Salvatore

  • L’iguana dalla lingua di fuoco: un giallo modello argentiano che vale la pena rivedere

    L’iguana dalla lingua di fuoco: un giallo modello argentiano che vale la pena rivedere

    Dublino: una donna viene brutalmente assassinata e sfigurata con il vetriolo da un misterioso individuo; si scoprirà essere un serial killer che taglia la gola a tutte le successive vittime. Il legame tra le stesse sembra essere un ambasciatore che si trova in zona…

    In breve. Giallo modello argentiano, interessante per molti versi quanto vagamente improbabile nelle conclusioni.

    L’iguana dalla lingua di fuoco – riferimento allegorico al potenziale assassino, ben nascosto nella giungla urbana quanto spietato al momento di agire – oltre ad essere debitore de L’uccello dalle piume di cristallo è anche l’unico giallo-thriller girato in Irlanda, almeno secondo IMDB. Molte delle scene furono girate a Waterford, a quanto risulta, in particolare quella celebre del ponte nella nebbia e quelle nei pressi del fiume. Si tratta di uno dei film più citati nella tradizione del giallo all’italiana, sulla scia di ciò che avrebbero girato Lenzi, Argento, Fulci e moltissimi altri. La scena dell’acido che corrode la faccia della vittima, ad esempio, venne realizzata con un miscuglio sperimentale che potesse emulare l’effetto del vetriolo (sostanza citata dalla polizia).

    Il soggetto si baserebbe sul misconosciuto romanzo “A Room Without a Door” scritto da Richard Mann, tanto che secondo il critico Roberto Curti esso nemmeno esisterebbe: in effetti il soggetto è accreditato a Riccardo Freda (che si firmò come Willy Pareto alla regia, perchè non gli piacque il risultato finale) e Sandro Continenza, in collaborazione con altri tre nomi: Günter Ebert, André Tranché ed il succitato Richard Mann (del quale effettivamente non ci sono notizie su IMDB, se non per l’unico romanzo in questione, del quale si fatica a trovare notizie anche altrove). L’ambientazione è in una Dublino lugubre e misteriosa, dal feeling puramente settantiano ed in cui si fuma ancora nei locali e si va in giro senza casco. La figura dell’assassino, ambigua fino alla fine (a partire dall’attribuzione del suo sesso) è un tagliagole spietato che sembra agire per frustrazione, anche qui sicuramente archetipico di molti altri killer del cinema che si sarebbero visti ed affinati in seguito, con altri registi.

    I toni del film sono quelli già noti del giallo italiano, per quanto qui ci troviamo di fronte ad uno dei primi esperimenti di questo genere: la polizia indaga su un delitto avvenuto in un ambiente apparentemente rispettabile, nel quale chiunque potrebbe essere l’assassino. I primi sospetti ricadono sullo stesso ambasciatore, ma poi Freda insiste sul dettaglio degli occhiali da sole (unica cosa riconoscibile del volto dell’assassino) i quali compaiono ripetutamente in varie parti del film, facendo rimbalzare i sospetti sull’autista, sulla figlia dell’ambasciatore, sul suo fratellastro, sulla figura dell’uomo che si aggira misteriosamente per la lussuosa casa dell’uomo, addirittura sulla figura del poliziotto dai metodi non convenzionali (interpretato da Luigi Pistilli). Un rimbalzo di sospetti ed un gioco di specchi che è tipico del genere, e che – almeno la prima volta che si vede la pellicola – tende a mantenere alto l’interesse del pubblico.

    Del resto non mancano i difetti anche in un film seminale del genere, al di là del richiamo nel titolo ad uno dei capolavori di Dario Argento (e la sua trilogia degli animali): le scene violente sono insolitamente esplicite per l’epoca, ma sfruttano artigianalmente gli effetti speciali che si sperimentavano, del resto, con gli scarsi budget dell’epoca. Non convincono troppo le interpretazioni di alcuni personaggi, anche se è interessante rilevare la figura del poliziotto che tende a risolvere la faccenda a modo proprio (un vero e proprio archetipo di personaggio, che polizieschi molto popolari riprenderanno di continuo, fino ad oggi). Anche a livello di soggetto, poi, la trama è costruita con una certa destrezza, ma le conclusioni non reggono del tutto: non è troppa chiaro il movente dell’assassino, tantomeno il suo singolare modo di camuffarsi.

    Il film si regge comunque dignitosamente, ed intriga – nonostante alcune sequenze non al top come effettistica, oltre che probabilmente poco realistiche: vedi la donna che rimane appesa al bordo del ponte – per la sua capacità di ribaltare i fronti più volte. Questo avviene anche per via del doppio finale, addirittura triplo se si considera l’ulteriore rivelazione degli scheletri nell’armadio di uno dei principali sospettati. Freda non ha voluto scagionare realmente nessuno: a cominciare dal poliziotto in cui il pubblico dovrebbe identificarsi (che ha un passato torbido e shockante) a finire dalle identità dei vari personaggi, di cui ognuno sembra nascondere segreti inconfessabili, allegorici ed intriganti.

    Visto oggi, rimane un film che ha fatto la storia del genere, e che si rivolge prevaltemente ad un pubblico di appassionati.

  • Passi di danza su una lama di rasoio: il giallo erotico con J&B

    Passi di danza su una lama di rasoio: il giallo erotico con J&B

    Una donna assiste casualmente ad un omicidio mediante un cannocchiale, e la polizia sospetta – inizialmente a ragion veduta – del fidanzato di lei. In un classico intrigo alla “tutti sospettati” uscirà fuori la “contorsionistica” verità…

    In sintesi. Ennesimo giallo all’italiana girato uscito in un periodo prolifico per il genere: la cosa migliore del film rimane l’azzeccatissimo titolo, che fa presagire una trama intrigante – cosa che delude, in parte, le aspettative. Non un film da buttare, beninteso, ma neanche da osannare, in bilico tra qualche punta di noia e circostanze che appaiono “buttate lì” per costruire un giallo di forza, anche a costo di calcare la mano su certe sequenze e renderle forzose. Un thriller italiano, migliore nella seconda che nella prima parte, che non è certo entrato nella storia, e questo pur offrendo elementi topici piuttosto usuali e, probabilmente, proprio per questo mediocri.

    Maurizio Pradeaux firma questo giallo-thriller-erotico che mescola varie suggestioni in modo alquanto artificioso, senza una reale incisività e con una trama che manca vagamente di mordente. Resta il fatto che “Passi di danza su una lama di rasoio” si lascia guardare con discreto interesse, e dando per scontato che non sia roba troppo comune girare capolavori come “L’uccello dalle piume di cristallo” e “Non si sevizia un paperino“, possiamo solo riconoscere che questa produzione di Pradeaux ricada “comodamente” nella norma del periodo e del genere. Non manca, tanto per capirci, l’assassino in impermeabile, guanti e cappello nero, un vero e proprio “stereotipo vivente” inventato da Dario Argento; la sua identità passa agevolmente da un/una sospettato/a all’altro/a fino alla rivelazione conclusiva, e questo certamente si rivela come un punto a favore della pellicola.

    Del resto non mancano sbavature ed improbabili sequenze: cose tipo l’anziana che si confida col protagonista sorseggiando un gustoso J&B (unofficial sponsor piuttosto popolare nei film d’epoca), cose che in qualche modo faranno più sorridere che indignare il pubblico; di fatto, ad essere onesti, il film non sembra esattamente l’ideale per “iniziarsi” al genere. L’elemento di erotismo, in altri film simili vagamente funzionale alla trama o quantomeno di notevole intensità, sembra qui un mero riempitivo per adescare il pubblico maschile, e risulta addirittura poco credibile su certi frangenti (vedi alcuni amplessi che sembrano artefatti e troppo simulati). Certamente la seconda parte del film  è più accattivante della prima, ovvero si tratta di uno di quei lavori che richiedono una punta di resistenza da parte del pubblico che potrebbe, in certi casi, uscirne soddisfatto.

    Rimangono da capire alcune singolari discrepanze, tra cui il killer che va in giro rigorosamente in impermeabile e donne piacenti che amano, di contro, dormire “ovviamente” nude: ma questi sono stereotipi di genere che vengono ogni volta rielaborati dal regista di turno, qui in modo del tutto ordinario. A ben vedere è proprio la regia a non essere stata troppo incisiva: senza voler fare paragoni che potrebbero risultare impropri, probabilmente Pradeaux si è trovato a cavalcare l’onda del periodo, lo ha fatto senza sfigurare completamente ed il risultato, visto oggi, lascia qualcosa a desiderare. Una galloppata singhiozzante che culmina in un finale neanche troppo scontato, ma con un movente ed una copertura troppo di facciata e, in un certo senso, piuttosto discontinua rispetto alla trama. “Passi di danza su una lama di rasoio” è  da prendere senza troppi pensieri o lasciare del tutto, tenendo conto che il giallo all’italiana ha vissuto momenti di miglior forma.

  • Marebito: un horror orientale originale e imprevedibile

    Marebito: un horror orientale originale e imprevedibile

    Un piccolo capolavoro del regista di Ju-on, che mescola voyeurismo, vampiri in chiave moderna ed orrori metropolitani.

    In breve: diretto, lontanto dal linguaggio stereotipato di certo horror nipponico, molto ben realizzato. Una chicca per tutti gli amanti dell’horror.

    “F non mangia niente, non beve nessun liquido, neanche l’acqua… F è arrivata da un mondo in cui non aveva bisogno di parlare”

    Due parole sui V.I.P. di questa pellicola (scrivere pellicola fa molto recensore anni ’70 con macchina da scrivere e J&B a portata di mano, per cui ne abuserò volentieri): il regista Shimizu è noto ai più per aver diretto la saga di Ju-on e The grudge, mentre il protagonista Tsukamoto ha diretto il manifesto cyberpunk Tetsuo. E’ necessario tenere presente questi due aspetti, perchè si possono rilevare da una parte nella regia ossessiva e truculenta (mai fine a se stessa), e dall’altra dal piglio morboso e paranoico con cui Shynia-attore caratterizza il suo personaggio. Addirittura in alcuni momenti la sua vista da umano appare disturbata come una videocassetta sbiadita, evidente auto-citazione del metal fetishist del suo film più noto. Per quanto riguarda l’intreccio, che è piuttosto lineare nonostante i presupposti per così dire poco rassicuranti, l’ispirazione sembra essere stata il cult anni 60 “Peeping Tom- L’occhio che uccide“.

    Noi tutti proveniamo dal fondo degli oceani… dovrebbe saperlo, no? Schiacciati dalla pressione delle acque, possedevamo una saggezza più elevata.

    Nel film Masuoka è un cameraman freelance di Tokio, ossessionato dalle riprese con la telecamera, strumento che si porta  sempre dietro: con questa riprende tutto il mondo che lo circonda, alla ricerca della visione più terrificante che abbia mai visto, quella che possa finalmente risvegliarlo dal torpore che lo rende triste ed apatico. Nel suo ultimo servizio l’uomo ha realizzato una specie di snuff, ovvero un suicida in diretta nella galleria della stazione metropolitana, morto per motivi misteriosi. L’interesse per questo genere di video (o di realtà?) appare in modo evidente perchè all’inizio, tra le sue videocassette, vi è proprio un filmato di questo tipo (l’aguzzino e la vittima sono entrambi mascherati, per cui non riusciamo a saperne di più). Attenzione, pero’: non abbiamo di fronte il solito ritratto stereotipato da serial killer alla Henry, perchè il protagonista sta piuttosto cercando di sublimare al massimo l’orrore, in modo estramamente introspettivo, solo per arrivare alla redenzione finale.

    “Poco fa sono salito su un treno senza guardare la destinazione…”

    Per scoprire cosa avesse tanto spaventato il suicida, Masuoka torna sul luogo del fatto, e seguendo un misterioso tunnel (visto in una specie di allucinazione fatta di schermi televisivi sovrapposti) effettua una sorta di discesa negli inferi. A quanto risulta nel seguito non solo i sotterranei di Tokio sarebbero pieni di freak e vagabondi misantropi, ma anche di veri e propri fantasmi di sembianze umane, pure piuttosto loquaci (tra cui il suicida ripreso dal protagonista, che tra sogno e realtà continuerà a lungo a parlare con lui). Inoltrandosi all’interno dell’underground metropolitano (e i dubbi che si tratti di una pesante allucinazione non mancano), alla fine Masuoka incontra una giovane donna, tenuta incatenata all’interno di un mondo fuori dal tempo, che decide di liberare e riportare in superficie.

    “Il terrore assoluto ci deriva da quell’antica saggezza, che a volte riemerge dal nostro inconscio…”

    Scomodando sapientemente richiami alla mitologia giapponese del marèbito e dei dèros, a H.P. Lovecraft – in particolare alla città fantasma de “Le montagna della follia” – alle leggende metropolitane delle città sotterranee e alla teoria della terra cava, Shimizu confeziona un horror truculento quanto basta, molto gradevole nonostante la forma faccia temere qualcosa di eccessivamente contorto (e non è affatto così), di grande ritmo, molto intrigante e ben confezionato. F, chiamata con una sola iniziale neanche fosse un  personaggio kafkiano, è una sorta di vampira inquietante che non dice una parola, a cui il protagonista si affeziona al punto tale da allevarla, seguirne le mosse con una telecamera collegata col suo cellulare, instaurare un ambiguo rapporto e procurarle una vittima per nutrirla – probabile citazione del primo HellRaiser. In tutto questo, mentre si insunua il sospetto che l’essere non sia altro che la trasfigurazione in chiave horror della propria figlia adolescente, si trova spazio per fare macabra ironia (il biberon di sangue è semplicemente da antologia).

    “E’ sempre affascinante… un volto terrorizzato…”

    Come nella tradizione noir la voce del protagonista commenta quello che avviene fuori campo; d’altro canto gran parte del film è girato con una videocamera amatoriale, dando l’idea che si tratti quasi sempre della ripresa di un cameran solitario, vagamente voyeur, senza un passato e con una moglie ed una figlia di cui non vuole ricordare nulla. Del resto il consueto messaggio contro la morbosità dei media rimane un vago accenno iniziale, perchè come nella tradizione nipponica sono i tormenti dell’uomo a venire svelati. Nonostante quindi alcuni aspetti rimangano fondamentalmente insoluti (chi è l’interlocutore che informa Masuoka dell’identità della ragazza? Masuoka è davvero disceso negli “inferi metropolitani”? Cosa è reale e cosa è solo immaginato dal protagonista?), si tratta di un film decisamente da riscoprire e (ri)vedere.

    Così ora ho perso le parole… anche perchè non mi servono più

  • Doppelgänger: il tema del doppio nella fantascienza di fine anni 60

    Doppelgänger: il tema del doppio nella fantascienza di fine anni 60

    Uno scienziato scopre un nuovo pianeta nel nostro sistema solare: la cosa viene coperta dal massimo riserbo e si organizza una spedizione conoscitiva in fretta e furia. I due astronauti selezionati scopriranno una realtà davvero singolare sul nuovo pianeta…

    In due parole. Un classico della fantascienza di fine anni 60, diretto da Robert Parrish e scritto dai produttori Gerry e Sylvia Anderson. Si sviluppa in una storia semplice e piuttosto suggestiva che ha a che fare col tema del “doppio”: si immaginano due mondi paralleli che scambiano i rispettivi “cloni” da una parte all’altra dello spazio. Oggi probabilmente fa sorridere, per l’epoca fu un bel colpo.

    Un esempio di fantascienza classica piuttosto ordinaria, costituita su un intreccio diretto, discreti effetti per l’epoca e pochi e semplici personaggi, che non perdono occasione per mostrare caratteristiche topiche molto ben riconoscibili: l’astronauta americano sicuro di sè, lo scienziato avulso dai compromessi, la moglie infida, il capo senza scrupoli.

    Sembrerebbe un campionario di caratteri talmente ovvio da indurre di smettere la visione dopo massimo mezz’ora: eppure, alla fine dei conti, Doppelgänger conquista. E lo fa sulla falsariga delle teorie scientifiche dell’epoca, evidentemente: già a metà anni 50 effettivamente si riuscì a riprodurre antiprotoni ed antineutroni. Ovviamente il concetto, per rendere la narrazione più accattivante, viene esteso alle esistenze dei vari personaggi, vite private incluse, che si ritrovano in un mondo riflesso a milioni di chilometri di distanza, dalla parte opporta rispetto al sole. Riflesso, in effetti, di nome e di fatto, visto che avviene uno scambio di persona: l’astronauta della Terra finisce sul pianeta Terra “gemello”, vive in particolare un momento di disorientamento e poi scopre di riuscire a leggere soltanto attraverso uno specchio.

    Il riflesso dell’altro (o di noi stessi) – ne Il signore del male di John Carpenter gli specchi avevano una valenza di porte dimensionali, ad esempio – diventa qui una scusa non tanto per scomodare improbabili simbolismi, quanto per mostrare psichedelia, senso di confusione, avidità e mancanza di scrupoli di certi individui. L’esito della nuova missione, atta a stabilire la verità, sarà tutt’altro che scontato, per quanto resti allo spettatore qualche dubbio sulla sostanza di quello che si è visto, a maggior ragione che il film sembra piuttosto “rigido” dal punto di vista scientifico. “Doppia immagine nello spazio” è certamente un cult nell’ambito del cinema di fantascienza, ma francamente credo che la pellicola sia surclassata da numerosi epigoni: basti pensare al celebre “Il pianeta delle scimmie” (1968), capace di provocare i brividi ancora oggi basandosi su una sorta di simile “dualità”, per quanto non tra uomini-specchio bensì tra scimmie ed umani. Teoria, quella di “Doppia immagine”, forse curiosa per l’epoca, ma anche tra le meno flessibili a disposizione degli sceneggiatori, che si ritrovano necessariamente vincolati a “telefonare” un po’ la vicenda, rendendola un po’ scontata a mio vedere (ogni pianeta riflette i comportamenti dell’altro, proprio come due mondi paralleli). Interessante, ad ogni modo, il fatto che la specularità del “mondo parallelo” sia visibile dalle immagini invertite sullo schermo: uno stratagemma semplice e geniale, a suo modo, per rendere l’idea anche agli spettatori meno esperti.

    Del resto si azzarda, ma non troppo: basti pensare a Le orme (che uscirà solo 5 anni dopo), in effetti, con la sua fantascienza frammista di allucinazioni, thriller e tensione – che è comunque molto più “pluri-genere” di quanto non sia Doppelgänger – per capire come ci si potesse spingere oltre realizzando film di questo tipo, rendendoli già all’epoca realmente memoriabili. Altri dettagli sul film si trovano sulla rivista Terre di confine.

  • Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Un matematico sembra in procinto di scoprire un modello che possa prevedere le quotazioni in borsa: nel frattempo viene spiato da alcuni dirigenti di Wall Street, ed un gruppo di ebrei ortodossi lo contatta perché interessati ad approfondire la numerologia della Kabala…

    In breve. Un buon film “indie“, piuttosto impegnativo dal punto di vista concettuale (specie se non avete idea di “dove stia di casa” la matematica), ma altrettanto interessante sul piano filosofico: indaga sui misteri della mente e sulla smània di scoprire l’ignoto, portando il tutto ad estreme conseguenze, con tanto di allucinazioni lynchiane e qualche sprazzo di horror letteralmente “cerebrale”.

    Rielaborando astutamente il mito di Icaro, il regista Aronofsky elabora una sceneggiatura che ricorda una versione underground di “A Beatiful Mind” e che, di fatto, risente pesantemente di tutto un cinema di fantascienza, nel quale le attività del protagonista si ripercuotono in modo alienante sulla sua vita di ogni giorno. Il matematico Max è l’archetipo di nerd troppo cresciuto: uno scienziato solitario ed introverso, capace comunque di mostrare un animo sensibile (ad esempio quanto gioca a calcolare mentalmente complesse moltiplicazioni con la figlia della vicina, vero punto chiave del film), incapace quasi del tutto di rapportarsi all’altro sesso. Senso di solitudine simboleggiato, nel film, dal fatto che poco prima di premere il tasto “Invio” per avviare i sospirati calcoli, avverte l’ansimare erotico dei vicini proveniente dall’appartemento a fianco. Un messaggio che sembra calare pesantemente sugli spettatori più empatici, come a suggerire come l’unico tipo di amplesso per Max sia quello tra uomo e macchina (come già avveniva in Videodrome), capace di generare esclusivamente follia, servendo in tal modo anche da mònito.

    Pi Greco – Il teorema del delirio” ha avuto un discreto successo al Sundance Film Festival, ed il regista ha ricevuto un premio (Independent Spirit Award) per la miglior sceneggiatura d’esordio, che ha firmato dopo un lavoro iniziato nel 1998. Un buon lavoro che lascerà soddisfatto lo spettatore fino alla fine, ricco di suggestioni allucinatorie spesso in bilico tra realtà e finzione, e specie per le conclusioni decisamente “umanizzate” del finale. Di fatto, il messaggio non sembra tanto incentrato sul poter realmente riuscire a modellizzare l’universo con la matematica, quando sulle devastanti conseguenze di questa ossessione sull’animo dei due matematici protagonisti (l’allievo Max ed il suo maestro).

    12 e 45. Enuncio di nuovo la mia teoria. Primo, la natura parla attraverso la matematica. Secondo, tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri. Terzo, tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue uno schema, quindi ovunque, in natura, esistono degli schemi