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  • Le fantasie di una tredicenne: non il film che sospetti che sia

    Le fantasie di una tredicenne: non il film che sospetti che sia

    Horror surrealista noto con molteplici titoli (Valerie a týden divu nell’originale cecoslovacco, Valerie and her Week of Wonders nella versione internazionale), Le fantasie di una tredicenne è un film sui generis girato tra Slavonice e Praga, nel periodo estivo: cosa che è facile dedurre dal clima bucolico che caratterizza già le prime atmosfere, contrapposta a quelle algide e antiche della casa in cui vive protagonista.

    Si ispira al romanzo omonimo di Vítězslav Nezval (Valeria e la settimana delle meraviglie, un titolo decisamente più onesto delle fantasie di una tredicenne), in cui Valerie è un’orfana di tredici anni che vive con la nonna Elsa – anziana donna fredda, caratterizzata da un pallore da autentica morta vivente e fervente religiosa – in una vecchia abitazione di campagna. Valerie sembra non aver mai conosciuto i propri genitori, e l’unico ricordo che la ragazzina ha in merito sono degli orecchini della madre. Il film, di fatto, presenta un tono sostanzialmente fantasy-favolistico (vedi il personaggio con la maschera da furetto che si aggira nei pressi della casa e sembra interessato agli orecchini) e riguarda la scoperta dell’amore (e del sesso) da parte della protagonista. Il tutto con una componente soft-core che, vista oggi, probabilmente sembra quasi ingenua, e che è funzionale ad una trama che non manca di mostrare l’aspetto orrorifico della vicenda, mescolando – spesso in modo impercettibile – sogno e realtà. È altresì inutile, poi, cercare di trovare un senso in Valerie, che vive di surrealismo puro – inteso come nuovo livello di realtà, alternativo o frammisto a ciò che viviamo e a quello che ci tormenta nella vita di ogni giorno.

    L’astrattismo della trama (specie in quel finale onirico, sostanzialmente aperto) si esplica in una storia anche piuttosto difficile da ricomporre, che viene raccontata in modo non sequenziale e che sublima una contraddittoria (e molto umana, a ben vedere) attrazione-repulsione della protagonista verso il mondo della sessualità. Il tutto attraverso un gioco di allusioni simboliche spesso implicite, altre più chiare (il vino versato sul tavolo ad indicare il ciclo mestruale). Se da un lato, poi, la religione si svela nella propria ipocrita e bigotta concezione di vita, la naturale propensione per la sessualità viene fuori tra accenni, paure e riferimenti criptici, in un modo che comunque colpisce lo spettatore (all’epoca dell’uscita del film, per inciso, la protagonista Jaroslava Schallerová aveva 14 anni). Rimane pur sempre un film incentrato sul tema del vampirismo, comunque, che presenta (nella figura del vampiro donna, specificamente) qualche punto di contatto con il successivo Near dark. La misteriosa danza del finale del film, in qualche modo, finisce per avere una valenza liberatoria quanto, forse, altrettanto illusoria (dato che la protagonista è sola nell’ultimo fotogramma).

    Se è ovvia la metafora della ricerca della vita eterna, meno ovvio è che (a dispetto di premesse che farebbero pensare ad un film erotico puro) si tratta di un lavoro dai toni eleganti, mistici e sostanzialmente sobri. Firmando segretamente un contratto con il misterioso vampiro (lo zio dell’amante della protagonista, a quanto pare), la nonna di Valerie ottiene la vita eterna e, per questo, appare improvvisamente ringiovanita. Molta importanza assume poi, nel film, il sentimento del senso di colpa per la sessualità, che sembra voler tormentare Valerie (senza riuscirci troppo), anche grazie al supporto simbolico degli orecchini che peraltro la salvano da un rogo (immediato il messaggio, qui: la spontaneità giovanile viene malintesa e considerata satanica in un mondo più vecchio di lei). In questo il fantasy favolistico, quasi insolito per un film incentrato sui vampiri, assume una valenza tale da rendere tremendamente originale il film, e rendere la sua visione un must, dal quale farsi assorbire completamente e senza porsi troppi interrogativi.

  • Fantasmi da marte: il western fantascientifico di John Carpenter

    Fantasmi da marte: il western fantascientifico di John Carpenter

    2176: la polizia viene inviata su Marte per prelevare un pericoloso detenuto. Scoprirà che le cose non vanno troppo bene, da quelle parti…

    In breve: film semplice e diretto di un Carpenter meno pioneristico del solito. Sparatorie, esecuzioni sommarie, azione ed una trama sottile quanto godibile.

    In Italia i B-movie hanno assunto soprattutto significato di film di bassa qualità. Questa definizione wikipediana, a mio avviso superficiale, pone una base indiretta per discutere di questo film del Carpenter post-2000, considerato di minor valore rispetto alla produzione precedenti. Partirei dal fatto che considero sbagliata, fuorviante, generica – oltre che stereotipata – la definizione di b-movie appena letta: i film di serie B sono molto di più, anche solo per il loro proporsi con coraggio ed originalità. Ad oggi, del resto, nonostante realtà come Nocturno si siano battute per decenni al fine di conferire un carattere autoriale (o se non altro dignitoso) a qualsiasi film del genere, resta una considerazione di fondo: il pubblico va a vedere film come Fantasmi da marte, e rimane perplesso. In sostanza la sensazione è che manchi qualcosa – o forse no: non si capisce con chiarezza. La mia secondo visione di questo film del 2005 con Ice Cube e Natasha Henstridge non ha cambiato, in buona sostanza, la mia valutazione sintetica che è poco meno che sufficente (nonostante aspettative altissime: vidi il film al cinema, la prima volta).

    Il pianeta rosso diventa qui teatro di una storia che richiama in parte “Distretto 13: le brigate della morte“, “La cosa“, “Fuga da New York“: un film dichiaratamente autocelebrativo, pertanto, che pare abbia fatto la gioia dei fan del regista sfiorando a più riprese il rischio di risultare asetticamente ibrido. Un regno di violenza incontrollata si instaura a causa di una nube (chi ha detto The fog?) sprigionata dagli scavi di una scienziata presente sul posto- particolare lovecraftiano della storia. Per il resto ci sono buoni personaggi, poco budget e discreti – rispetto al contesto – effetti speciali.

    La contrapposizione tra polizia e criminalità viene ancora una volta a cadere, in Fantasmi da Marte, perchè il resto del mondo conosciuto sembra essersi rivoltato in un terrificante tutti contro tutti nel quale pochi sopravviveranno. La valenza metaforica di questa ennesima opera di Carpenter, a mio avviso leggermente inferiore alla media ma comunque dignitosa, nonostante qualche “trashata” di troppo ed il senso di “riciclaggio” che prova lo spettatore nel vedersi propinare sempre le stesse sparatorie (quanto western, in Carpenter), gli stessi dialoghi.

    In fondo la Henstridge (eroina tosta quando conturbante) è il classico protagonista del Carpenter post-apocalittico, una sorta di Jena Plinski iper-modernizzata: cupa, lontana da compromessi, solitaria e guidata da una lealtà ed un senso di giustizia che la rendono quasi anacronistica. Regista che, per la cronaca, non risparmia prese di posizione politiche come già fatto in quasi ogni sua pellicola.

    Godiamoci pure, in definitiva, queste chicche di cinema “underground” senza pretendere più del dovuto.

  • Io sono l’abisso è il thriller socio-psicologico di Carrisi

    Io sono l’abisso è il thriller socio-psicologico di Carrisi

    Tratto dal romanzo omonimo, il nuovo film di Donato Carrisi è appena uscito nei cinema e si incentra su un mix narrativo singolare: la topica storia di un serial killer e un thriller sociologico, focalizzato sui mali innati del mondo. Che il killer potesse diventare un elemento di liberazione (almeno parziale) era, se vogliamo, prevedibile e a pieno focus. Io sono l’abisso risulta, fin dalle premesse, un thriller italiano fuori canone, o meglio: il suo essere fuori dalle righe si colloca in un contesto alienante quanto umanizzato, con cui sarà facile empatizzare – e di cui vale la pena raccontare la genesi.

    Per consentire una promozione del film in modo adeguatamente misterico, infatti, regia e produzione non hanno divulgato i nomi degli attori, che compaiono in forma sostanzialmente anonima all’interno del film, e non vengono nemmeno citati come nomi propri dei rispettivi personaggi. Su IMDB, per intenderci, sono presenti i nomi degli interpreti come lista, ma manca l’associazione con ogni rispettivo personaggio. Il film si popola pertanto di figure archetipiche, come “la madre” o “l’uomo che pulisce”, personaggi principali della storia legati a doppio filo ad una realtà come quella di Como, nei pressi del cui lago è ambientata la storia.

    La buona società (non esiste)

    La realtà cittadina è fiorente e ricca di benestanti, segretamente perversa e a doppia faccia: un qualcosa di non troppo diverso dal contesto di Society di Brian Yuzna, dove le mostruosità organiche assortite sono state rimpiazzate da un orrore interiore, sottinteso, insondabile. Una società benestante ipnotizzata dal benessere, che non bada o minimizza il degrado attorno a sè, i congiunti in difficoltà, i drammi esistenziali che fanno continuo riferimento all’ombra della morte. Nell’ombra della rispettabilità (sul fronte sociologico) si muovono drammi morali, depressione, angoscia e sfruttamento della prostituzione; sul piano del killer, è un uomo insospettabile dedito a lavori umili, prigioniero di un’infanzia infelice e deprimente.

    Non ci sono dubbi che un prodotto del genere sia unico nel suo genere, pertanto, per quanto la sua visione paghi dazio in una lunghezza vagamente eccessiva (circa due ore di film, dai toni quasi d’essai, ricchi di sottintesi e allusioni). I primi minuti di “Io sono l’abisso” rimangono particolarmente incisivi e sconvolgenti: assistiamo ad una storia apparentemente anonima, con soli suoni naturali, senza colonna sonora e quasi senza dialoghi, e quasi non riusciamo a cogliere l’intreccio. In seguito ci troviamo nel pieno svolgimento della vicenda: un addetto della nettezza urbana che salva una ragazzina dal suicidio. Dopo averla fatta rinvenire, pero’, si fa prendere dal panico e scappa: scopriamo che si tratta di un serial killer (nell’introduzione ci suggeriscono come possano esistere anche in Italia e come, soprattutto, sia plausibile che non vengano mai scoperti), affetto da un singolare feticismo per la raccolta e la catalogazione dei rifiuti, i quali – a suo dire – dicono più sulle persone di quanto possa sembrare. Il killer anonimo del film è un bambino mai cresciuto che vorrebbe saperne di più sul mondo, o che cerca un contatto umano in modo disperato e degenerato.

    Sarebbe un errore relegare Io sono l’abisso all’universo classico dei killer narcistici e spietati come Henry o American Psycho. Come ha dichiarato Carrisi, c’è qualcosa in più: “non ci rendiamo conto di quanto raccontino di noi le cose che buttiamo via“. Certo è vero che internet può fornire le stesse informazioni su chiunque o quasi, ma ciò di cui tendiamo a disfarci sottolinea spesso sottotesti inconsci, sepolti dentro di noi, di cui abbiamo paura ed urgenza di doverci liberare (scatole di medicine, materiale compromettente, pacchi di fiammiferi brandizzati su nomi di locali a cui non vorremmo mai essere associati in pubblico). E potrebbe anche essere lecito, a nostro avviso, interpretare tali presupposti in chiave o come epitema ambientalista, per quanto l’autentica chiave di lettura sia quella esistenzialista ed abbia, almeno nei presupposti, qualcosa a che vedere con la doppia vita mostrata anche in Tulpa.

    Tutto o quasi ne “Io sono l’abisso” sembra sudicio, oscuro, poco illuminato, decadente; i personaggi sembrano afflitti, tormentati quanto vividi, consumati dall’esistenza (l’attore protagonista ha vissuto in maniera isolata dal cast durante tutte le riprese, per entrare meglio nel ruolo), vittime di scheletri nell’armadio che non vogliono nè pensano possano mai riemergere. Ma quanto è vero che le emozioni inespresse non moriranno mai e, come aveva scritto Freud, restano sepolte vive ed emergeranno in modo peggiore nel seguito, questo concetto si realizzerà a pieno all’interno della storia, creando almeno un paio di twist clamorosi.

    Traumi infantili, rabbia repressa, adolescenti soli e inascoltati, situazioni imprevedibili quanto credibili (rileviamo una sottostoria di baby prostituzione e revenge porn, entrambe tutt’altro che irrealistiche), si affiancano alla classica narrazione criminologica del serial killer “uno di noi”, nascosto nel buio, impetuoso nel proprio uccidere, alimentato da un male superiore che lo ha soggiogato da piccolo. Io sono l’abisso è anche – e forse soprattutto – un thriller psicologico par excellence, dove – per quanto manchi lo splatter ed il canonico finale nichilista – assistiamo ad una serie di triangolazioni tra personaggi sempre degne di nota, intricatissime e mai banali. Il vissuto e il tormento anteriore dei personaggi sono sempre pronti a riemergere, anche quando meno ce l’aspettiamo, un po’ come il lago di Como che restituisce pezzi dei cadaveri di vittime diverse. Motivo per cui sarebbe forse più corretto parlare di thriller drammatico, di thriller filosofico-esistenziale (in fondo non fa altro se non indagare sulle origini del male), o meglio ancora sganciarsi dalle etichette, godersi l’opera per quella che è, preparandosi a vedere una piccola gemma di forma e sostanza.

    Molto interessante, tra le altre cose, la trovata per cui il killer è “guidato” da una voce distorta fuori campo, che sembra raffigurare il Super-Io a cui è costretto a fare riferimento, da cui viene manipolato esattamente come il ragazzino fragile che era stato anni prima (quasi morto annegato, come si vede all’inizio). La figura della madre (l’altra madre, quella che vaga nel film senza che sappiamo nulla di lei) è altrettanto emblematica: etichettata semplicisticamente come una pazza, indaga su casi di violenza sulle donne, spinta da un’esperienza traumatica che ha vissuto e di cui non sappiamo nulla, almeno fino alla fine. Il suo inconscio appare dominato da un profondo senso di giustizia, ma anche dalla paura di aver sbagliato tutto nella vita, tanto più quando si scoprirà quel qualcosa del suo passato che la turba.

    Il film in definitiva convince soprattutto per questo sapiente mood noir, accennato e mai didascalico, con moltissime scene girate volutamente al buio per accentuare il senso di degrado e di orrore, non solo psicologico ma anche fisico, sociale, economico. Convincono un po’ meno, forse, certi lunghi silenzi che accompagnano la storia, che caratterizzano un film dall’andamento lento e inesorabile, forse non proprio adeguato ai gusti della maggioranza ma pur sempre a testimoniare (comunque la si pensi) un carattere fortemente introspettivo della storia e una personalità registica che, senza dubbio, non manca.

    SPIEGAZIONI TRAMA E FINALE

    DA QUI IN POI POTENZIALI SPOILER!

    Chi è la voce fuori campo che guida il killer?

    La voce distorta che tortura e istiga il killer non è un personaggio reale: è plausibilmente il riflesso, come si certifica alla fine, dell’educazione che ha ricevuto: in effetti gli dice cosa fare, come comportarsi, come punirsi. Ogni sequenza in merito è costruita in modo estremamente raffinato, dato che sembrerebbe la raffiguazione del padre (o meglio, di uno dei tanti amanti della madre), lo stesso che vestiva anni 80 e che il protagonista, oggi, cerca di emulare (la lettura in chiave freudiana è quasi ovvia), rievocandolo, impersonificandolo, truccandosi come lui (la parrucca) e andando in un night in cerca di nuove vittime (che probabilmente raffigurano una figura femminile su cui l’uomo vuole avere una rivalsa irrealizzabile).

    In realtà, anche sulla falsariga di film come Sleepaway Camp, la voce del Super Io (che lo comanda con violenza e che non può non ascoltare, se non a costo di paura e sofferenza) è in realtà una donna, una neo-Medea: era la madre che lo stava per lasciare annegare nella piscina durante la prima sequenza.

    Perchè la ragazzina prova a suicidarsi?

    Le ragioni sono legate al possesso di foto intime risalenti ad sua vecchia relazione con il ragazzo dispotivo e autoritario che incontra alla festa (e che si lamenta che lei non risponda al cellulare): la sua volontà di andare alla festa è necessaria per parlare con l’ex, al fine di intimargli di cancellarle per sempre. Il ragazzo, insospettabile cinico al di là di ogni parvenza, usa quelle foto per ricattarla e la costringe per questo a prostituirsi. Il tentato suicidio è pertanto frutto della disperazione per questa situazione.

    Perchè il killer salva la ragazzina?

    Probabilmente lo fa perchè si identifica in lei, e per via dell’evidente similarità con la sua stessa storia: entrambi infatti hanno rischiato di morire annegati. Il panico ha la meglio per paura che qualcuno scopra la sua identità di assassino, per cui scappa per questo motivo.

    Cosa è successo nel passato della cacciatrice di mosche?

    La cacciatrice di mosche è uno dei migliori personaggi del film: donna sola, trasandata e senza apparenti motivazioni per vivere, ha fatto della difesa delle donne una ragione di esistenza. Il trauma che ha vissuto in passato è avvenuto in ospedale anni prima, come si scoprirà: viene chiamata assieme al marito perchè il figlio ha accoltellato la fidanzata, che era forse incinta di lui.

    Ecco il motivo per cui la donna va a trovare il figlio in carcere: il ragazzo è stato condannato per l’aggressione, cosa resa ancora più gravosa per la madre dato che si tratta, anche qui quasi certamente, di una ex carabiniera (lo si può capire dalla familiarità con cui tratta con la donna che poi, nella sequenza finale, ucciderà il killer). La storia dell’omicidio viene ribadita durante quella visita in carcere: lui la invita a casa, vorrebbe andarci a letto, la ragazza rifiuta, poi ammette di stare con un altro ragazzo, il ragazzo prende un coltello in cucina e la ferisce.

    Chi è Diego?

    Probabilmente Diego è il futuro nipotino della cacciatrice, nato dalla relazione (ormai finita) tra suo figlio (in carcere) e la ex fidanzata, mai inquadrata. Il finale di “io sono l’abisso” non è troppo immediato nel suo apparato presentativo, in questa specifica sede, dato che viene innestato en passant e non si lega esplicitamente con la storia che, invece, sembrava conclusa (il killer si incontra con la ragazzina, e in quel momento viene ucciso).

    Diego è il nome del bambino che risulta essere appena nato, mentre la mamma (non inquadrata) viene interrogata dalla polizia: non è difficile intuire che si tratta della donna pugnalata, ovvero la ex del figlio della cacciatrice di mosche, evidentemente non morta. In sostanza la storia suggerisce che nonostante la tragedia familiare in corso, che ha traumatizzato la cacciatrice ed il marito, affetti entrambi da depressione e dipendenti dall’alcol, alla fine madre e figlio si siano comunque salvati.

  • Il giorno del venerdì santo: una delle migliori interpretazioni di Bob Hoskins

    Il giorno del venerdì santo: una delle migliori interpretazioni di Bob Hoskins

    Harold Shand è il potentissimo boss della criminalità londinese, le cui attività illecite (tra cui la costruzione della sede dei Giochi Olimpici a London Docklands) vengono seriamente messe in pericolo da una catena di attentati ed omicidi effettuati da ignoti…

    In breve. Un capolavoro del gangster-thriller ottantiano, condotto dal centralissimo personaggio di Harold Shand, ex gangster ed uomo d’affari privo di scrupoli, che si muove nella metropoli londinese tra autorità corrotte, le attività ostili dell’IRA, l’entrata del Regno Unito nella Comunità Europea ed il governo liberale della Thatcher.

    Noto in Italia con svariati titoli (Quel lungo venerdì santo, Quel venerdì maledetto o Il giorno del venerdì santo, secondo IMDB), The long good friday si perde in atmosfere puramente metropolitane, pub fumosi, party esclusivi, strade affollate e misteriosi scambi di merce. La performance di Bob Hoskins è uno dei principali meriti di questo film, ruolo studiatissimo dall’attore per cui, a quanto pare, volle parlare direttamente con autentici ganster londinesi (che a quanto pare presenziarono alla prima del film). Harold è il prototipo dell’affarista privo di scrupoli, ancora ligio alla mentalità criminosa che l’ha portato al successo e travolto progressivamente da una realtà più grande di quanto non si potesse aspettare, a dimostrazione di una perenne ed iconica vulnerabilità. C’è poco da discutere, quindi, sul fatto che The long good friday sia uno degli migliori film di genere anni ’80, in realtà al limite di una autentica autorialità. Chi ha un conto in sospeso con Harold Shand? La chiave di lettura del film è questa, e lo spettatore è guidato sapientemente attraverso la soluzione di questo enigma da una regia sempre avveduta e di grande eleganza.

    Dopo un crescendo di avvenimenti incalzanti (e qualche lungaggine narrativa, perdonabile data l’ampiezza del contesto) emerge un ritratto da manuale di ciò che non doveva essere troppo diversa dalla Londra anni ’80; il finale, poi, tra i migliori mai visti su uno schermo per il genere, assesta il colpo di grazia in termini di bellezza. Il protagonista paga la propria eccessiva fiducia in sè, trovandosi in una situazione decisamente inaspettata in cui notevolissima, in questi termini, è il lavoro sull’espressività del personaggio, in grado di comunicare stati d’animo contrastanti di tristezza, rabbia, frustrazione e rassegnazione senza dire una sola parola (al momento delle riprese gli venne richiesto di mantenere l’espressione per ben cinque minuti, senza pause). Il suo ghigno tra il sarcastico, il rassegnato ed il rabbioso è diventato iconico, ed entrato nel cinema di ogni tempo.

  • La casa è l’horror di culto di Sam Raimi (1981)

    La casa è l’horror di culto di Sam Raimi (1981)

    Un gruppo di amici si reca in una casa sperduta per trascorrere un weekend: al suo interno troveranno alcuni orrori sepolti che non aspettavano che si essere risvegliati…

    In breve. Cult assoluto degli anni 80, imperdibile per ogni fan dell’horror che si rispetti, segna la nascita di Ash come personaggio iconico – nonchè pseudo-fumettistico. Carico di orrore, tensione e paura; nonostante gli effetti artigianali un gran film, per quanto surclassato leggermente dal secondo episodio.

    Se c’è qualcosa che un appassionato di horror non può non conoscere, assieme a Nightmare ed alla saga di Venerdì 13, è proprio La casa: diventato nel tempo un vero e proprio archetipo di paura su pellicola, fu anche uno dei film più criticati dal punto di vista morale (e anche per questo, forse, di maggiore successo di botteghino). Le motivazioni possono rintracciarsi essenzialmente nell’apparato demonologico dell’opera, vagamente ispirato a Lovecraft a partire dal “Necronomicon ex mortis” trovato dentro la baita, e forse soprattutto nella scena dello stupro di Cheryl da parte del subdolo demone, che sfrutta i rami di un albero per i propri scopi.

    Quello che è sicuro è che “La casa”, realizzato con vari espedienti che oggi farebbero sorridere (il sangue bianco per abbassare il livello splatter ed evitare la mannaia censoria), consolidò – se non inventò di sana pianta – il trend dei “film con case maledette“, tanto che si inaugurò una vera e propria saga che fu, diversamente da altre opere del periodo e dai primi quattro Nightmare, un crescendo di divertimento, qualità e paura. Questo è l’episodio forse più scarno della serie ma, come dicevo all’inizio, va visto un po’ per forza di cose – anche perchè il suo remake, raro caso, è girato con grande attitudine ed è un ulteriore punto di forza da tenere in considerazione. Qui possiamo goderci una delle migliori serie orrorifiche di ogni tempo, perchè questi b-movie mantengono un sapore speciale ancora oggi – e soprattutto sono alleggeriti della pretenziosità che spesso accompagna certi horror “da intenditori”.

    Per la cronaca del belpaese, la Filmirage di Joe D’Amato realizzò, sulla scia del successo di botteghino della saga, alcuni seguiti apocrifi con titoli cambiati e dal risultato discutibile, con vari registi nostrani come Fragasso e Lenzi si cimentarono alla regia.