Salvatore

  • Strade Perdute: Topologia del Desiderio e Dissoluzione del Sé

    Strade Perdute: Topologia del Desiderio e Dissoluzione del Sé

    La doppia storia di un jazzista e di un giovane meccanico, esplicata in dinamiche da incubo e collegamenti anomali tra i due personaggi. Il tutto ruota attorna ad una storia di gelosia ed ambigui personaggi…

    In breve: uno dei capolavori di David Lynch, l’essenza della sua poetica più oscura. Lugubre, enigmatico e ricco di spunti psicologici di spessore.

    “Ti voglio… ti voglio, Alice…” – “Tu non mi avrai … MAI!”

    Piccola premessa: un luogo comune abusatissimo in parecchie recensioni dei film di Lynch è legato allo stereotipo secondo cui bisognerebbe lasciarsi trasportare puramente dalle emozioni, seguire le immagini e non preoccuparsi troppo della trama. Fermo restando che Lynch non usa dare “spiegazioni” per i suoi film, secondo me questo luogo comune è una semplificazione un po’ eccessiva, che serve molto spesso ad assolvere il recensore da qualsiasi responsabilità per averla, eventualmente, “sparata grossa”. Data l’evidente enormità di cui Lynch riesce ad avvolgere anche i suoi film più piatti, infatti, sarebbe anche lecito farlo: figuriamoci quelli inequivocabilmente validi ed intriganti come questo. Dunque mi pare opportuno cercare di seguire più del solito quanto concretamente rappresentato sulla pellicola (l’ho finito di fare qualche minuto fa), senza sconfinare nelle solite improbabili metafore da acido lisergico.

    Dick Laurent è morto” è la misteriosa frase con cui si apre e si chiude uno dei migliori film diretti da David Lynch, sceneggiato da lui stesso e da Barry Gifford; si tratta di una storia dalle forti tinte noir con un enorme “buco” narrativo all’interno, ovvero l’inspiegabile mutazione fisica del musicista Fred nel meccanico Pete. Dal punto di vista interpretativo sono state scomodate complesse strutture matematiche (il nastro di Moebius, da parte di Enrico Ghezzi), idea forse efficace ma che possiede il difetto di spiegare una cosa già intricata con una altrettanto difficile.

    I DOPPI RUOLI DEL FILM. In primis bisogna inquadrare ovviamente Renee Madison / Alice Wakefield, sempre interpretati dalla Arquette: la prima è la conturbante consorte del musicista, la seconda è l’ambigua compagna del gangster Mr. Eddy, che possiede a sua volta un doppio di nome Dick Laurent. Il film è incentrato su un rapporto di coppia, peraltro, che sembra non trovare equilibrio in nessun caso, come a dire due estremità attratte l’una dell’altra che non combaciano.

    DOPPIA NARRAZIONE. A quanto si vede è possibile individuare due livelli di narrazione, che riguardano essenzialmente lo stesso protagonista che – come vuole il surrealismo, cioè in modo libero dalla coerenza prettamente logica e basandosi esclusivamente su un flusso onirico – è come se cambiasse internamente in modo così pesante da risentirne nell’aspetto fisico.Vi sono due narrazioni innestate, il cui inizio e fine non coincidono (da qui il paragone con il nastro di Mobius proposto da Ghezzi), anche se molto probabilmente riguardano la stessa persona dal punto di vista della storia reale (uxoricidio) e di quella che il protagonista sogna (e vorrebbe) fosse accaduto (la moglie che lo cerca nuovamente): il contatto con la realtà ritorna solo quando sta per morire sul serio.

    DOPPIA PERSONALITA’. Qualcuno ha parlato di un assassino dalla doppia personalità: puo’ anche darsi, tuttavia a mio avviso si tratta di suddividere il realismo della prima metà con una storia che il protagonista immagina di aver vissuto, fino alla conclusione che è comunque per lui fatale. La distinzione, ovviamente, è tutt’altro che netta, anzi possiede margini molto sfocati. In altri termini il cambiamento dall’insicuro jazzista Fred nel meccanico Pete (Balthazar Getty) prefigura una mutazione del protagonista, che pero’ è impossibile che sia avvenuta sul serio (e siccome si tratta di surrealismo, la cosa passa addirittura in secondo piano). Fred dichiara apertamente, all’inizio del film, di non amare le videocamere perchè “preferisco ricordare le cose a modo mio“, e questo è un po’ il manifesto delle successive sue intenzioni.

    PARALLELISMO TRA FRED E PETE. Si tratta della stessa persona? Sia Fred che Pete soffrono di un’amnesia, nessuno dei due ricorda dove abbiano conosciuto l’Uomo Misterioso (che pero’ sembra conoscerli entrambi, addirittura recandosi a casa di ognuno). Fred appare invecchiato e depresso per il tradimento da parte della moglie, Pete invece è giovane e molto sicuro di sè; la strana allucinazione che segna lo “stacco” tra i due personaggi, ovvero i genitori e la ragazza di Pete che urlano qualcosa al ragazzo sulla porta è come come una “porta” tra realtà e sogno.  Pete afferma di odiare il jazz, mentre Fred è un musicista proprio di quel genere, il quale pero’ tende a ricollegare le proprie esibizioni al fatto che la moglie se ne disinteressasse completamente. I due soffrono di forti mal di testa, e sembrano destinati ad incontrare rispettivamente l’ambigua Renee/Alice (Patricia Arquette), con la quale instaurano un rapporto passionale, ma piuttosto “soffocato” per via di una terza persona (il viscido Andy per una, ed il cinico e potente Eddy per l’altra). In aggiunta a questo, sia Renee che Alice parlano con il rispettivo compagno di un “lavoro” non specificato, ma l’allusione alla natura sessuale della cosa sembra, in entrambi i casi, piuttosto evidente. Neanche a dirlo, infine, i due personaggi, pur partendo da presupposti abbastanza diversi, subiscono una sorte avversa che li spinge progressivamente verso il baratro (poco importa se per mano di un gangster o per mezzo di una sedia elettrica: il movente è per entrambi di natura passionale). Come notato giustamente dal blog “Il proiezionista”, inoltre, le convulsioni che ha Pete mentre fugge dalla polizia dopo essere “mutato” per la seconda volta sono quasi certamente quelle dovute alla sua esecuzione, che nel frattempo sta avvenendo.

    L’ UBIQUITA’ DELL’ UOMO MISTERIOSO. Scena cult (ne scelgo una, ce ne sarebbero davvero parecchie): l’Uomo Misterioso parla con Fred alla festa, ed afferma di trovarsi davanti a lui e a casa sua contemporaneamente. Come prova di quanto dice, lo invita a fare il proprio numero e risponde effettivamente la stessa voce per telefono. Senza dare altre spiegazioni, l’uomo sorride e se ne va. Questo essere in due posti contemporaneamente, a mio parere, rinsalda il tema del doppio che ossessiona Lynch in questa pellicola, ed alimenta il senso di paranoia che l’Uomo Misterioso – il ricettatore e killer assoldato da Fred stesso, in sostanza – evidentemente gli infonde.

    LA COPPIA CHE NON REGGE. Altra scena molto significativa: per sottolineare la freddezza di Renee e la passione che, nonostante tutto, ancora avvolge Fred, viene mostrato un amplesso con i primi piani dei protagonisti, al termine del quale la donna sorride con indifferenza e da’ una pacca sulla spalla del compagno dicendo, in modo quasi beffardo: “Non ti preoccupare, non è nulla“. Questo è in aperta contrapposizione con quello che invece è Pete: sicuro di sè e del suo lavoro, e con una vita sessuale molto attiva (con la fidanzata Sheila, intepretata da Natasha Gregson Wagner, che con la donna di Eddy).

    Tra le note finali, una splendida colonna sonora di Rammstein, David Bowie, Trent Reznor, Marylin Manson, Angelo Badalamenti, Lou Reed ed altri ancora), e la partecipazione in un piccolo cameo sia di Manson che di Henry Rollins.

  • L’Armata delle Tenebre: Cult e Splatter anni ’80

    L’Armata delle Tenebre: Cult e Splatter anni ’80

    Chi poteva immaginare che Ash sarebbe finito proiettato nel passato? Nel precedente episodio della saga (il riferimento è “La casa” di Raimi, per chi non lo sapesse) Ash in due episodi sostanzialmente molto simili finiva per avere a che fare con dei demoni, risvegliati dalla lettura di alcune strane formule registrate su un magnetofono, aggeggio finito nelle mani degli amici sprovveduti del protagonista. Dopo una lotta surreale contro le strane creature, la saga si sposta nel tempo, cose che “solo negli anni 80” (anche se il film è del 92). Da qui svariati film copieranno questa struttura di fondo: è quello che succede nelle infinite produzioni americane nelle quali un protagonista, infelice ed incompreso all’interno del mondo moderno, si ritrova nel mondo medievale (ad esempio) e diventa lentamente un eroe per la gente del posto. Tutta la storia è incentrata sul fatto che Ash comprenda che l’unico modo con il quale può tornare nel suo presente consiste nel ritrovare proprio il Necronomicon.

    “Mi chiamo Ash: reparto ferramenta”

    Tra le scene di culto, i piccolo Ash che fuoriescono dai frammenti di uno specchio, il “gemello cattivo” fatto fuori a colpi di “bastone di tuono” (il fucile), la rocambolesca lotta contro streghe e demoni, l’alleanza con un Mago che decide di aiutarlo: sarebbe sostanzialmente un film fantasy, in cui la componente fumettistica è osannata all’ennesima potenza (non a caso Raimi dirigerà uno Spider Man). Un film che potrebbero vedere anche coloro i quali avevano gli occhi tappati durante la visione dei primi due episodi, e di cui vale la pena raccontare che esiste un doppio finale: la versione ufficiale – imposta dalla produzione, ed un po’ “tamarra” secondo me – è edulcorata, prevedibilmente ottimistica ma anche piuttosto divertente:  si scopre che Ash fa il commesso in un supermercato, e salva eroicamente una collega da un demone che sbuca fuori nel negozio. La director’s cut, invece, è più fedele allo spirito della saga, e prevede che Ash riesca a tornare nel futuro, ma per errore finisca in uno post-atomico, disperandosi perchè non potrà più tornare indietro.

  • La casa dei 1000 corpi: horror alla Tobe Hooper, revisited

    La casa dei 1000 corpi: horror alla Tobe Hooper, revisited

    Quattro ragazzi si avventurano nella provincia americana alla ricerca di stranezze locali da raccontare in un libro: conoscere il bizzarro Capitano Spaulding, a quel punto, sarà solo l’inizio…

    In breve. La casa dei 1000 corpi è “Non aprite quella porta” + “exploitation alla Wes Craven” diviso due: anzi, diviso sadicamente in tanti piccoli pezzetti. Niente male come lavoro, da segnalare per lo stile di ripresa frenetico di Zombi, per lo stile visionario tipicamente anni 70/80 (tra lo splatter e la psichedelia) e per l’esasperato citazionismo che lo pervade.

    La casa dei 1000 corpi è un horror sanguinolento, movimentatissimo ed al fulmicotone, girato quasi come un videoclip metal ad opera di Rob Zombie, leader dei seminali White Zombie e diventato famoso, ad oggi, sia come musicista solista che come regista di genere (suoi anche 31 e Le streghe di Salem). Massacrato da parte della critica americana come una scopiazzatura malriuscita di b-movie di culto, fu inaspettatamente ben accolto in Italia, sia dai futuri fan del regista-musicista e sia, ad es., dal Morandini. In effetti questo film possiede una grande importanza rispetto al periodo in cui uscì, soprattutto per il suo spirito di omaggio alla tradizione di genere e, al tempo stesso, di innovazione creativa. Questo è il primo film di Rob Zombi da regista (che come nella tradizione carpenteriana, in questa sede, ha curato anche le musiche), importante per il genere perchè delinea una propria, netta tendenza stilistica: un horror esplicito e sanguinolento, che insiste sui primi piani e sui dettagli, non risparmia efferatezze ed alterna momenti psichedelici quasi arthouse. Se la narrazione in sè potrebbe considerarsi banale, non bisogna dimenticare che ai vari dettagli spaventosi si alternano maschere demoniache, immerse in rituali cruenti (e realistici, ispirati ad esempio alle efferatezze di Ed Gein) e calati in un contesto di frammenti sconnessi, santoni che delirano di fronte alla telecamera, uso di effetti video e cromatici quanto basta, vittime vestite da conigli ed un feeling tipicamente settantiano. Insomma, non è solo lo splatter sconclusionato che potrebbe sembrare: l’horror di Rob Zombi vive una propria, codificata teatralità.

    La storia è quanto di più classico possiate mai aver visto in uno slasher movie: un gruppo di ragazzi perbene (ed un po’ nerd) si imbatte in un curioso clown (il Capitano Spaulding) che li conduce a visitare un tunnel dell’orrore (una citazione implicita del film di Hooper) a cui i quattro vorrebbero dedicare parte del proprio libro. Si assisterà non solo all’ovvia degenerazione della storia, ma anche a numerosi cenni a ritualità oscure legate ad Halloween, e a qualche elemento dell’horror sovrannaturale (il morto vivente che compare anche sulla locandina). Tanto per ribadire da quale attitudine sia guidato, Zombie ambienta il suo film nel Texas, anno 1977, alla vigilia di Halloween (anche il più recente 31 si svolge nella stessa data). Da segnalare Baby Firefly, la consorte del regista Sheri Moon Zombi in un’interpretazione convincente e spaventosa, nonostante fosse all’esordio. Menzione speciale per “l’allegra famiglia” composta da Mother Firefly, Tiny, Rufus, Otis e nonno Hugo: il riferimento è a Non aprite quella porta (1974), di cui La casa dei 1000 corpi può considerarsi un validissimo rehash (poco prima era uscito il più modesto Skinned Deep, sempre sulla stessa falsariga).

    La casa dei 1000 corpi andrebbe peraltro rivalutato per via delle doti registiche visionarie di Zombi, a cominciare da alcune sequenze del film girate in prima persona da membri del cast sfruttando una camera manuale a 16mm (chi ha pensato a mockumentary non ha sbagliato). Molte altre, invece (con un notevole anticipo su una tendenze che sarebbe diventata una moda degli horror realistici più recenti) sono presentate come se fossero snuff movie (filmati amatoriali in cui verrebbe rappresentata una morte reale). Tutti piccoli dettagli che, al di là di una trama forse già sentita, compongono un’opera decisamente originale – soprattutto negli ultimi venti minuti da incubo. Film che è stato anche dalla gestazione complessa, in quanto finito di girare nel 2000 ma distribuito solo nel 2003, grazie alla coraggiosa Lions Gate Films ed in seguito al disinteresse della Universal pictures (per via delle eccessive scene splatter), che avrebbero sostanzialmente imposto un divieto ai minori di 17 anni. Per questo motivo è ormai noto che Zombi abbia girato doppia versione delle scene più gore: una più leggera ed una più esplicita, sfruttando alternativamente un’illuminazione bianca o rossa. Scelte di un regista già all’epoca con le idee piuttosto chiare, se si pensa che fu il suo debutto nel mondo del cinema.

    La casa dei 1000 corpi è ad oggi uno dei film più famosi del regista americano, ricco di rimandi al cinema horror/exploitation anni ’70 ed altrettanto carico di dettagli splatter anche piuttosto originali (una delle vittime ibridate con un pesce, per non parlare del Dottor Satana), che scorre rapido sullo schermo come un perfetto grindhouse, e la sua conclusione è un crescendo di paura e violenza. Si delinea uno stile che Zombi porterà coraggiosamente avanti negli anni a venire, ovvero un modus operandi registico estremamente frammentato e veloce, tanto da evocare un videoclip ed in contrapposizione, se vogliamo, all’incedere monolico, compiaciuto e rallentato di molti altri horror (moderni e non). I personaggi, pur essendo ispirati ad una letteratura cinematografica di serie B piuttosto circoscritta (la ragazza provocante ed ambigua, il clown grottesco, la famiglia psicopatica…), vivono una propria autonomia, e riescono a divertire l’appassionato del genere senza mai sconfinare nella monotonìa o nelle banalità. Ovviamente nel film non manca la componente cruenta, per cui si tratta di un qualcosa che – in linea di massima – non piacerà al grande pubblico.

    House of 1000 corpses“, in italiano “La casa dei 1000 corpi” (che sembrerebbe una traduzione maccheronica, visto che corpse significa “cadavere” e “La casa dei 1000 cadaveri” suonava meglio, se non altro) vive di un’originalità invidiabile, in bilico tra orrore puro e appariscente grottesco (quel grottesco che diventerà un tratto distintivo del cinema di Zombi), a tratti davvero sorprendente anche perchè il filone non offriva, di per sè, tutta questa flessibilità. Un lugubre agglomerato di paura, sevizie, torture inimmaginabili, violenza esplicita sia pur con la nichilistica scomparsa della componente essenziale del revenge movie puro (il riferimento a Le colline hanno gli occhi è doveroso). L’orrore qui si vive sulla propria pelle, e non da’ speranza fino all’ultimo, inesorabile fotogramma.

  • Vanilla Sky: cast, produzione, trama, regia, curiosità, spiegazione

    Vanilla Sky: cast, produzione, trama, regia, curiosità, spiegazione

    “Vanilla Sky” è un film statunitense del 2001, diretto da Cameron Crowe. Ecco alcune informazioni sul cast principale, la regia, la produzione e l’anno di uscita del film, oltre a qualche curiosità e la nostra spiegazione del film.

    • Regia: Cameron Crowe

    Cast Principale

    • Tom Cruise: Nel ruolo di David Aames, il protagonista del film, un uomo affascinante e ricco che subisce un terribile incidente che cambierà la sua vita.
    • Penélope Cruz: Nel ruolo di Sofia Serrano, l’interesse amoroso di David e l’artista spagnola che cambierà la sua vita.
    • Cameron Diaz: Nel ruolo di Julie Gianni, una donna ossessionata da David e coinvolta in eventi misteriosi.
    • Kurt Russell: Nel ruolo di McCabe, uno psichiatra che cerca di aiutare David a capire la sua situazione.
    • Jason Lee: Nel ruolo di Brian Shelby, l’amico di David.

    Produzione

    • Anno di Uscita: “Vanilla Sky” è stato rilasciato negli Stati Uniti il 14 dicembre 2001.
    • Produzione: La produzione del film è stata gestita da Cameron Crowe e dalla sua casa di produzione, la Cruise/Wagner Productions, insieme a Scott Rudin Productions e Paramount Pictures.

    “Vanilla Sky” è un film di genere thriller psicologico che esplora temi complessi come l’identità, la realtà e la percezione attraverso una trama intricata. Uscito nel 2001, rappresenta una storia intricata che mescola elementi di fantascienza, thriller psicologico e dramma romantico, con vari momenti puramente lynchiani in cui non è chiaro se la realtà sia sogno o viceversa.  La performance di Tom Cruise è stata ampiamente apprezzata, e il film ha generato discussioni e interpretazioni diverse per la sua trama intricata e il suo finale enigmatico. La caratteristica principale di Vanilla Sky risiede nel suo montaggio anti-causale e in parte a-temporale, in parte come in Pulp Fiction, con vari raccordi narrativi di collegamento tra le storie e/o i personaggi.

    La trama complessa di “Vanilla Sky” è altamente onirica ed esplora concetti di identità, percezione e realtà attraverso la prospettiva di un protagonista tormentato. Il film è noto per il suo stile visivo distintivo e il suo finale enigmatico, che ha generato dibattiti e interpretazioni diverse tra gli spettatori.

    Sinossi

    Atto 1: Il Mondo Perfetto

    Introduzione di David Aames (interpretato da Tom Cruise), un giovane e ricco editore di una rivista di successo a New York.

    David è un playboy che conduce una vita di lusso e senza preoccupazioni, circondato da amici e donne.

    David incontra Sofia Serrano (interpretata da Penélope Cruz), una bellissima artista spagnola, e si innamora perdutamente di lei.

    L’ex amante di David, Julie Gianni (interpretata da Cameron Diaz), scopre la sua nuova relazione e diventa ossessionata da lui.

    Una notte, Julie conduce David in uno scatenato e pericoloso viaggio in auto, che si conclude in un tragico incidente che la lascia sfigurata e David con il volto deturpato.

    Atto 2: La Rinascita

    Dopo l’incidente, David subisce numerose operazioni per riparare il suo viso, ma rimane sconvolto dalla sua nuova apparenza.

    David scopre che è stato accusato di omicidio colposo per la morte di Julie.

    David cerca di ricostruire la sua vita, ma è ossessionato dai ricordi di Sofia e dalla sua vita precedente.

    Viene introdotto uno psichiatra di nome McCabe (interpretato da Kurt Russell), che cerca di aiutare David a distinguere la realtà dalla sua immaginazione.

    Atto 3: L’Incubo Dell’Immaginazione

    David inizia a sperimentare strane distorsioni della realtà, e le sue convinzioni e percezioni diventano sempre più confuse.

    Sofia riappare nella sua vita, ma le sue apparizioni sono ambigue e misteriose.

    David scopre una strana azienda chiamata “Life Extension” che offre un servizio di “sospensione” della realtà.

    La trama si dipana tra i confini tra sogno e realtà, e David cerca disperatamente di capire cosa sia vero e cosa sia frutto della sua immaginazione distorta.

    Atto 4: La Rivelazione

    David fa una scoperta scioccante: è stato sottoposto a una procedura di sospensione della realtà e il mondo che sta vivendo non è altro che un sogno.

    David decide di risvegliarsi dalla sospensione e tornare alla realtà, anche se ciò significa affrontare le conseguenze delle sue azioni passate.

    Spiegazione del finale

    (avviso spoiler)

    Accompagnato da McCabe e da un ufficiale di polizia, David verso la fine del film fa una visita agli uffici della Life Extension, dove scopre che la società ha la capacità di mettere gli esseri umani in uno stato di ibernazione e di riportarli in vita quando sarà possibile. Inoltre, apprende che durante il periodo di ibernazione, la Life Extension è in grado di offrire agli individui un’esperienza di “sogno lucido”, permettendo loro di vivere la loro vita secondo i loro desideri, senza che la morte sia un ostacolo, a partire da un punto specifico nella loro esistenza.

    Il film culmina in un finale emozionante in cui David prova a riavvicinarsi a Sofia e affrontare le sfide della vita reale.

    La trama del film può essere interpretata in vari modi, ed è noto per la sua complessità. Ecco una spiegazione generale della trama e dei suoi principali temi:

    La Realtà e la Percezione: Il film ruota attorno alla distinzione tra realtà e percezione. Il protagonista, David Aames (interpretato da Tom Cruise), vive una vita di lusso e privilegi, ma la sua esistenza diventa sconvolta quando si innamora di Sofia Serrano (interpretata da Penélope Cruz), un’artista spagnola. La sua ex-amante, Julie Gianni (interpretata da Cameron Diaz), diventa ossessionata da lui e provoca un incidente automobilistico che cambia la sua vita e la sua percezione della realtà.

    Il Conflitto Tra Desiderio e Rimorso: Dopo l’incidente, David affronta profondi conflitti interiori. Deve affrontare il rimorso per l’incidente e le conseguenze della sua vita passata da playboy. Questi conflitti interiori si manifestano attraverso strane distorsioni della realtà e sogni bizzarri.

    La Comprensione della Verità: Gran parte del film è dedicata al tentativo di David di capire cosa sia vero e cosa sia illusione nella sua vita. Questo processo coinvolge incontri con uno psichiatra di nome McCabe e la misteriosa azienda “Life Extension,” che offre servizi di sospensione della realtà.

    La Ricerca del Riscatto e della Felicità: La trama si sviluppa mentre David cerca di risolvere i misteri della sua esistenza e di riconciliarsi con il suo passato. La sua ricerca lo porta a cercare di riconquistare Sofia e di affrontare le conseguenze delle sue azioni.

    Il Finale Aperto: “Vanilla Sky” culmina in un finale ambiguo e aperto, in cui la verità sulla realtà di David viene rivelata, ma il film non offre una risposta definitiva su cosa sia successo.

    Il film è noto per le sue tematiche complesse e la sua narrazione non lineare. Offre molte interpretazioni e discussioni sulla natura della realtà, dell’identità e della percezione umana. La trama può essere vista come un viaggio emotivo e mentale del protagonista alla ricerca di comprensione e riscatto.

  • A dangerous method: il film su Freud e Jung firmato David Cronenberg

    A dangerous method: il film su Freud e Jung firmato David Cronenberg

    La storia dell’incontro tra Carl Jung e Sigmund Freud fa ufficialmente nascere la psicoanalisi, e mette in evidenza una relazione controversa tra il primo e una sua paziente – la futura psicoanalista Sabina Spirlein.

    In breve. La nascita della psicoanalisi secondo David Cronenberg, secondo la sua consueta poetica tragico-razionalista, qui ad uno dei suoi zenith espressivi (almeno nella fase recente della sua produzione).

    A dangerous method di David Cronenberg si basa sul romanzo quasi omonimo di John Carr, A Most Dangerous Method, incentrandosi sul tema della controversa relazione tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein. Il tutto fa da filtro, in qualche modo, perchè si possa delinare la storia della psicoanalisi in tre possibili declinazioni: quella scientifica di Freud, quella più visionaria e misticheggiante di Jung, quella intimamente rivoluzionaria della Spielrein.

    La medesima storia che viene delineata da un altro classico, peraltro, ovvero il Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, e tra i quali si frappone la fredda lucidità scientifica di Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. Sarebbe limitativo ridurre a questo triangolo la visione del film di Cronenberg, che ritaglia una quantità di pellicola relegandola a delinare la figura di Otto Gross, storicamente critico nei confronti di Freud e “demone tentatore” nel suggerire a Jung di assecondare i propri stessi desideri sessuali repressi.

    La narrazione delinea due piani differenti: da un lato ciò che istituzionalmente le quattro figure rappresentano (si potrebbe pensare a razionalismo, misticismo, innovazione e trasgressione), dall’altro ciò che i personaggi sono nella realtà (repressi, introversi, traumatizzati dall’infanzia, nichilisti o pragmatici). Su questa ambivalenza si fonda gran parte della psicoanalisi, del resto, oltre a porre uno dei dilemmi morali più controversi (e tabù, se vogliamo), ovvero una relazione sessuale tra due persone “incastonate” in ruoli, per loro natura, subordinati (sarebbe lo stesso se la relazione fosse tra allievo e insegnante, ad esempio). Nell’idea di Cronenberg tale relazione sembra non potersi che sviluppare a livello sado-masochista, per quanto poi la relazione tra la Spirlein e Jung sia mostrata in questi termini più che altro per i vissuti traumatici della donna, in relazione alla violenza coercitiva e gli abusi sessuali da parte del padre di lei.

    Quel ricordo traumatico sembra aver costituito le basi della sua stessa sessualità, ed in questo la storia sembra ricondursi alle teorie espresse dallo psicologo contemporaneo Michael Bader nel suo saggio Eccitazione, secondo il quale le nostra fantasie sessuali non qualificano nè possono catturare l’essenza di una persona, ma sono spesso costruite e contrapposte ad un trauma infantile regresso. Non è strano, in altri termini, che una femminista abbia fantasie di dominazione passiva nei confronti di un uomo potente, o che un manager sicuro di sè si ecciti facendo lo slave, proprio perchè si tratta di immagini mentali che fanno trasudare un probabile vissuto traumatico (genitori autoritari, ad esempio) a cui, in qualche modo, si prova a risolvere costruendo sicurezza. E dato che – conclude Bader – senza sicurezza non sembra realmente possibile esprimere la propria sessualità, appare chiaro come la relazione oggetto del film fosse in qualche modo ineluttabile.

    Del resto, tornando al film, Jung appare felicemente sposato con una donna mite, affidabile e riservata negli atteggiamenti, ma lo vediamo coltivare un’attrazione inconfessabile per una paziente schizofrenica: attrazione che troverà sbocco in una relazione tra padrone sadico e paziente sottomessa, alla luce delle informazioni che la stessa ha riconosciuto durante la propria terapia.

    Rapportato ai tempi una cosa del genere era (e rimane ancora oggi) inconcepibile, chiaro oggetto di gossip nella migliore delle ipotesi: il problema che fa emergere il regista è che rischia pure di minare la credibilità della psicoanalisi stessa (tanto che la storia della relazione è uscita fuori, a quanto pare, solo postuma, mediante il carteggio ricostruito nel libro di Carotenuto). La ricostruzione cronenberghiana è in questo frangente semplicemente perfetta, proprio perchè mostra un dramma irrisolvibile: per quanto uno psichiatra possa fare appello alla propria etica professionale, infatti, l’amore e il sesso sono soprattutto istinto, ed è come se il film suggerisse che da certi sentimenti erotici tempestosi non si possa sempre evitare di essere travolti (su questo bisognerebbe scrivere un romanzo, probabilmente, o affidarsi ai riferimenti bibliografici su transfert e contro transfert).

    Che A dangerous method sia un film banale, a questo punto, dovrebbe essere chiaro che è l’esatto opposto, per quanto lo stile narrativo sia tutt’altro che inaccessibile o da film d’essai. Ancora oggi gran parte dei dilemmi posti rimangono, per quello che vale, profondamente dibattuti – o del tutto irrisolti.

    Cronenberg prova a mettere ordine tra le varie componenti, senza schierarsi esplicitamente con nessuno dei soggetti, per quanto si ravvisi una piccola empatìa verso Otto Gross, l’elemento di rottura tipico delle storie del regista canadese, interpretato da un mefistofelico Vincent Cassel.

    Nella valutazione complessiva dell’opera non si possa prescindere dall’aspetto bibiliofilo (come anche da una conoscenza, anche solo scolastica, del mondo della psicoanalisi), accettando alcune parti chiaramente romanzate rispetto alla storia reale. Ovviamente un film si può guardare  senza avere conoscenze specialistiche, e rimarrà comunque la parvenza di una tragedia in tre atti. Nel primo si prova  a costruire qualcosa, nel secondo si cede alle passioni umane e nel terzo, in un climax ascendente, si arriva a temere che un singolo episodio possa distruggere completamente l’intera scienza.

    È questo il focus che sembra interessare il regista, che resta in grado di mostrare il proprio punto di vista senza orpelli inutili e, soprattutto, raccontando una storia drammatica quanto coinvolgente della più classica delle passioni impossibili. Nello specifico la passione medico-paziente appare inaccettabile (e inevitabile, nello specifico) perchè da un lato le pressioni sociali diventano prima o poi insostenibili per il professionista, mentre dall’altro la paziente rimane nella propria posizione di richiedere aiuto e, di fatto, la sua vita sarà segnata per sempre da quel “primo amore”.

    Per una volta il Cronenberg razionalista di altri film cede il passo ad uno più narrativo, più vicino al pubblico generalista e – non per questo – meno valido. Del resto, non è affatto la prima volta che il regista affronta un argomento prettamente clinico, per quanto ovviamente siamo lontani dagli orrori biologici di Rabid, Brood o – dire soprattutto – Inseparabili, dove era presente un dilemma etico di natura quasi analoga.

    E se in molti hanno pensato a A dangerous method come ad un film incentrato sulla nascita della psicoanalisi è, certamente, una lettura ammissibile, ma credo che sia anche limitativa. Esso infatti non solo esalta le doti dei tre personaggi storici (il razionalismo di Freud, il misticismo propositivo di Jung, la devozione e lo scrupolo scientifico della Spielrein), ma ne propone anche un ritratto umano, con tutti i limiti, mostrando che di fronte ad un tabù c’è poco a cui potersi opporre. Un tabù generale che riguarda la risoluzione e l’opportunità dei rapporti dettati dalla gerarchia, che far deflagare liberamente come suggerito da Gross (peraltro di fede anarchica, a quanto ne sappiamo) rischia di far deflagare una autentica bomba sociale.

    Se il regista canadese ci ha abituato alla rappresentazione più esplicita e orrorifica di queste tematiche, bisogna specificare che A dangerous method fa parte della sua produzione più recente, quella che risulta essere avulsa dal cyberpunk e dalla derivazione body-horror. Non per questo, ovviamente, il film perde il proprio potenziale narrativo, soprattutto nella rappresentazione dell’amore impossibile Jung-Spielrein, da paziente ad amante in un’oscillazione insostenibile e discontinua, fino a degenerare nel più crudele degli amori impossibili (forse dai tempi de La mosca che Cronenberg non proponeva un romanticismo disperato talmente vivido).

    Premesso che la totalità dei riferimenti intimi tra gli amanti Jung e Speilrein sono, ovviamente, di natura speculativa – come Cronenberg stesso specificò alla stampa all’epoca dell’uscita del film – è interessante notare come la narrazione della sessualità repressa del personaggio femminile riguardi un trauma infantile, che poi si traduce in una fantasia sessuale incentrata su quel tema. In questo va anche sottolineata la prova attoriale magistrale di Keira Knightley, che interpreta il delirio del proprio personaggio frapponendo varie pause, respiro ansioso e parole frammentate nel proprio discorso. Cosa che, peraltro, continuerà a fare ogni volta che entrerà nel discorso un qualche riferimento alla sessualità, da lei vissuta in modo ansioso e che solo con Jung riusciva a liberare (da qui il legame nuovamente ansiogeno che ne risulterà in seguito).

    Nello specifico, è proprio la trascrizione della prima seduta tra la Spielrein (all’epoca in cui soffriva di crisi schizofreniche) e Jung (all’epoca devoto sostenitore del metodo freudiano) a descrivere precisamente una sia fantasia erotica (con i tratti di un incubo, per molti versi). Vale la pena riportarla per intero – la traduzione di alcuni passaggi è orientativa, proprio per via dello stile recitativo adottato – perchè serve, a mio avviso, già da sola a spiegare gran parte del senso del film.

    Può spiegarmi perchè le sue notti sono così difficili?

    Ho paura.

    Di cosa?

    C’è qualcosa nella stanza. Qualcosa come… un gatto, solo che può parlare. Entra nel letto assieme a me. L’altra notte ha iniziato a sussurrarmi qualcosa nell’orecchio. Non riuscivo a sentire. Ma poi.. lo sentivo … l’ho sentito contro la mia schiena. Qualcosa di viscido, come una specie di mollusco, che si muoveva sulla mia schiena. Ma poi quando mi sono girata non c’era più niente.

    Si muoveva sulla sua schiena?

    Sì.

    Era nuda?

    Sì.

    Si stava masturbando?

    Sì.

    Mi racconti della prima volta in cui ricorda di essere stata picchiata da suo padre.

    Suppongo che sia stato quando avevo quattro anni. Per sbaglio ho rotto un piatto, e lui mi ha detto di andare nello stanzino e di togliermi i vestiti e poi… è arrivato lui. E mi ha sculacciata. Ed ero così spaventata che mi sono bagnata, e lui mi colpiva ancora. E allora io…

    Quella prima volta… come si sentiva riguardo a quello che stava succedendo?

    Mi piaceva.

    Può ripetere per favore? Non ho sentito bene.

    Mi piaceva. Mi eccitava.

    E continua a farlo?

    Sì! Sì! E allora ogni volta che mi diceva di andare nello stanzino cominciavo ad essere bagnata. Quando andava dai miei fratelli … solo… li minacciava… mi bastava quello. Dovevo andare sotto, dovevo stendermi e toccarmi. Più tardi a scuola, qualsiasi cosa… l’avrebbe scatenata, qualsiasi… qualsiasi tipo di… umiliazione. Ho cercato qualsiasi… umiliazione. Anche qui quando tu… colpisci il mio… il mio cappotto con il tuo bastone. Dovevo tornare subito, ero così… emozionato. Non c’è… non c’è speranza per me. Sono abietta… e… oscena e… sporca! Devo… non devo mai essere lasciata uscire di qui!