Detta senza mezze misure, Winnie the Pooh: Sangue e Miele è una cafonata cosmica. Meglio: non poteva essere diversamente. Sulle prime sembra volersi palesemente divertire (in chiave splatter) su uno dei miti dell’infanzia di chiunque, fregiandosi di cinismo e riprese calcolate come nella migliore tradizione slasher horror. Poi ti viene il sospetto che ci sia dell’altro, qualcosa da dire, qualcosa da raccontare in modo originale. Forse c’è, forse no. Vederlo per intero è l’unico modo per capirlo. Perchè se l’impianto del film è pensato per risultare allegramente sgradevole, è soprattutto quel finale ad essere nerissimo, cupo, senza speranza e (cosa non da poco) senza alcun rispetto della struttura narrativa precedentemente imposta. Contenti voi, contenti tutti, e questa è.
C’è sicuramente l’auto-indulgenza tipica di certo horror, c’è pure l’orgoglio di aver prodotto un film del genere senza alcun tipo di condizionamento artistico, sia pur a costo di averlo forse troppo frammentato in micro-episodi che sanno molto di accozzaglia di centinaia di trailer diversi. D’altro canto Winnie the Pooh: Sangue e Miele rimane una cafonata consapevole, dato che sfrutta coerentemente gli stilemi del genere – gliene va dato atto, sono gli stessi stilemi modello La casa: perchè mai continuino a funzionare, tutto sommato, film in cui dei giovani fanno cose irragionevoli (per non dire peggio), rimane un mistero. Un mistero del tipo: perchè andare da soli in un bosco oppure, come avviene all’inizio di questo lavoro, perchè la moglie di Cristopher Robin accetta bonariamente di recarsi nel bosco a vedere gli animaletti dell’infanzia? Qualcuno, al suo posto, avrebbe chiesto il divorzio.
Eppure, strano a dirsi, al netto di certe ventate di realismo (che non fanno bene all’horror in generale), e per quanto sia alienante esserne consapevoli, fin dall’inizio della pomposa campagna di marketing di questo horror di Rhys Frake-Waterfield possiamo dire che il film sostanzialmente funziona, fa il proprio dovere, risponde alle aspettative di chi va a vederlo (bontà sua). Ovvio, poi non funziona più di una qualsiasi opera di Rob Zombi nè più di un qualsiasi Non aprite quella porta: ma funziona.
Funzionicchia, se proprio volessimo essere critici: è girato discretamente, ma è completamente senza intreccio, senza filo logico, più interessato a shockare che ad altro, senza contare i non sequitur a granularità minima e vari momenti in cui (come in parte della filmografia di Zombi, significativamente) non si capisce bene cosa stia succedendo. I dialoghi del film, per larga parte, sembrano estratti dai fake trailer di Rodriguez-Tarantino, privati di quell’aura ironica che li rendeva quantomeno divertenti. Qui si ride pure, anche solo di riflesso e per nervosismo, e ci si sente quasi in imbarazzo nel farlo.
“Non sembra umano, Logan. Non sembra nemmeno un orso!
Mmm, non mi piace questo tipo.
È il tuo giorno sfortunato, amico. (colpisce Winnie The Pooh, che resta in piedi) Sei un duro, devo ammetterlo!”
Per gran parte della storia le suggestione che arrivano sullo schermo sono zeppe di sangue e violenza esplicita, a ben vedere non diverse da quelle di un qualsiasi Venerdì 13 o analoghi, gli stessi film con alternanza di senso di colpa / vendetta di cui abbiamo perso il conto in questi anni. Da sempre sospesi nel desiderio di capire, mentre ne scrivevamo, se davvero valesse la pena parlarne o meno. E mi viene in mente quello che ho sentito dire a Dario Argento dentro a un cinema di Roma, qualche giorno fa: che (parafrasando) i mostri non sono mai solo mostri, ma sono espressioni delle profondità d’animo.
Perchè dietro un horror non c’è mai solo l’orrore, effettivamente, e lo sappiamo (dovremmo saperlo). È una tentazione concettuale in cui molti sono caduti, in passato, a cominciare dal celebre studio di genere di Carol J. Clover (Men, women and chainsaws), che rispondeva alle accuse di non sense e misoginia mosse a gran parte degli slasher anni 70. Altri tempi, decisamente. Perchè all’epoca quell’orrore si rivolgeva a persone ordinarie che il più delle volte non capivano neanche troppo di rivoluzione culturale, Sessantotto e via dicendo, oggi si rivolge ad una platea che crea meme direttamente in sala e che è abituata a sputare sentenze sui social. Qui non si potrà proporre una raffinata analisi sociologica (anche se Winnie The Pooh in chiave horror è il mito dell’infanzia perduta che si rivolta contro di noi e la nostra presunta adultità). No, non varrà la pena farlo perchè già ne abbiamo letto abbastanza, o perchè no, davvero, l’horror su Winnie The Pooh non l’avrebbe girato manco Peter Jackson o Sam Raimi da giovanissimi per scommessa. Il che magari è un merito, e non ce ne siamo ancora accorti.
Resta il fatto che un film traumatizzante del genere non può che essere figlio dei tempi dissacranti, privi di eroi, conformisti, cinici e violenti in cui ci troviamo a vivere nostro malgrado. Non è uscito negli anni Ottanta dei satanic panic, non è uscito nei Settanta delle sette ambigue e manipolatrici, nè nei Novanta dell’uso disinvolto di droghe: è uscito oggi, in tempi feroci e a loro modo traumatici, in cui poco o nulla importa del piano simbolico e tutto si sposta sul piano visivo, emozionale, shockante, jump scare. Tempi in cui la paura non è più metafora o metonimia, ma vira sul gusto di shockare fine a se stesso, e tanto basta. Come un bambino viziato e troppo cresciuto, di quelli che si divertono a distruggere i propri giocattoli, rinnegando il passato e cancellando il futuro. Figlio dei tempi, per l’appunto.
Di OswaldLR – DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170
Con un qualcosa in più, o in meno (dipende dai punti di vista), o con il vincolo di dover per forza di cose accettare quel punto di vista dissacrante, grottesco (e spesso sostanzialmente gratuito) con cui Winnie The Pooh, da orsetto innocuo e spensierato possa diventare un serial killer feroce, addirittura creativo nelle soluzioni che riesce a trovare per uccidere, a cominciare da quella con cui miete una delle prime vittime (usando un gigantesco tritacarne).
Il film, peraltro, è zeppo di citazioni più o meno esplicite al mondo dell’horror classico, a cominciare dalle soluzioni omicide originali tipo Freddy Krueger a finire agli assassini simbolici, cruenti e creativi di Venerdì 13, Halloween e così via. Ma anche qui: non sembra esserci abbastanza sostanza per poter proporre un qualche paragone degno, che non vada per la consueta celebrazione auto-indulgente dei classici da parte di cineasti incalliti, che forse oggi è un po’ superata dai tempi.
Che cosa mi vuoi fare? Perchè stai facendo tutto questo? Lasciala andare: hai ucciso troppe persone, Pooh. C’è ancora del buono in te.
Winnie the Pooh horror, signore e signori. Winnie, con quel tuo ghigno assente, a metà tra l’espressione inquietante di Michael Myers (stalker mostruoso che puniva il desiderio sessuale e i suoi annessi) e quella ontologicamente incazzata di Jason Voorhees (figlio abbandonato da una madre poco presente e oppressiva), si esplica col suo evidente richiamo simbolico al mondo dell’infanzia violata, al fatto che viviamo in uno dei periodi più polarizzati e orrorifici di sempre, al fatto che se davvero non ci è rimasto nemmeno Winnie The Pooh a tranquillizzarci e non mandarci in overthinking, è davvero il caso (forse) di cambiare registro. E mentre ce ne capacitiamo l’ennesimo villain è sempre lì, pronto a punire una nuova giovinezza inconsapevole, vanitosa e traumatizzata, sia pure a costo di farci più ridere che spaventare. Ma anche qui: il riso indotto da certe scene cruente (o improbabili) di Winnie the Pooh: Sangue e Miele è il riflesso di un tabù che non sappiamo accettare, che forse mai accetteremo, e che (se fosse il caso di specificarlo) difficilmente piacerà ai fan “nudi e puri” del cartone originale.
“È stato Pimpi, quel sadico, si è divertito a torturarmi. Non c’è un motivo. E io non me ne andrò di qui finchè lui non sarà morto. Vieni qui Pimpi, porco schifoso!”
Per quanto la critica abbia tendenzialmente massacrato questo titolo, è impossibile non riconoscerne qualche merito, in fondo. Non è un horror autoriale, ovviamente, e ci mancherebbe pure. Non c’è l’approfondimento psicologico degno di nota, o forse ce n’è solo un accenno vago: una delle universitarie protagoniste è reduce da un percorso di terapia dopo essere stata assaltata da uno stalker. Questo in fondo è solo un horrorslasher come miriadi ne sono usciti in passato, con l’idea originale di dissacrare un innocente cartone per bambini ed urlare al pubblico di averlo fatto.
Credits: imdb.com
Qualsiasi cosa ciò possa significare, in effetti, e con le stesse riserve che abbiamo espresso nel giudicare altri horror analoghi (ce ne sono pure troppi, su questa falsariga) a volte pure di buon livello, ma anche eccessivamente autoindulgenti e compiaciuti di ciò che mostravano. Eppure qui – al netto di tamarrate assortite, soprattutto perchè decontestualizzate – la sostanza si affaccia, a volte, sia pur in modo destrutturato e quasi privo di trama, con ragazzi dai mille problemi e con grottesche (e consuete per il genere) tendenze suicide, mentre Pimpi e Winnie si aggirano nel film ad uccidere gente un po’ a casaccio.
Credits: imdb.com
La parte migliore del film, del resta, rimane quella realizzata tipo cartone animato dei minuti iniziali, dotata di una sua solenne dignità e maestria: Cristopher Robin ha smesso di giocare con Winnie e gli altri, è cresciuto, è andato al college, ha scoperto la sessualità, adesso ha una moglie, una vita adulta, un lavoro, e non può più pensare agli animaletti della sua infanzia con cui tante esperienze aveva condiviso. Se facciamo morire la dimensione immaginaria del gioco, in altri termini, siamo destinati a pagarne le conseguenze, mediante la simbolica rivolta dei giocattori dell’infanzia che, a ben vedere, conosciamo almeno dai tempi dell’iconico La bambola assassina. Gli animaletti diventano animalazzi (cit. Simpson) sempre più feroci, regrediti allo stato brado e dediti al cannibalismo per vendetta. Soprattutto, odiano Cristopher Robin, il quale li ha, dal loro punto di vista, abbandonati nel bosco, dove hanno assistito loro malgrado alla morte di uno di loro e dovuto cavarsela da soli.
Estremo paradosso, Winnie the Pooh: Sangue e Miele non è affatto il vero Winnie the Pooh, se non attraverso richiami ai personaggi (Tigro è stato escluso per motivi di copyright, a quanto pare), e non può fare a meno di Winnie the Pooh originale, perchè in fondo se non ci fossero lui e il buon Pimpi, questo sarebbe l’ennesimo slasher anonimo di cui tra un mese non ricorderemmo neanche il titolo. E allora, forse, vale la pena dare una possibilità al film, sia pure con riserva e con l’idea di essersi tolti la strana curiosità di vederlo.
Ammesso che, ovviamente, vi aggradi realmente l’idea di assistere a questa insana trasformazione, cosa tutt’altro che ovvia.
Un castello sperduto viene utilizzato dai militari per internare reduci dalla guerra in Vietnam affetti da vari squilibri mentali.
In breve. L’ospedale di Fell è popolato da figure grottesche e tragicomiche, incapaci di metabolizzare il dolore per la guerra. Un affresco molto potente, quanto criptico in alcuni passaggi, con cui Blatty affronta il tema del senso della vita e del sacrificio.
La nona configurazione è stato scritto e diretto dall’autore del romanzo da cui è nato il film “L’esorcista“, William Peter Blatty, ed ha vinto un Golden Globe nel 1981 come Miglior sceneggiatura. Secondo lo stesso William Peter Blatty, La nona configurazione fa parte di una vera e propria trilogia, che include L’esorcista (incentrato sull’esistenza del bene e del male) e Legion (da cui fu tratto il film L’esorcista III), che invece si focalizza sull’espiazione dal peccato originale e la punizione del male.
Non è difficile immaginare, in quest’ottica, che La nona configurazione sia anch’esso pervaso da un forte misticismo, nonostante le apparenze facciano sospettare un lavoro delirante e semplicemente claustrofobico sulla schizofrenia. Il ruolo della religione nella lettura di Blatty, del resto, compare a chiare lettere fin dalla sequenza con il crocefisso posto nello spazio (sulla superficie lunare), quest’ultima allucinazione o sogno del protagonista (il colonnello Kane). Una delle tante sequenze enigmatiche, complesse per lo spettatore ancora oggi, di cui il film è letteralmente cosparso – tanto più che la comprensibilità dell’opera è più abbordabile soltanto se si guarda la versione uncut, dato che l’edizione doppiata in italiano aveva inspiegabilmente saltato – e mai ridoppiato – alcune sequenze (il soldato impazzito che declama l’Amleto ad un gregge di pecore, altri due pazienti che sospettano la follia di Kane). Al suo fianco troviamo la figura di Billy Cutshaw, ex astronauta ed internato dopo aver rinunciato in extremis ad una missione nello spazio: la sua motivazione, come si scoprirà, è dovuta al senso di vuoto che avrebbe provato nel rimanere così lontano da altri esseri umani (“Ci ho provato, signore. Vede le stelle? Così free, lontane, e così sole. Oh, così sole. Tutto quello spazio, vuoto. E così lontano da casa. Ho girovagato attorno casa, orbita dopo orbita. A volte finisco per chiedermi come sarebbe se girassi in quel modo per sempre. E se arrivassi sulla Luna senza poter più tornare? Chiaro, ognuno di noi muore, ma ho paura di farlo da solo, così lontano da casa. E se non esistesse un Dio, saremmo davvero molto soli.“). Un personaggio profondamente umano, pertanto nonostante le apparenze psicotiche iniziali, dal comportamento in linea con presunte velleità artistiche e simbolo, probabilmente assieme a Kane, dell’umanità e della sua doppia faccia (Kane si rivelerà anche un feroce soldato, Billy troverà conferme il proprio pessimismo antropologico fino al simbolico twist finale; al tempo stesso Kane verrà presentato letteralmente come un Cristo morto per i nostri peccati).
Di fatto l’introspezione psicologica sui protagonisti, il cui limite tra lucidità e follia è sempre labile – praticamente in ogni caso – rende il film affascinante quanto affetto da una forma di manicheismo di fondo: lo intuiamo sia dalle parole di Billy appena citate, che quando sentiamo le considerazioni misticheggianti di Kane (“Affinché la vita apparisse spontaneamente sulla terra, prima dovevano esserci centinaia di milioni di molecole proteiche della nona configurazione. Ma date le dimensioni del pianeta Terra, sapete quanto tempo ci sarebbe voluto perché solo una di queste molecole proteiche apparisse totalmente per caso? Circa dai 10 ai 240 miliardi di miliardi di anni. E lo trovo molto, molto più fantastico del semplice credere in Dio.“).
Non dovrebbe essere una novità, quest’ultima, dato che le posizioni di Blatty in tema di fede sono esplicite fin dai tempi de L’esorcista (un buon horror di culto, senza dubbio, per quanto anch’esso vittima di manicheismo e di un messaggio propagandistico in favore della fede a prescindere, per certi versi non troppo progressista). Non è mai chiarito cosa possa essere, in effetti, la nona configurazione, per cui ogni spiegazione rischia di apparire parziale e viene lasciata all’immaginazione dello spettatore. Appare comunque sbagliato avere un atteggiamento eccessivamente riduzionista o anti-idealistico nei confronti di questo film, che rimane interpretato splendidamente e molto solido narrativamente – per quanto lo script rischi di sembrare un po’ didascalico in certi passaggi (il tema del soldato stravolto dal trauma, del resto, è stato affrontato in modo più incisivo in film come La morte dietro la porta).
L’atteggiamento nei confronti del sovrannaturale, per molti versi, è anche analogo a quello espresso da John Carpenter ne Il signore del male, con la differenza fondamentale che quel film usa la fisica quantistica come strumento di propagazione dello stesso e, soprattutto, svela l’arcano in chiave antropologicamente pessimista quanto materialista (è l’Uomo, in quel film, ad essere l’unica causa del male). Nel film di Blatty l’occhio della camera si pone invece in maniera onirica e distaccata rispetto a tutti i protagonisti, e si limita ad accumularne il dolore universale per proporre una riflessione puramente teologica.
Dall’aria impettita e dallo sguardo fisso – da freddo osservatore, Kane rivelerà una personalità doppia, tanto che (da semplice psichiatra quale dovrebbe essere) si troverà sempre più coinvolto in una para-seduta che, paradossalmente, riguarderà se stesso, sempre più da vicino. L’interpretazione di Stacy Keach è stata in questa sede magistrale, e deriva dall’impostazione da teatro dell’assurdo dell’intero film, alquanto criptico in alcuni passaggi e giocato su toni grotteschi giustificabili, almeno in parte, dal clima di follia che finisce per permeare l’opera. Del resto alcuni riferimenti all’opera di Shakespeare (Amleto) sono ripetuti in più occasioni, almeno fino al primo twist nella trama che rivela la reale natura del protagonista e l’orribile antefatto che l’ha portato lì (la decapitazione accidentale di un ragazzino vietnamita, fatto occultato dai militari in seguito). Il suo personaggio, pertanto, cerca la redenzione provando a curare dei pazienti affetti da un male molto simile – il trauma di una guerra – figurando, probabilmente solo nella sua mente, di avere gli strumenti per poterlo fare.
La nona configurazione venne curiosamente finanziato grazie alla Pepsico, nota per la nota bevanda analcolica (la Pepsi, eterna rivale della Coca-Cola); ci fu anche una diatriba piuttosto accesa su dove girare il film, che i finanziatori pretendevano di realizzare a Budapest, senza avere l’assenso del regista / autore della sceneggiatura. Il compromesso trovato fu memorabile, e solo parzialmente visibile: si limitò semplicemente a riprendere (per alcuni brevi istanti) un distributore di bevande con il marchio Pepsi sopra.
Un tornado in Ohio uccide numerose persone e le rispettive famiglie: quella che si vede è la storia dei sopravvissuti.
In breve. Ispirato all’idea di girare un film su dei ragazzini sopravvissuti ad un terremoto, si basa su un’atmosfera post-apocalittica ineditamente di provincia: dopo un tornado, una piccola comunità prova a ricostruire le proprie esistenze sulle macerie. Ma che riescano davvero a farlo, è tutto da vedere.
Opera prima di Harmony Korine (già noto per Kids), qui regista ed autore della sceneggiatura, Gummo racconta a suon di death-black metal le solitarie ed alienanti vite dei sopravvissuti ad un tornando in Ohio, ridotto ad un deserto di degrado, noia, spazzatura, nichilismo e perversione. La trama racconta, in modo frammentato, la crudele vita a cui sono costretti i vari ragazzini protagonisti, in particolare due: il cinico Tummler (nomen omen: significa “agitatore” o ribelle in lingua Yiddish) ed il mite Solomon (Jacob Reynolds, che compare pure sulla locandina ed è diventato noto per questo personaggio).
Girato in soli 20 giorni con un budget di poco più di un milione di dollari, peraltro da un cast di attori non professionisti in larga prevalenza (solo cinque avevano in minimo di esperienza), si ispira apparentemente ai fatti realmente accaduti a nell’Ohio (Xenia) nella metà degli anni ’70, sfruttando parecchie luci fluorescenti che servono a conferire un particolare feeling ossessivo, a tratti giallastro e con parvenza di snuff in molte sequenze.
Una narrazione che procede sulla falsariga del flusso di coscienza, ereditando qualche meccanismo narrativo da Slacker (uscito 6 anni prima) e ponendosi quasi come una sua rielaborazione degradata. Se nel film di Linklater, infatti, il ritmo era concatenato ad un susseguirsi di eventi continui (quantomeno nello spazio), mentre il montaggio rivestiva un ruolo secondario, in quello di Korine esce fuori una componente più spezzettata e frenetica, ancora più realistica e cruda – tanto da far pensare ad un mockumentary (falso documentario).
Gummo è anche decisamente grottesco a partire dai passatempi e dalle movenze dei singoli personaggi, tanto goffi quanto – spesso di puro ripiego – inutilmente crudeli. Uno scenario che evoca il post-apocalittico, almeno come scenario, dotandolo di una parvenza di pesante realismo, tanto da far sospettare allo spettatore che addirittura le morti degli animali siano snuff (nonostante le apparenze a nessun animale, come dichiarato il regista, è stato davvero fatto del male in questo film). Come se non bastasse, molte sequenze sono tanto sconnesse da apparire surreali ed illogiche, con personaggi che vivono in un proprio, rispettivo micro-mondo in cui è quasi impossibile rapportarsi con gli altri in modo socialmente normale. Neanche fossimo all’interno di un teatro di strada dell’assurdo, insomma, ed il soggetto non fosse stato concepito da Beckett o, meglio ancora, da Bernhard. Gran lavoro è stato fatto su questo frangente, ed anche se visto oggi per la prima volta Gummo rimane un film indimenticabile, di quelli che turbano e fanno sentire sporchi pur esercitando una chiara funzione catartica (se non vi piacciono i paroloni: guardarlo può essere, a suo modo, rigenerante per lo spirito).
Decisamente marcata, e non poteva essere diversamente, la componente horror di Gummo, certo non legata al folklore, allo splatter o ai classici villain-tritacarne bensì, in modo decisivo, all’orrore insito nell’animo umano: tanto più che si tratta di personaggi dai tratti primordiali, quasi elementari, spesso al limite della follia, in grado comunque di fare più di una considerazione straziante o esistenzialista. Nella sequenza forse più incisiva e spaventosa della pellicola, ad esempio, assistiamo al monologo davanti allo specchio di Tummler (un suicidio simulato), seguito da una sorta di rituale satanico, intermezzato da un anonimo che si incide a sangue il logo della band thrash metal Slayer.
Caro mondo, sono confuso dalle oscure elucubrazioni del mio cervello. Ho cercato… ho cercato in tutti i modi di farcela in questo schifoso mondo, ma credo che il primo errore sia stato quello di nascere. Non ho nessun senso di colpa per il mio suicidio. Ho provato… alla vostra maniera, ho sempre lavorato fin da quando avevo 13 anni. Lavorare per vivere non è mai stato un problema per me. Il problema è che sono circondato dall’oscurità. È buio! È buio! È buio! Ora mi punto la pistola alla testa e sparo.
Una narrazione in cui non si risparmia qualche considerazione sensata (La vita è bellissima, davvero: lo è. Piena di bellezza e di illusioni. La vita è grandiosa), sarcastica (…senza la vita saresti morto) o caratterizzata da una rassegnata ironia di fondo (Conoscevo un ragazzo dislessico, ma era anche strabico: così è venuto fuori bene, tutto sommato). L’ironia corrosiva del regista, peraltro, è abbastanza chiara sia dalla conclusione (la ragazza in disgrazia convinta di essere madre di un bambolotto, e che canta sconnessamente “Gesù mi ama“) che dalla geniale comparsata dei due ragazzini africani, che fingono di raccogliere fondi per curare il cancro e progettano come spenderli: “Ehi, stiamo facendo un mucchio di soldi.Non è meglio che andare a scuola? Così ci compriamo gli insegnanti e non dobbiamo più andare a scuola. Ci compriamo pure la gente? Sì, ci compriamo tutti. Avremo un sacco di amici, e se ci rompiamo ci compriamo degli amici nuovi. Tutti quelli che vogliamo: diventeremo ricchi. E ci compreremo anche delle belle donne“. Menzione particolare per la figura del ragazzo vestito da coniglio (Jacob Sewell), un simbolo che si presta a varie interpretazioni (finge di farsi cacciare da due coetanei vestiti da cowboy, e si indugia sulla sua morte apparente per diversi fotogrammi), salvo poi liberare inaspettatamente la propria sessualità nella sequenza in piscina con le due ragazze bionde. Musica di sottofondo: Crying di Roy Orbinson, che dopo tutto questo bel black metal è un contraltare liberatorio e profondamente originale: un film coi contro-fiocchi, ammesso che sia lecito ed opportuno fargli un complimento del genere.
Di fatto, Korine lascia parlare parecchio i suoi personaggi, senza degenerare in masturbazioni mentali intellettualoidi: a volte in forma di dialoghi auto-conclusivi e connotati da humour nero, ma anche nella forma di monologhi concepiti come deliranti risposte ad un’immaginaria intervista – e qui interviene una componente introspettiva, caratterizzata da riprese di tipo amatoriale, veri e propri filmini in 16mm alternati con riprese tradizionali.
Lo sai cosa faccio domani?
Cosa?
Vado in un manicomio.
In un manicomio?
Mi troverò una bella pazza furiosa.
Non c’è speranza di redenzione per i protagonisti, peraltro, tanto da nullificare il mantra conclusivo di Slacker (“Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma.“) e rendere Gummo (che nello slang è usato per per riferirsi ad individui, generalmente razzisti, concepiti da un incesto) un film indipendente dai tratti molto cupi, privo di compromessi con il “grande pubblico” (ma mai pesante o vuotamente “di nicchia”) e, per quanto suoni stereotipato leggerlo: un film per pochi ma buoni, come davvero pochissimi sono stati realizzati.
Edmund e Dorothy Yates sono una coppia condannata a 15 anni di manicomio: trascorso questo periodo, rientrano a casa ed apparentemente riprendono una vita normale. La figlia e la figliastra, rispettivamente, rientreranno presto a contatto con loro…
In breve. Un cupo thriller settantiano in crescendo, che vira verso l’exploitation fino ad una conclusione grottesca e delirante; abbastanza sottovalutato da pubblico e critica, contiene spunti interessanti ed è, per certi versi, considerabile un cult.
Questo film di Pete Walker, regista inglese di b-movie prevalentemente horror, si pone sulla scia dei thriller sugli psicopatici che uscirono all’epoca: basterebbe citare Il mostro della strada di campagna, uscito qualche anno prima, con cui questo lavoro presenta qualche affinità. Se ne caso del film di Fuest si poteva parlare di pre-slasher, in questo di Walker gli omicidi servono a porre il problema sociale del reintegro nella società dei malati di mente.
Rinunciando all’etica del politically correct, Walker mostra la storia di una coppia condannata per cannibalismo, che vive internata in un manicomio quindici anni per poi essere rimessa in libertà: la coppia ha una figlia naturale che non li conosce, ed una figliastra che se ne prende cura e fa di tutto per nasconderglieli. Per quanto si scoprirà, Dorothy Yates in realtà non è mai guarita; il marito, mite ed apparentemente sano ma preda di incontrollabile devozione coniugale, continua a coprirne le efferatezze; la figliastra è vittima, nonostante tutto, dei propri legami affettivi e coniugali. Ci sarebbe abbastanza perchè un film del genere scatenasse il putiferio in termini di discussioni, eventuali accuse di reazionarietà (il messaggio del film sembra chiaro: il reintegro dei malati è inutile e dannoso) e richieste di censura e messa al bando; cosa che non sembra essere successa, probabilmente perchè si sono sempre evidenziati i limiti della produzione, che è da onesto b-movie e non particolarmente sorprendente sul piano degli effetti speciali o della narrazione/ritmo. Se uscisse oggi, un film come Nero criminale provocherebbe polemiche taglienti e distruttive a cominciare dall’ambiguità brutale della traduzione del titolo (dal sapore vagamente razzista, per quanto puramente accidentale).
Eppure “Nero criminale” rimane un film di discreta qualità, pur nei suoi limiti di genere, che sa presentare una lucida discussione sul tema, sfruttando il linguaggio dell’horror ed una narrazione gradevole, con buone interpretazioni ed una punta di biasimo, inevitabile, nei confronti delle istituzioni. Non c’è dubbio che dai personaggi di questo film, a cominciare dall’inquietante madre-criminale nonchè veggente – che sembrerebbe, stranamente per un film del genere, possedere reali poteri sovrannaturali – esca fuori un quadro pessimista sull’uomo e sulla sua natura. Lo dimostra l’episodio dello psichiatra, il personaggio in cui il pubblico tenderà ad identificarsi e che ne uscirà piuttosto male.
Le due figlie della coppia possiedono polarità opposta e funzionano grandemente: la prima sembra accomodante, vuole voler evitare il discorso e vivere in un comodo conformismo, puntando ad una propria vita “normale”. La seconda è puramente antisociale, difficile e dall’attitudine violenta, che scoprirà casualmente un’insano feeling con i genitori che la sorella le aveva tenuto, di fatto, nascosti. Non si vedrà granchè a livello di sangue, è bene specificarlo: questo nonostante le tematiche exploitation e nonostante, soprattutto, si capisca quasi sempre quello che sta succedendo: Walker dosa con cura le scene di violenza, e questo contribuisce a creare un clima di terrore a volte accennato e forse più intenso di quello esplicito. Inutile sottolineare, poi, che sia Craven (che usò spesso l’horror come rappresentazione dei mali sociali e della criminalità) che soprattutto Hooper (con la sua famiglia cannibale e le ormai celebri cene grottesche e cannibaliche) si possano trovare forti punti di contatto con queste tematiche.
Nero criminale è in definitiva un buon film di genere anni 70, annoverabile tra i b-movie d’epoca e, per questo, contutti i limiti ed i difetti di questo tipo di produzioni; uscito in un periodo in cui il genere era al proprio apice, del resto, sarà facile trovare titoli anche decisamente più incisivi ma questo, a mio avviso, merita comunque un occhio. Se l’horror non sempre è riuscito a dispensare messaggi significativi alla società, limitandosi a curare al più l’aspetto prettamente narrativo, “Nero criminale” rappresenta una notevole eccezione a questa regola, e si presenza come un film da riscoprire. Con occhio critico, s’intende, ma pur sempre da riscoprire.
Grazie alla Disney e a un errore di traduzione nell’Odissea, in cui “penna (intesa come piuma)” venne confusa con “pinna”, le sirene sono comunemente conosciute come esseri metà donna e metà pesce, che da sempre esercitano su noi comuni mortali un romanticismo non indifferente. Figure affascinanti che negli anni sono state raffigurate come bellissime e dalle code iridescenti, sulle cui squame si riflettevano miriadi di gocce d’acqua che davano vita a innumerevoli giochi di luce quando colpite dal sole.
Rappresentano quell’attrazione innegabile per il mare aperto, la cui vasta immensità è tanto terrificante quanto intrigante.
Grazie a questa narrativa si sono spesso ignorati gli aspetti più empi di queste creature: cattive, doppiogiochiste e cannibali; consapevoli della loro bellezza e della loro capacità di incantare gli uomini da utilizzare le proprie doti canore per ingannare gli uomini, troppo deboli per resistere al loro fascino, al fine di annegarli e cibarsene. In altre narrazioni sono state raffigurate come esseri marini antropomorfi visivamente brutti e terrificanti, che nulla avevano da spartire con la bellissima ragazza narrata da Andersen e che anni dopo ci regalò l’indimenticabile Ariel nel lungometraggio animato targato Disney.
Proprio alla storia de La Sirenetta si è ispirata la regista polacca Agnieszka Smoczynska per il film The Lure del 2015, presentato al Sundance Film Festival e attualmente disponibile su Netflix. La pellicola, confezionata come un musical, assume, man mano che si progredisce nella storia, un aspetto sempre più horror e dark, e racchiude più sottotesti. Il primo è quello relativo all’infanzia della regista, la quale ha dichiarato di essersi ispirata alla propria infanzia vissuta nei nightclub dove lavorava sua madre; mettere in scena la propria esperienza nascondendola all’interno di un’altra storia le ha permesso di raccontare ciò che ha vissuto in maniera più naturale, senza doversi trovare faccia a faccia, effettivamente, con questa realtà. Il secondo sottotesto invece si snoda attorno alle sirene, alla loro esistenza e al loro corpo. Non sarà difficile individuare critiche alla società e alla cultura performativa e sessista odierna, nonostante il film sia ambientato negli anni ’80. E proprio in una fredda notte in cui si respira a pieni polmoni l’aria grigia tipica dell’immaginario degli ex regimi sovietici le sorelle sirene protagoniste, Golden e Silver, si spingono fino alle rive della Vistola per attirare un gruppo di musicisti che sta suonando e convincerli, con il loro canto, a portarli con sé sulla terraferma per riuscire a banchettare con i loro corpi. I tre – padre, madre e il figlio Mietek – sono completamente affascinati dalle voci delle sirene che decidono di includerle nei loro spettacoli nel nightclub in cui lavorano in veste di coriste; Golden e Silver ruberanno sempre di più la scena, arrivando a diventare l’attrazione di punta del locale, ma alla loro ascesa e venerazione da parte degli spettatori corrisponderà il declino della vita personale.
Sono le luci stroboscopiche e i lustrini del night a fare da controparte “sirenesca” di The Lure: un aspetto immediato che colpisce delle protagoniste è infatti quello di non essere le classiche sirene fiabesche, ma creature acquatiche, la cui lunghissima coda verdognola priva di pinne ricorda quella delle poco affascinanti anguille. Un dualismo lampante che colpisce subito lo spettatore e lo rende cosciente del fatto che le sirene non sono completamente umane e belle. Un dettaglio, questo, che non mancherà di sottolineare Mietek a Silver: spintasi originariamente, come abbiamo visto, insieme a Golden in superficie esclusivamente per un tornaconto personale, la sirena cambierà presto idea quando imparerà a conoscere il giovane, di cui si innamorerà sempre di più. Per ottenere il suo amore, Silver è pronta in ogni modo a mettere in discussione se stessa, la propria natura e il rapporto con la sorella, ma Mietek le dice chiaramente che la vedrà sempre e soltanto come un pesce e non come una vera donna. Questo è solo uno dei casi in cui le due sirene saranno sottoposte alle continue aspettative degli esseri umani, rappresentanti di una società fagocitante e crudele che spreme tutta la bellezza e la vitalità da coloro che considera “pezzi da novanta” unici e inimitabili, per poi abbandonarli a se stessi una volta che questi non le servono più perché incapaci di rispondere ulteriormente a quelle aspettative. Chi cerca di adattarsi, come Silver, finisce per perdere di vista la propria identità e i propri obiettivi; chi invece tenta in ogni modo di restare integro e fedele a se stesso, come Golden, viene visto come un elemento di disturbo che va necessariamente annientato per riportare l’ordine.
Il nightclub dove le sirene si esibiscono, grazie al tripudio di luci, colori, costumi, effetti scenografici e glitter, non rappresenta altro che la maschera ipocritamente affabile che la società corrotta indossa tutti i giorni, con il fine di ingannare con false promesse le persone che tentano di inserirvisi; non è dunque un caso che una delle prime canzoni del musical sia totalmente incentrata sui sogni, grandi e piccoli, concreti e frivoli, che Golden e Silver vogliono realizzare sulla terraferma. Qui, purtroppo, troveranno soltanto emozioni e sentimenti con la data di scadenza; bugie e inganni; ipocrisia dilagante che non vede l’ora di farle a pezzi e venderle come carne da macello al migliore offerente, attraverso una sessualizzazione spinta all’eccesso dei loro corpi unici e straordinari.
In questo clima frustrante e asfissiante crescono sempre di più l’illusione, incarnata da Silver, e il risentimento, proprio invece di Golden. Il primo a venire meno è il loro legame di sorelle: ognuna arriva a vedere nell’altra una minaccia ai propri obiettivi e ai propri sogni, che fino a poco tempo prima condividevano. L’assenza del loro equilibrio personale in quanto unica e solida certezza non può che lasciare spazio a un effetto valanga destinato a peggiorare sempre di più, fino all’epilogo tremendamente tragico e privo di qualsiasi tipo di speranza.
Gestisci Consenso Cookie
Utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Lo facciamo per migliorare l'esperienza di navigazione e per mostrare annunci (non) personalizzati. Il consenso a queste tecnologie ci consentirà di elaborare dati quali il comportamento di navigazione o gli ID univoci su questo sito. Il mancato consenso o la revoca del consenso possono influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.