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  • Mysterious Skin racconta l’alienazione lacerante delle vittime di abusi e pedofilia

    Mysterious Skin racconta l’alienazione lacerante delle vittime di abusi e pedofilia

    Un adolescente ribelle e un ragazzo ossessionato dall’ufologia si incrociano da ragazzini, ma si perdono di vista in seguito: il loro reincontrarsi da adulti segnerà il disvelamento di una realtà traumatizzante, legata ad abusi infantili.

    In breve. Un film traumatico e realistico come pochi ne sono stati girati. Da non perdere, ma con cautela: non per tutti gli stomaci.

    Tratto dall’omonimo romanzo di Scott Heim, Mysterious Skin è ambientato in gran parte in una hicktown, che nel linguaggio gergale indica una città del sud popolata da redneck – un ambiente di provincia in cui si sviluppano i peggiori incubi dietro un’apparenza di rude normalità. Lo si vede fin dall’inizio, mediante l’inquietante parallelismo tra Neil (molestato sessualmente dal proprio allenatore di baseball) e Brian (vittima anch’egli di un abuso di cui, pero’, non ricorda nulla). Mentre il primo vive una vita dissoluta e si prostituisce fin da ragazzino, il secondo è diventato ossessionato dagli UFO – tanto da farli diventare, nella sua psiche, simbolo di quegli abusi e spaventosa allegoria del proprio passato. Le strade dei due ragazzi si separano, con una differenza fondamentale: Neil ricorda tutto degli abusi subiti, e vive una sessualità irresponsabile coniugandola con un carattere egocentrico e da sbruffone; Brian, nettamente più sensibile, si chiude completamente in se stesso, e sarà proprio Neil ad aiutarlo a tirare fuori ciò che la sua psiche ha rimosso.

    Il film segue questi due percorsi paralleli, ricchi di numerosi dettagli legati alla pedofilia ed alla scoperta prematura del sesso: nelle prime sequenze, per intenderci, i protagonisti avevano meno di dieci anni. In queste sequenze, insolite per un film pensato come un mainstream, la componente disturbing cede il passo a quella più esplicita, ed in questa sede il regista riesce a districarsi senza abusare dell’aspetto visivo più esplicito. Ovviamente l’aspetto sessuale è dichiaramente traumatizzante in due estremi: da un lato Neil che si prostituisce a pagamento, dall’altro Brian che sviluppa diffidenza e terrore per il mondo esterno e per il sesso, tanto da rifiugiarsi nello studio dell’ufologia. Anche l’incontro con la ragazzina che racconta di essere stata rapita dagli alieni, del resto, finirà per degenerare in un conflitto ed un rifiuto.

    Ne risulta un film globalmente inaccettabile per il pubblico più sensibile o moralista – proprio perchè di norma il tema trattato è considerato universalmente intrattabile. Eppure le cronache ci hanno abituato ai peggiori fatti in questo ambito, e vederle qui rappresentate in modo esplicito fa male proprio per il realismo ed il senso di trauma ripetuto sulle vittime (le scene di sesso sono, per quanto fuori campo, tutte perfettamente intuibili). Secondo il parere dello psicologo Richard Gartner, Mysterious Skin è una raffigurazione piuttosto fedele degli effetti degli abusi sessuali sui ragazzi. Molte delle quali saranno davvero insostenibili per lo spettatore, specie per l’aura di normalità da abuso – che le rende ancora più brutali di quanto non siano.

    Mi sono stufato: voglio sognare qualcos’altro.

    Il film, ad esempio in Australia, è stato bandito dalla circolazione per via delle tematiche trattate, mentre in Italia ha avuto distribuzione più o meno in sordina, per via del contenuto esplicito in termini di amore gay e pedofilo, generi tipicamente maltrattati dalla censura nostrana.

    C’è anche da aggiungere che, al di là dell’aspetto psicologico ed erotico-ossessivo dei contenuti (il finale evoca una seduta psicoanalitica vera e propria, mediante la ricostruzione dettagliata dell’episodio che Brian non ricordava), si mettono in evidenza anche piccoli dettagli – ad esempio che nell’ambiente in questione si praticasse sesso senza protezione, tant’è che il primo preservativo usato da Neil risale al suo successivo viaggio a New York. Piccoli aspetti che, nell’insieme di una simbologia esplicita paragonabile a quella di un film snuff, rendono Mysterious Skin un film da scoprire o rivedere – certo per un pubblico adulto, non in un contesto familiare o se siete alla ricerca di un film leggerino.

    Mysterious Skin farà male, come solo Requiem for a dream e pochissimi altri sono riusciti a trasmettere al pubblico. Ma è un male liberatorio, che ci ricorda orrori nascosti e tenuti segreti per anni, in grado di influenzare la psiche e condizionare le vite delle giovanissime vittime.

  • Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Cast

    Cate Blanchett
    Noémie Merlant
    Nina Hoss
    Sophie Kauer
    Julian Glover
    Allan Corduner
    Mark Strong

    Sinossi. Lydia Tár è la prima donna direttore principale della Filarmonica di Berlino. Si affida a Francesca, la sua assistente personale, per gestire la sua agenda. Mentre viene intervistata da Adam Gopnik al New Yorker Festival, Lydia promuove la sua prossima registrazione dal vivo della Quinta Sinfonia di Mahler e il libro Tár on Tár. Incontra Eliot Kaplan, un banchiere di investimenti e direttore d’orchestra amatoriale che ha co-fondato la Fondazione della fisarmonica con Lydia per sostenere le aspiranti direttrici d’orchestra. Discutono di tecnica, sostituiscono Sebastian, l’assistente direttore di Lydia, e riempiono un posto vacante di violoncello a Berlino.

    Produzione. Nell’aprile 2021 è stato annunciato che Blanchett avrebbe recitato e sarebbe stato produttore esecutivo del film, che sarebbe stato scritto e diretto da Todd Field. In una dichiarazione che accompagnava il teaser trailer nell’agosto 2022, Field disse di aver scritto la sceneggiatura per Blanchett e che non avrebbe realizzato il film se lei lo avesse rifiutato. Nel settembre 2021, Nina Hoss e Noémie Merlant si sono unite al cast e Hildur Guðnadóttir è diventata la compositrice del film.

    Le riprese sono iniziate nell’agosto 2021 a Berlino. Tutta la musica parte integrante del film è stata registrata dal vivo sul set, inclusa la esecuzione del pianoforte di Blanchett, il violoncello di Kauer e le esibizioni della Filarmonica di Dresda.

    La verità è che, fin dall’inizio, io so precisamente qual è il tempo, e il momento esatto in cui voi e io arriveremo insieme a destinazione.

    Spiegazione del finale

    A Berlino, Lydia viene rimossa come conduttrice a causa delle polemiche. Furiosa per le accuse e la mancanza di comunicazione di Lydia, Sharon le impedisce di vedere la figlia. Lydia si ritira nel suo vecchio studio e diventa sempre più depressa e squilibrata. Si intrufola nella registrazione dal vivo che avrebbe dovuto condurre e affronta il suo sostituto, Eliot. Consigliata dalla sua agenzia di management a non dare nell’occhio, torna nella sua modesta casa d’infanzia a Staten Island, dove alla parete sono appesi gli attestati di successo con il suo nome di nascita, Linda Tarr. Si commuove guardando una vecchia VHS di Young People’s Concerts in cui Leonard Bernstein parla del significato della musica. Suo fratello Tony arriva e la ammonisce per aver dimenticato le sue radici. Qualche tempo dopo, Lydia trova lavoro come direttrice d’orchestra nelle Filippine. In cerca di un massaggio, il portiere dell’hotel la manda in un bordello che si presenta come un salone di massaggi; le giovani donne siedono in semicerchio con dei numeri sulle loro vesti. Il numero 5 guarda direttamente Lydia, che si precipita fuori a vomitare. Alla fine dirige la colonna sonora della serie di videogiochi Monster Hunter davanti a un pubblico di cosplayer. Si può interpretare il finale in vari modi, in effetti: appena Lydia Tár alza la bacchetta e l’orchestra inizia la sua esibizione, una ripresa laterale del pubblico ci rivela il colpo di scena conclusivo del film, consentendo una rilettura completamente nuova dell’atto finale appena trascorso.

    Le sue speranze e il progetto a cui aveva dedicato cuore e anima le sono state sottratte senza pietà: voleva dirigere la sublime Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, e non potrà più farlo. Il suo ingresso trionfale sul palco, con Lydia avanzante con un’ira ardente verso la telecamera, si svolse in brevi istanti, con la ferocia di una belva scatenata: la donna scaccia via dal podio il suo collega designato per sostituirla, Eliot Kaplan (Mark Strong), per poi scagliarsi su di lui con furia selvaggia. Per un personaggio che all’inizio della narrazione era apparso così tranquillo, disinvolto, assolutamente padrone di sé e del suo mondo, questa è una trasformazione radicale, inconscia, inconcepibile, destabilizzante. In seguito, Lydia è condotta in un centro di benessere per un trattamento massaggiante e si trova di fronte a una situazione chiamata “l’acquario”. Incolpata di essere una predatrice, è circondata da un gruppo di giovani donne dai volti abbassati, tra cui deve scegliere la sua preferita. L’unica a sollevare lo sguardo, sfidandola con uno sguardo deciso, è la numero cinque, come la sinfonia di Mahler che Lydia non ha più potuto dirigere. La scena è ambigua e la fuga affrettata di Lydia, sopraffatta da una sensazione di nausea, riflette lo stato psicologico precario di un personaggio che non è ancora riuscito a liberarsi dei suoi tormenti interiori (e forse dei sensi di colpa). Infine, durante la sua esibizione successiva, l’orchestra filippina di Lydia esegue la colonna sonora del videogioco Monster Hunter per un pubblico di appassionati di cosplay: questo può essere visto come l’estremo oltraggio inflitto a un idolo ormai infranto, una sottolineatura della “caccia al mostro,” o forse l’epilogo nasconde qualcos’altro?

    Da un lato la realizzazione di un sogno in veste diversa da quella che avevamo prefigurato, dall’altro – forse – la distruzione assoluta del sogno.

    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=F_NxSjuprJs, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9498611

  • L’horror low budget e surrealista di “Carnival of souls”

    L’horror low budget e surrealista di “Carnival of souls”

    L’organista Mary Henry è miracolosamente sopravvissuta ad un incidente stradale; poco dopo decide di lasciare la città per cambiare lavoro…

    In breve. Archetipo di horror tra il sovrannaturale e l’onirico, giocato esclusivamente su suggestioni e sottintesi; un lynchiano ante-litteram che molto ha influenzato il genere in seguito. Non per tutti i palati ma notevolissimo, soprattutto per l’epoca in cui uscì.

    Se dovessimo citare uno dei film più fuori dalle righe degli anni ’60 “Carnival of souls” entrerebbe di diritto tra le prime citazioni; girato in sole tre settimane con un budget bassissimo (17,000 dollari), ebbe scarso successo all’uscita – salvo poi diventare di culto in seguito. Solo nel 1989, infatti, venne trovata una nuova distribuzione (della Panorama Enterntainment) e Carnival of souls venne riproposto in alcune sale e festival tematici, riscuotendo un’approvazione unanime da parte della critica.

    Mary dovrebbe essere morta nell’incidente che vediamo all’inizio, eppure tutti l’hanno vista emergere dalle acque, senza ricordare nulla di come abbia fatto a salvarsi; nel frattempo, pero’, la sua vita (che potrebbe essere un’allucinazione, come un sogno-incubo pre-morte) cambia radicalmente, ed inizia ad essere tormentata da un uomo spettrale senza nome, che compare – e sembra richiamarla a sè – in vari momenti del film.  Un classico low-budget del terrore, insomma, giocato più sulle sensazioni che sul gore (qui del tutto assente); non per tutti, in tal senso, ma solo per fan hardcore del genere.

    Venne girato presso un suggestivo parco giochi nello Utah, che rappresenta una location perfetta per il senso di enigmatica sospensione su cui si basa il film stesso; un senso di limbo, verrebbe da dire, in cui la protagonista si muove con ritmo e spirito mutevole, forse consapevole di essere sfuggita ad un macabro destino. Questo spiega il suo atteggiamento cangiante ed imprevedibile nei confronti delle avances del proprio vicino di stanza nella pensione, come del medico che vorrebbe aiutarla e della mite padrona di casa: la sua umoralità e doppia personalità, a questo punto, potrebbe anche legarsi all’alternarsi del giorno e della notte, così come suggerito dalle sue stesse parole (“Il mondo è così diverso alla luce del giorno. Al buio si perde il controllo delle proprie fantasie … così facilmente. Ma alla luce del giorno, ogni cosa torna al suo posto“). Al tempo stesso, l’orrore si finisce per librare nell’aria in modo inevitabile solo nel seguito, quando Mary inizia a suonare melodie definite sacrileghe dal prete presso cui lavora, e quando rifiuta terrorizzata le proposte di John, sprofondando in una progressiva ed ineluttabile follia.

    Una storia molto efficace e coinvolgente, e richiama lo stile, a mo’ di archetipo, su cui si sarebbero fondati film di successo nel seguito (penso a The Others, ma anche Il sesto senso). Accostamenti del genere mi sembrano francamente più pertinenti di chi abbia voluto vedere nelle “anime” spettrali che tormentano Mary dei morti viventi pre-Romeriani, cosa che a mio avviso è accettabile giusto come suggestione visiva. Carnival of souls è, infatti, estraneo al cinico materialismo del compianto regista, e somiglia più ad un film onirico o “lynchiano”, nel senso di irrazionale e poco consequenziale in alcuni passaggi. Se è vero che l’intreccio sembra quasi scontato se visto oggi, bisogna contestualizzare il clima ed immaginare la portata del film all’epoca in cui uscì: accoglienza abbastanza fredda, a giudicare dagli incassi, salvo poi essere riscoperto alla fine degli anni ’80 come cult indiscusso.

    Su film del genere sono fin troppe le parole spese dalle varie fan theory e dagli accostamenti con film successivi proposti dai vari recensori: tutti cercano di trovare una spiegazione alla storia, ma non esiste una risposta soddisfacente. Non può esistere per definizione, in questo caso, a meno di accettarne la dimensione puramente onirica, ed in tal senso il film potrebbe essere null’altro che un sogno pre-morte, ipotesi che trovo suggestiva quanto più convincente di molte altre che ho letto. Di sicuro Mary vive l’intero intreccio in una dimensione simile ad un limbo, in cui combatte contro una morte improvvisa per cui non sembra essere pronta, raffigurata splendidamente (e con richiami all’espressionismo tedesco) di figure spettrali dal volto dipinto (e di cui la principale venne interpretata da Harvey stesso). Non bisogna dimenticare, peraltro, che si tratta dell’unico lungometraggio di Herk Harvey, professionista del cinema che ha girato, per il resto, film documentaristici e serie TV di tutt’altro genere, e che per questo rientra nei notevoli casi di chi ha saputo fare un solo singolo horror di gran classe. Un regista che ha, quindi, vissuto il genere solo in maniera occasionale, e alla fine ciò ha finito per contribuire alla fama di cult singolare ed irripetibile di “Carnival of souls” stesso. Candace Hilligoss, archetipica scream queen semplicemente perfetta nella propria parte (oltre che unica attrice professionista del film), resta alla storia solo per questo film, senza considerare altre interpretazioni, solo sporadiche. Resta da chiedersi quanto possa essere lecito dare tutto questo credito ad un film che, nelle stesse parole del regista, è considerato solo una piccola parte di un lavoro enorme, in cui riteneva di avere tanto altro da dire (ben 35 anni a fare film di altro genere di cui mai nessuno, finora, ha parlato troppo)

    La fama di cult legata a Carnival of souls è, in fondo, basata su questa essenzialità: non solo un low budget di alto livello (come altri, del resto, ne vennero girati in quegli anni), ma anche un film che resta isolato nella sua produzione (senza contare un remake omonimo ma abbastanza diverso nella sostanza), quasi come Mary che avverte un macabro ed inspiegabile isolamento dal mondo nei momenti più inattesi. Nell’intervista al regista concessa a fine anni 80 viene riferito come “il film che non voleva morire”, e questa forse rimane la sua descrizione breve più adeguata.

    Carnival of souls non è mai stato distribuito in Italia doppiato, ma è disponibile con sottotitoli italiani nell’edizione della Enjoy Movies (non troppo facile da reperire); da non confondersi, peraltro, con l’omonimo remake degli anni ’90 uscito in seguito.

  • Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    “Porte Aperte” è un film italiano del 1990 diretto da Gianni Amelio. Il film è noto per il suo impegno sociale e politico ed è stato ispirato da eventi reali. Di seguito, ti fornirò dettagli sulla trama, il cast, la regia, la produzione, lo stile, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale con un avviso spoiler.

    Trama: “Porte Aperte” è ambientato in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e segue la storia di un prete cattolico, Don Benedetto (interpretato da Gian Maria Volontè), che lavora per aiutare e proteggere i detenuti politici antifascisti. La storia ruota attorno alle sue interazioni con un giovane detenuto politico di nome Luigi (interpretato da Ennio Fantastichini), che è stato condannato a morte per le sue attività antifasciste.

    Il film esplora il conflitto tra Don Benedetto, che cerca di offrire conforto spirituale e sostegno umano a Luigi e agli altri detenuti, e il regime fascista che cerca di reprimere l’opposizione politica in Italia. La narrazione si sviluppa attraverso una serie di incontri tra Don Benedetto e Luigi, rivelando il crescente legame tra i due uomini e la lotta per la sopravvivenza e la giustizia.

    Cast:

    • Gian Maria Volontè come Don Benedetto
    • Ennio Fantastichini come Luigi
    • Renato Carpentieri
    • Tuccio Musumeci
    • Renato Scarpa

    Regia: Il film è stato diretto da Gianni Amelio, un regista italiano noto per il suo stile realistico e la sua attenzione per i temi sociali e politici. La sua regia in “Porte Aperte” è stata apprezzata per la sua capacità di catturare l’angoscia e la tensione dei personaggi e dell’epoca storica in cui è ambientato il film.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Giuseppe Tornatore e Angelo Rizzoli Jr. ed è stato distribuito nel 1990.

    Stile: Il film presenta uno stile realista, con una fotografia che cattura l’atmosfera cupa e opprimente del periodo storico. La narrazione si concentra sulla profondità dei personaggi e sulle loro relazioni, piuttosto che su effetti speciali o azione spettacolare.

    Sinossi: “Porte Aperte” racconta la storia di un prete che cerca di sostenere detenuti politici antifascisti durante la Seconda Guerra Mondiale in Italia, mettendo in evidenza i conflitti morali e politici dell’epoca.

    Curiosità:

    • Il film è stato nominato per l’Academy Award come Miglior Film Straniero nel 1991.
    • È basato su eventi e personaggi reali, il che aggiunge una dimensione storica significativa alla storia.

    Spiegazione dettagliata del finale (SPOILER ALERT): Nel finale del film, Luigi è stato condannato a morte, ma Don Benedetto continua a sostenere spiritualmente e moralmente il giovane prigioniero fino all’ultimo momento. Mentre Luigi viene condotto al plotone di esecuzione, Don Benedetto è presente e lo guarda morire. Questa sequenza finale è profondamente toccante e rappresenta il culmine della relazione tra i due personaggi.

    La morte di Luigi sottolinea la brutalità del regime fascista e il sacrificio di coloro che si sono opposti ad esso. Don Benedetto, pur avendo fatto tutto ciò che poteva per aiutare Luigi, è costretto a confrontarsi con l’ingiustizia e la durezza della realtà politica dell’epoca.

    Il finale offre una potente riflessione sulla lotta per la giustizia, la fede e la resistenza contro le forze oppressive. È un momento di grande impatto emotivo che rimane con lo spettatore anche dopo la fine del film, rappresentando il tema centrale della storia e la sua forza emotiva.

  • Wishmaster – Il signore dei desideri: uno degli ultimi scampoli di autentico horror anni 90

    Wishmaster – Il signore dei desideri: uno degli ultimi scampoli di autentico horror anni 90

    1127: in Persia viene evocato un demone jinn, in grado di esaudire tre desideri a chi lo evoca per poi, finalmente, avere il dominio del mondo. Fermato per tempo da un sacerdote dell’epoca, viene rinchiuso in una gemma rossa. La stessa che, secoli dopo, verrà trovata accidentamente dalla protagonista…

    In breve. Horror di marchio USA sulla base di modelli particolarmente consolidati e di successo qualche anno prima (su tutti, Hellraiser). Ci sarebbero tutti gli ingredienti del film perfetto, soprattutto a livello visuale, se non fosse per un finale vagamente didascalico e qualche crepa nello script.

    Alla regia del primo Wishmasher troviamo Robert Kurtzman, molto a proprio agio con gli effetti speciali – che infatti vengono sfoggiati fin da subito – oltre ad avere una considerevole esperienza con il mood dell’horror. Ha lavorato, ad esempio, a Misery non deve morire, La casa 2 e Nightmare 5. Wishmaster, primo film di una saga di discreto successo prolungatasi fino al 2002, è anche una delle sue rare occasioni di poter lavorare alla regia, con un soggetto di Peter Atkins che si ispira alla demonologia classica, ovvero la figura del jinn. Nella tradizione, infatti, i jinn si fanno risalire all’epoca pre-musulmana, e sono entità malvage simili ai goblin o al “genio” reso popolare da Le mille e una notte, tant’è che nel film si esplicita ironicamente che il tutto non ha nulla a che vedere con Robin Williams (che nel cartone animato Aladdin, targato 1992, aveva dato la propria voce al Genio della lampada). Del resto è assodato che la tradizione favolistica abbia preservato soltanto gli aspetti rassicuranti del “genio”, rendendolo simile all’ironica figura disneyana che abbiamo conosciuto anche in Italia ai tempi, ed occultandone la natura tradizionale che lo rendeva, di fatto, più simile ad un beffardo demone.

    Il jinn di Wishmaster è molto più fedele alla tradizione – per quanto ciò avvenga in una azzardata chiave splatter – e sì, esaudisce ogni desiderio, ma lo fa spesso e volenieri a svantaggio della vittima, spesso raggirandola come avviene con la commessa trasformata in un manichino per assecondare la sua volontà di rimanere giovane & bella a vita. Il demone protagonista di questo horror alquanto scenografico, ricchissimo di splatter e compatto, è un muta-forma che si nutre dei desideri espressi dai malcapitati che incontra, fino ad assumere la parvenza di un uomo d’affari, potente ed affabulatore, che vorrebbe chiudere il cerchio per dominare il mondo. Alla malvagia creatura si opporrà Alexandra, protagonista classica di questo sottogenere dell’orrore, personaggio discretamente caratterizzato quanto vagamente fiacco per certi aspetti.

    I jinn rappresentano una sorta di demone sempre esistito, vagamente lovecraftiano, scaltro e imprevedibile nell’esaudire i desideri altrui e sempre mirato ad accrescere il proprio potere. Desideri che, inciso, ricadono in due casistiche fondamentali: vanità (soldi, bellezza) o addirittura la morte di qualcun altro, un po’ come avveniva anche in Death Note. Desideriamo spesso le peggiori nefandezze contro i nostri nemici, la vita lunga, la ricchetta o la bellezza eterna – salvo poi pentircene, rimanere travolti dal senso di colpa, ingannati e via dicendo. L’analisi psicologica è un po’ didascalica nei toni, ma sostanzialmente regge e non appesantisce la narrazione.

    Il personaggio più emblematico in tal senso è peraltro proprio Alexandra (Tammy Lauren), alle prese con un passato traumatico (ha perso i propri genitori in un incendio, riuscendo a salvare solo la sorella) e per cui il contatto con il jinn, evocato accidentalmente, si prefigura come un autentico incubo ad occhi aperti, a intermittenza.

    C’è anche da dire che, nonostante la scenaggiatura sia quasi perfetta, è presente qualche piccola forzatura, tra cui il fatto che il jinn non sembra poter fare nulla che non sia espressione di volontà altrui, per quanto poi – in alcuni momenti – sembri allegramente contravvenire alla regola, senza troppe spiegazioni. D’altro canto, ed è l’unica critica sostanziale che sento di poter muovere al film, Alexandra è un po’ troppo sul mood “risolutore made-in-USA”, ed affronta il demone in modo un po’ troppo gradasso (leggasi: poco credibile), un po’ come nella gloriosa tradizione dei film d’azione / horror niente male quanto un pochino grezzi nei modi (non è un azzardo pensare a Giorni contati, a mio avviso, per capire a cosa mi riferisco).

    La tagline “attento a ciò che desideri” con cui venne lanciato Wishmaster nel 1997, dal canto suo, è altamente suggestiva e sembra essere perfettamente in linea con questo spirito, che cavalca l’horror psicologico spesso e volentieri ma che, alla prova dei fatti, è un terrore più d’azione che mentale. Molte trovate sono davvero originali, su tutte la scena del party che diventa una mattanza e soprattutto le statue degli dei dimenticati che si animano ed iniziano ad uccidere. È l’horror inventato da Clive Barker, in fondo (Hellraiser), in cui creature infernali si innestano nel mondo moderno senza troppi complimenti, con la semplice e cruda finalità di infliggere sofferenza all’uomo, e qualche scampo di horror surrealista davvero suggestivo (Alexandra intrappolata nella gemma, la sorella dentro un quadro). Una metafora visiva dei mali del mondo che, col tempo, è stata sempre meno utilizzata dai registi, se si pensa che gli horror fantasy sono sempre meno sfruttati e popolari: varrebbe la pena, forse, dare uno sguardo anche a Jeepers Creepers, sempre sulla falsariga di Wishmaster, anche perchè il creeper protagonista è davvero molto simile al genio che  si aggira in questo film.

    È anche il caso di citare la massiccia e insistita presenza di effetti speciali, uno splatter all’ennesima potenza che rende la visione alquanto spettacolare e suggestivo al netto, forse, di una conclusione della storia vagamente semplicistica e forzosamente rassicurante quanto necessaria nella misura in cui il jinn dovrà materializzarsi nuovamente negli altri tre film della serie. Nel finale, peraltro, Alexandra opta per un desiderio che possa annullare la circostanza originaria che ha scatenato il demone, eliminando così la dimensione temporale in cui si era trovata; su questo si sarebbe potuta sviluppare qualche sottotrama interessante (tipo il colpo di genio che aveva fatto concepire, ad esempio, L’armata delle tenebre), ma si opta per la soluzione più semplice – una sola linea temporale, un solo universo pensabile, una unica dimensione. E non finisce qui: nella dimensione “ripulita” da Alexandra il jinn non solo non si manifesta, ma lei decide di concedersi all’amico che aveva in precedenza friendzonato. Happy ending e tutti a casa, insomma, in cui vediamo la vittima di un trauma che decide di lasciare spazio a sentimenti repressi, come se il pericolo scampato fosse liberatorio a prescindere, in qualche modo.

    Siamo lontani dalla tradizione nichilista dei vari Nightmare, forse l’ispirazione più palese per la creazione del demone (Wes Craven peraltro lavorò alla produzione, in questo film), e c’è da riconoscere che se il jinn non è mai diventato iconico come Freddy Krueger, un motivo deve pur esserci. Rimane un’eco potente che si ispira alla serie Ai confini della realtà / The twilight zone, in cui certi episodi assumevano una valenza didattico-didascalica, e c’era una certa compatezza narrativa priva di fronzoli, al netto di personaggi non sempre convincenti al 100%. Wishmaster si avvale della partecipazioni di volti noti dell’horror e della fantascienza, a partire da Robert Englund a finire con Tony Todd, Kane Hodder e George Buck Flower, e anche Tom Savini ha avuto una parte attiva nella creazione degli effetti speciali.