradosso di O’Blivion citato all’inizio: la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione.

  • Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Beverly e Elliot Mantle (Jeremy Irons) sono due gemelli che condividono, oltre ad un’insana passione per la chirurgia, letteralmente tutti gli aspetti della propria vita, compresi quelli legati al sesso; il film racconta il processo di distacco da parte di uno dei due e la rovina che travolgerà entrambi…

    In due parole. Cronenberg mette in cascina l’horror puro per concentrarsi sugli aspetti più oscuri della personalità, in particolare sul senso di solitudine (mostrato come meccanismo fondamentalmente auto-indotto) e sulla dipendenza interpersonale che sfocia, come da copione, in tragedia. Il tutto con la freddezza e la determinazione di un chirurgo di fronte ad un tavolo operatorio.

    “Il dolore provoca distorsione del carattere… semplicemente, non è necessario”

    Ispirandosi alla storia vera dei gemelli Marcus (1975), David Cronenberg sviluppa il tema del doppio innestando nell’intreccio svariati dettagli medico-ginecologici. Essi simboleggiano, con più forza rispetto al passato, le mutazioni della personalità degli individui, e fanno assumere all’interiorità delle persone una valenza letteralmente organica. La ricerca del grande regista canadese prosegue così nelle consuete direzioni, ed il romanzo “Gemelli” di Wood e Geasland offre un’opportunità  ulteriore per approfondire le più amate tematiche: la mutazione della carne che si riflette sulla personalità, il desiderio e la paura della maternità oltre, ovviamente, all’incubo della separazione di ciò che ha vissuto sempre in simbiosi. Nonostante la storia dei due protagonisti – un Jeremy Irons indimenticabile – proceda inizialmente di pari passo, uno dei due fratelli (quello “buono”, Beverly) svilupperà progressivamente una forma di schizofrenia che si ripercuoterà anche sull’altro.

    Questo distacco viene simboleggiato in modo eccellente dalla scena dell’incubo di Beverly, che vede Claire – la donna che hanno condiviso a sua insaputa – strappare il cordone ombelicale che li unisce con un morso (auto-citazione di Brood). Il film si incentra di fatto sulla definizione di tre personaggi: Beverly, fragile e sensibile, Elliot, cinico e calcolatore e Claire, donna “mutante” poichè dall’utero triforcuto (la quale diventerà presto causa della forte depressione del primo). L’unica debolezza di Elliot è proprio legata al destino del fratello, il quale si mostra talmente convinto e fedele alla propria scienza (La mosca) da idolatrare la tecnologia (Videodrome) e realizzare degli strumenti chirurgici ex-novo, che si possano adattare per l’appunto ai corpi di mutanti.

    Il tutto fino alla poetica, paurosa e romantica scena finale, nella quale il processo di simbiosi finalmente si materializza. Uno dei Cronenberg meno scontati, più lunghi e più complessi in assoluto, non tutto il pubblico riuscirà a seguire ogni dettaglio, ma ne vale davvero la pena.

  • Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Seguito di Hostel molto efficace sempre dello stesso regista, offre nuove suggestive e violentissime visioni, oltre a qualche sprazzo di caratterizzazione dei personaggi ed il sano revival da revengemovie anni 70-80.

    Il film si apre con un misterioso individuo che brucia all’interno di un forno documenti, fotografie, vestiti ed oggetti personali dei ragazzi massacrati – evidentemente – nel primo episodio: tiene per sè stesso soltanto il denaro. Nel frattempo i titoli di testa annunciano che si tratta di un film di Eli Roth, con la partecipazione tra gli altri di due volti ben noti del cinema italiano: Luc Merenda ed Edwige Fenech.

    Ci parli un po’ di questo posto in Slovacchia

    E’ un vecchio fabbricato… in cui delle persone molto ricche pagano per uccidere dei ragazzi

    Paxton – sopravvissuto al precedente episodio – sente su di sè una comprensibile apprensione che lo porta ad avere incubi tremendi: nel primo di questi, splendidamente disegnato dal regista, viene interrogato da un inquietante ambasciatore slovacco che prima insinua il suo coinvolgimento nell’omicidio del suo precedente aguzzino, e poi lo pugnala senza pietà. Neanche il tempo di capacitarsi della terribile visione notturna che finisce decapitato dalla Confraternita, al cui capo (Sasha) viene consegnata la testa del ragazzo all’interno di una scatola.

    Seppur mantenendo dinamiche da classico b-movie – le studentesse a caccia di avventure, lo stereotipo di nerd al femminile, il presunto maniaco che esce fuori immancabile dopo qualche minuto, i bravi ragazzi che non sono tali – sviluppa in modo molto originale il tema, inserendo spunti abbastanza imprevedibili. Eli Roth è, da buon seguace di Tarantino, affetto da una inguaribile mania citazionista: tanto per citare le prime tre, inserisce la Fenech – protagonista di gialli ed erotici italiani a cui il film si ispira – nei panni della rassicurante insegnante di belle arti; successivamente delinea il clima di paranoia claustrofobica all’interno del treno (citazione quasi letterale da “L’ultimo treno della notte di Aldo Lado“), e come se non bastasse mostra due avvenenti fanciulle che guardano Pulp Fiction dentro l’ostello. Come sempre, come non mai, l’oggetto dell’orrore è la crudeltà e l’avidità umana: siamo noi, nel nostro lato peggiore e più morboso.

    “Che cosa farai lì dentro?”

    “Non vorresti saperlo”

    Non dimentichiamo che si tratta di un sequel, ad ogni modo: la tensione impalpabile del primo episodio è in parte smarrita, visto che il pubblico sa già dove si andrà a parare anche se, a conti fatti, è una buona scusa per ricalcare ed approfondire con una certa verve sarcastica quello che è il messaggio del film. I ragazzi dell’ostello sono venduti letteralmente all’asta, mentre i ricchi di tutto il mondo giocano al rialzo (chi col palmare, chi con il PC, chi con un cellulare) mediante una sorta di mercato online della morte che potrebbe ricollegarsi alla presunta dinamica degli snuff-movie.

    La Confraternita prevede che i ricchi killer vengano tatuati: ma “un tatuaggio non è facile da spiegare” afferma candidamente il padre di famiglia Stuart (apoteosi di humor nero: evidentemente pagare per uccidere qualcuno è più semplice!). Del resto, come avrebbe giustificato l’orrido disegno sulla pelle agli occhi della moglie che, a suo dire, “non ha una mente molto elastica“?

    Il personaggio contraddittorio di Stuart, peraltro, è quello che da’ una certa svolta ad “Hostel 2” rispetto al suo predecessore: c’è tempo per accorgersi che l’uomo sta visibilmente male, che non sa affrontare i propri problemi e che sembra praticamente un perfetto incapace, impedito anche nel torturare la povera Beth. Il pubblico non fa in tempo a tentare di identificarsi in lui che, all’improvviso, rivela la propria anima nera come la pece: esattamente il contrario accade con il suo amico Todd, odioso ed arrogante fin dall’inizio, ma tutto il male fisico che riuscirà ad infliggere sarà dato praticamente per caso, fino alla sua morte.

    (Beth rivolta ad Axelle) “Allora tu e Sasha state…”

    “Oh no, santo cielo, potrebbe essere mio padre!”

    Nulla è casuale in questo film, tutto è sadicamente e millimetricamente misurato: come la suggestiva scena della novella contessa Bathory – che uccide a colpi di falce e fa sanguinarsi addosso, stando completamente nuda, la povera Lorna. Oppure l’immancabile baby-gang  castigata ferocemente da Sasha con un colpo in testa per aver osato tentare di aggredire una delle preziose ragazze, pagate ognuna decina di migliaia di euro. Del resto il clou del film sta proprio nel modo in cui Beth si trova a salvarsi: dopo aver sedotto il proprio aggressore, esalta la tradizione del revenge-movie, prima trafiggendo un orecchio del suo carnefice e poi, neanche a dirlo, castrandolo con una cesoia. Guarda caso anche qui la donna bella e aggressiva è un ulteriore stereotipo preso in prestito da Quentin Tarantino, ma saranno esclusivamente le sue doti monetarie ad avere la meglio e a concederle di non violare comunque il contratto: il gioco prevede comunque la morte, per cui Stuart – con il quale sembrava quasi avere feeling, all’inizio – dovrà semplicemente morire dissanguato. Nessuna speranza e solo morte che ritorna, dunque, con la macabra decapitazione finale di Axelle da parte di Beth, e la cui testa diventerà un vero e proprio pallone da calcio per la baby-gang (collegamento, forse inconscio, con i tifosi che infastidivano le ragazze in treno all’inizio).

    A mio avviso se non fosse per la poco incisiva “storia” tra la saggia e cinica Beth ed il frustrato Stuart, staremmo davvero a parlare di un incredibile capolavoro di Roth, che comunque merita di essere visto ed è, senza dubbio, per pubblico dallo stomaco d’acciaio.

  • Tesìs: il film che racconta il commercio dei film snuff

    Tesìs: il film che racconta il commercio dei film snuff

    Una studentessa spagnola sta realizzando una tesi sull’estremizzazione della violenza negli audio-visivi: finirà coinvolta in una singolare storia di commercio clandestino di snuff-movie.

    Tesìs è un film molto interessante dal punto di vista narrativo, in cui la presunta faccenda dei filmati amatoriali che mostrano violenza e morte reale di vittime umane diventa un pretesto per proporre una forte critica al voyeurismo dei media e, soprattutto, degli spettatori stessi. Abituati a tonnellate di orrori che i media usano proporre spesso senza filtri e mezzi termini, Amenàbar – qui al suo esordio cinematografico – si rivolge a tutti noi, e riesce a riassumere in due ore tutte le angosce e la morbosa voglia di guardare che accomuna gli esseri umani.

    All’inizio del film, in effetti, è riassunto in pochi minuti quello che è lo spirito principale dell’opera: i passeggeri di un treno, tra i quali la protagonista Angela (Ana Torrent), vengono fatti scendere ad una stazione poichè una persona è appena finita sotto lo stesso. I passeggeri vengono fatti uscire ordinatamente in fila, ma quasi nessuno di loro – protagonista inclusa – puo’ fare a meno di cercare di carpire qualcosa del macabro scenario appena accaduta, provando a sbirciare al di là della zona interdetta.

    E’ questo, in definitiva, l’interrogativo che si vuole porre all’interno di Tesìs: non tanto comprendere se gli snuff siano un fenomeno vero o inventato, quanto chiedersi perchè le persone cerchino questo genere di opere. E la risposta sembra essere legata alla stessa natura umana, insensatamente e pessimisticamente crudele. L’effetto straniante dell’assistere alla “morte in diretta” viene presentato in modo molto ambiguo a partire dalla stessa protagonista: la brava ragazza della porta accanto, per la quale il regista non puo’ fare a meno di sottolineare il suo guardare-non guardare, il suo rifiutare la violenza visuale di quelle crude (e realistiche) immagini ma esserne, al tempo stesso, fortemente attratta. E’ vero che le immagini le serviranno per la ricerca ma, in fondo, sembra quasi che le brami solo per se stessa. Cosa peraltro molto ben delineata dalla sua doppia attrazione sia verso Chema, suo collega misantropo appassionato di cine-gore (ed in possesso di svariati e violentissimi mondo-movie), che verso il “normale”  Bosco Herranz, prototipo di bullo da college.

    Un film davvero notevole, senza mai un calo di tono e che riesce a farsi seguire con grande attenzione, rivelando alla fine uno scenario che vuole un professore della scuola di cinema coinvolto nei fatti: perchè, dice a più riprese, l’unico modo per salvare il cinema è dare al pubblico ciò che vuole (che è anche una celebre affermazione di Joe D’Amato: “Quello che noi abbiamo sempre cercato di fare è stato dare al pubblico quello che il pubblico voleva. Con passione ed entusiasmo. E senza un filo d’ipocrisia“). Il tono del film, comunque, non è mai inquisitore o moralistico, nè tantomeno accondiscendente: lo sguardo della telecamera non mostra mai più che un accenno ai presunti snuff, e il più delle volte limita la sua rappresentazione alle espressioni disgustate – o soddisfatte! – dei protagonisti che, loro malgrado, osservano. Bello anche il finale, geniale nella sua impostazione per un film davvero senza alcun vero difetto.

    Sul mondo degli snuff, del resto, andrebbe aperto un articolo a parte, e a tale riguardo mi sembra interessante l’analisi effettuata da Snopes che li declassa a mera leggenda metropolitana.

  • Giornata nera per l’ariete: giallo all’italiana da non perdere

    Giornata nera per l’ariete: giallo all’italiana da non perdere

    Durante la festa di capodanno il timido John Lubbock – un giovane insegnante – assiste con sofferenza alle effusioni di Isabelle, ricchissima donna del posto, con il suo più grande collega (Valmont), suo promesso sposo. Poco dopo Lubbock viene aggredito da uno sconosciuto mentre torna a casa, mentre Andrea, un giornalista con problemi di alcool, cerca di ricucire il suo rapporto con Helena, la sua ex compagna.

    In breve. Dallo stesso regista de “Le orme“, un thriller italiano sopra le righe, con finale a sorpresa.

    Descritto dai più come film contorto che predilige la forma sulla sostanza, si tratta in realtà di un piccolo gioiello del cinema di genere all’italiana, quantomeno nel proprio genere. Molte tematiche in effetti tipiche (la follia, lo sdoppiamento della realtà e la sua distorsione) sono molto meno approfondite della media, ma esiste certamente più classe cinematografica. L’intreccio è tratto, molto liberamente a quanto pare, dal romanzo The Fifth Cord di David Macdonald Devine.

    Iniziano poco dopo l’avvio del film una catena di omicidi, legati da un filo apparentemente legati alla persecuzione del giovane professore, ma la verità è molto diversa – verrà rivelata solo negli ultimi minuti del film. La prima a morire è la moglie semi-paralizzata del dottor Binni, proprietario ed azionista del giornale in cui lavora Andrea: successivamente il capocronista, ritenuto co-responsabile del licenziamento dal protagonista, viene trovato morto in un parco apparentemente per infarto. La polizia arriva a sospettare dello stesso giornalista, e successivamente muore Isabelle, proprio quando si era decisa a contattare Andrea per comunicargli qualcosa di importante. Infine ad una prostituta tocca la medesima sorte: ogni delitto contiene un preciso indizio, ovvero un guanto con un dito mancante in più ogni volta, a sottolineare il numero di vittime che mancano.

    Chiaro che gli echi argentiani nell’intreccio non mancano, a cominciare dal particolare sfuggente che il protagonista non riesce a ricordare, e che lo tormenterà fin quando non riuscirà a bloccare l’assassino, proprio mentre che sta per aggredire il figlio di Helena, dopo essere penetrato in casa sua. Scena interessante, peraltro, poichè oggetto di un inquietante chiaroscuro: il bambino dovrà fronteggiare l’autentico “uomo nero” da solo, mentre la madre è fuori casa e gli ha giurato per telefono – qualche istante prima – che l’uomo nero … non esiste. Esiste inoltre una certa diluizione nella trama, e questo rischia di non rendere perfettamente fruibile la storia: ma il giallo all’italiana è spesso così, in una forma che aggiunge dettagli apparentemente rilevanti al semplice scopo di confondere un po’ le acque, e rendere meno ovvio lo svolgimento dell’intreccio.

    Incredibilmente si scopre che il filo conduttore degli omicidi è il fatto di essere commessi di martedì, la giornata di Marte, astrologicamente considerata una giornata favorevole per i nati nel segno dell’Ariete, come l’assassino… Nonostante il piccolo azzardo nel finale la sceneggiatura è solida, considerata nella sua interezza: tuttavia alcuni aspetti del film andavano forse approfonditi con maggiore attenzione, cercando di collegare meglio i vari personaggi che in verità rimangono abbastanza sconnessi (il film rimane poco impresso, tant’è che ho dovuto rivederlo una seconda volta per recensirlo). Superato questo difetto di massima, le interpretazioni sono molto convincenti, ed ho trovato particolarmente azzeccato lo stile da noir puro con Andrea che, con il suo impermeabile caratteristico, commenta dall’esterno lo svolgimento dei fatti nel finale, neanche fosse il cinico Henry Fonda di “Milano odia…”. La frase dell’assassino a circa metà film (“La prossima vittima è già scelta, il modo della sua fine deciso. Al di là dell’esaltazione c’è qualcosa di profondamente divino nel trasformare un essere sofferente in materia inanimata, per l’eternità“) è ripresa dal pezzo “94x Flashback di massacro” di “Misantropo a senso unico” dei Cripple Bastards.