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  • La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    In un’intervista di qualche tempo fa Guillermo del Toro – classe 1964, guru cinematografico del fantasy a tinte dark – raccontava una storia singolare: nel 1998 il padre viene rapito in Messico. Per ritrovarlo, la famiglia decide ad affidarsi a dei medium: personaggi che truffarono, a detta dello stesso del Toro, i suoi familiari – sfruttando tecniche di manipolazione e contraffazione di vario tipo. Al regista erano rimasti impressi i “ganci” psicologici con cui i medium, in quei giorni angosciosi di prigionia, affermavano che il padre volesse parlare alla famiglia usandoli come tramite psichico, puntando sull’aspetto sentimentale e convincendo in particolare la madre del regista, molto propensa a credere a quelle storie. Ci volle un riscatto per farlo tornare a casa, convincendo la famiglia a trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti.

    Questo rappresenta uno dei leitmotiv da cui nasce la scelta di girare un film come La fiera delle illusioni, titolo evocativo quanto significativo in tal senso, che tratta una storia fictional di mentalisti che “evolvono” in medium per avidità, evidenziandone contraddizioni e trucchi psicologici utilizzati per avere la meglio su chi voleva credergli (gli stessi ganci di cui sopra in forma romanzata). La scelta del soggetto aderisce allo statuto virtualmente dichiarato in quell’intervista, e mostra un film idealmente perfetto, impeccabile come ritmo e recitazione, suggestivo, oscuro e pervaso di un costante, sarcastico humor nero. Non fosse per quel finale un po’ “telefonato”, quel contrappasso così prevedibile (del resto parliamo di un romanzo oggettivamente datato il cui spirito, evidentemente, non si poteva mutare) che non citiamo apertamente per evitare spiacevoli quanto evitabili spoiler, potremmo parlare senza indugio di uno dei dark horror più interessanti e originali degli ultimi anni.

    La storia

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley) è il lungometraggio numero undici di Guillermo Del Toro (mentre scriviamo è in post-produzione il numero dodici, che sarà – a quanto pare – un adattamento di Pinocchio di Carlo Collodi in stop motion). Il film trae il soggetto dal romanzo omonimo di William Lindsay Gresham: un romanzo che è vecchiotto di suo, come dicevamo, essendo dei primi del Novecento, ambientato durante la seconda guerra mondiale e sul quale l’effetto retrò poteva provocare un fastidioso effetto vintage, non apprezzabile da tutti. Cosa che per  fortuna non succede, tanto è abile la regia a modernizzarne la forma ed attualizzarla, nonostante il fatto che le riprese si sono dovute interrompere causa una delle prime ondate della pandemia di Covid-19.

    L’ispirazione

    Si tratta del secondo adattamento cinematografico tratto dal romanzo, dopo quello datato 1947 (firmato all’epoca dalla regia Edmund Goulding). Sembra assodato che Del Toro lo faccia partire dagli stessi presupposti di Freaks, il capolavoro oscuro e romanticheggiante di Tod Browning, senza disdegnare qualche trovata (la “donna elettrica”, ad esempio) che ad oggi fa parte dell’immaginario pop anche grazie a Freaks Out di Mainetti. I personaggi sono pochi quanto essenziali: il vecchio mentalista che non esercita più, per paura di perdere il controllo e abusare del proprio pubblico, la scaltra finta maga, la ragazza elettrica dal lato umano, l’antieroe Stan, i vari freak e personaggi da baraccone sfruttati e costretti a varie mostruosità pur di dare spettacolo (e, si dice apertamente durante il film, far sentire il pubblico migliore di loro). L’impianto scenico della regia è quello di sempre, come prevedibile dato il contesto, in bilico tra l’horror e la fiaba macabra, tanto da far pensare a più riprese alle trovate teatrali o circensi di Funhouse di Tobe Hooper o, per restare su film più recenti, le incursioni di pagliacci mostruosi modello Rob Zombi. Ma c’è anche una seconda metà del film in cui il tono si normalizza, il focus si sposta magicamente da un vecchio baraccone pieno di stranezze ad un lussuoso studio di consulenza psicologica, con una costante neve a fare da sottofondo.

    Le chiavi di lettura

    Si respira un’aria malsana, in effetti, tanto più che vediamo l’ambiguo personaggio di Stan (un Bradley Cooper monumentale, tanto da voler girare una scena di nudo senza controfigure per sua scelta) muoversi sulla scena senza presentare o far presagire nulla di sè: all’inizio, semplicemente, parla con qualcuno in un letto, poi da’ fuoco ad una casa. Che il suo personaggio sia un anti-eroe di quelli epocali è chiaro, e lo è fin da subito: con l’aria dell’uno qualunque, misterioso, col tempo si svela anche infido, arrivista e donnaiolo. Non fosse per quel look a cui manca solo la frusta per sembrare (involontariamente, s’intende) Indiana Jones ante litteram, avremmo avuto l’antieroe perfetto, ideale, immarcescibile.

    Un antieroe mentalista, peraltro, in grado di usare disivoltamente tecniche di lettura a freddo e manipolazione psicologica, facendosi passare per veggente (il libro Paranormale di Richard Wiseman, per inciso, descrive fedelmente alcuni dei trucchi che vengono svelati nel film: uno su tutti, la tecnica nota come black rainbow, che consiste nel profilare la persona a cui si sta “leggendo il futuro” attribuendogli descrizioni generiche o contraddittorie: cose che affascinano e valgono un po’ per tutti, insomma, tipo tendi ad essere socievole ma a volte preferisci stare per conto tuo). Gran parte della narrazione è incentrata sul dilemma etico di usare il mentalismo come innocuo intrattenimento oppure forzare la mano di quelle tecniche, fingersi autentici medium ed ingannare spudoratamente persone molto ricche (quanto propense alla creduloneria). Un horror drammatico che, in definitiva, è difficile da racchiudere nel genere classicamente inteso, e che è in grado di svelare i misteri e gli imbrogli da sempre utilizzati in certi ambiti. In un periodo come quello che viviamo, del resto, un’opera del genere esce con un tempismo perfetto, rischiando di diventare (quasi per forza di cose) addirittura un film politico. Il significato recondito nel film, qualora ve ne fosse solo uno, probabilmente risiede tutto in questo aspetto primario.

    Il dark mood

    I toni oscuri sono effettivamente relegati alla prima parte, perchè è la seconda ad essere sorprendente: l’apparizione della figura algida e sinistra figura della psichiatra senza scrupoli (una Cate Blanchett perfetta, mostruosamente sensuale – come già in Don’t look up – per troppo tempo associata meccanicamente ad un ruolo relativamente insipido ne Il signore degli anelli di Peter Jackson), la quale entra in combutta con il protagonista, al fine di raggirare pezzi sempre più grossi. Il tutto in nome dell’avidità, di una malintesa attrazione reciproca e in barba all’etica, il che non potrà che risolversi dentro quel giardino labirintico innevato, che non poteva che ricordare quello quasi esoterico del kubrickiano Shining. Con una perla ulteriore, peraltro: una imperdibile seduta psicologica – di scuola freudiana, presumibilmente, o comunque del periodo in cui la psicologia faceva uso fin troppo disinvolto dell’ipnosi – con cui Lilith Ritter (nomen omen) sbatte sul lettino psicoanalitico (in un’incalzante seduta, sessualmente allusiva quanto manipolativa)  il povero Stan, evidenziando le fragilità del personaggio e scoperchiando i suoi segreti. Su tutti, il suo autentico rapporto col padre, soprattutto, che sarà il vero e proprio twist del film.

    Curiosità. Nel film viene curiosamente usato il termine geek, non nel senso di “super nerd” informatico bensì dalla parola tedesca geck, ovvero letteralmente “sempliciotto” con riferimento specifico ai fenomeni da baraccone più selvaggi, sia uomini che donne. Si trattava realmente di cruenti spettacoli di freak in voga fino a inizio Novecento, che prevedevano ad esempio che staccassero sul serio la testa di animali vivi sulla scena, e che il pubblico pagasse per vederli.

  • El hoyo – Il buco è un horror concettuale molto potente

    El hoyo – Il buco è un horror concettuale molto potente

    Il film “The Platform” (noto anche come “El Hoyo” in spagnolo) è un film di genere horror / fantascienza diretto da Galder Gaztelu-Urrutia. Il film è uscito nel 2019, ed è una produzione spagnola.

    Trama / Sinossi

    Goreng accetta di farsi rinchiudere in una singolare prigione verticale, regolamentata da rigidi rapporti di gerarchia: un’unica tavola imbandita, che rimane ferma su ogni piano per pochi minuti. Chi abita ai piani superiori, di fatto, cede un’arbitraria razione di cibo a quelli dei piani successivi.

    In breve. Horror claustrofobico, simbolista e ricco di suspance, che riporta il genere alla sua dimensione più estrema.

    Recensione

    Il giurista e filosofo Jeremy Bentham, tra i padri fondatori dell’utilitarismo e del liberalismo, intorno alla fine del 1700 scrisse il Panopticon, un saggio che ideava un particolare tipo di prigione: alla base della sua progettazione vi era una sorta di “grande fratello“, insito nella struttura stessa dell’edificio, e costruito in modo tale che ogni detenuto non potesse mai sapere, di fatto, se venisse sorvegliato o meno. Sono gli stessi principi che ispireranno 1984 di Orwell, ma anche Sorvegliare e punire di Michel Foucault: tutti alla base di buona parte del sottogenere del cinema distopico ispirato alla detenzione. In questo film, come di consueto, traspare una consueta visione cupamente pessimista, del tutto estranea a qualsiasi spirito di solidarietà ed ispirata all’homo homini lupus, che poi degenera in un misticismo esistenzialista e rimette in discussione il concetto di lotta di classe.

    Un panopticon nella forma immaginata da Jeremy Bentham, ricostruito artificialmente con Midjourney

    Con questo elaboratissimo spirito di fondo, il regista Galder Gaztelu-Urrutia (classe 1974, al suo primo lungometraggio) ci proietta in una dimensione claustrofobica e surreale, con questo lavoro distribuito su Netflix e l’unico primordiale difetto di un titolo fin troppo ermetico: Il buco (El hoyo), che in inglese è stato reso fose più significativamente come The platform. Fin dall’inizio i richiami a Cube di Vincenzo Natali sono evidenti, sia a livello narrativo che architettonico: i personaggi sono in trappola, disorientati e confusi, mentre la struttura della prigione non è labirintica, bensì interamente in verticale. Emblematico, ovviamente: gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero hanno posto il focus su una struttura che dovrebbe simboleggiare quella della nostra società, fatta di rapporti di forza e gerarchie insindacabili. Rapporti di sudditanza, insomma, guerre tra poveri e ancora più poveri – che vengono resi particolarmente grotteschi e sgradevoli: fin dall’inizio è chiaro che si gioca, infatti, sulla tortura mentale e fisico-corporali di ogni detenuto, e fa davvero impressione accorgersi che ogni coppia di essi sia costretta a nutrirsi di ciò che avanza dai livelli superiori.

    “I cambiamenti non si producono mai spontaneamente”

    Mentre inizialmente scorrevano le immagini della cucina di un ristorante, ci viene ricordato che esistono tre categorie di persone: quelli che stanno sopra, quelli che stanno sotto e quelli che, invece, precipitano. Nell’idea del brillante regista, l’architettura riflette una relazione rigidamente gerarchica, in cui gli abitanti dei piani alti sottomettono quelli dei piani bassi: e a nulla vale, in tal senso, qualsiasi tentativo fatto dal protagonista (Goreng) di familiarizzare, chiedere collaborazione o solidarizzare. Piuttosto dovrà difendersi da subito da un inquietante compagno di cella, l’avido Trimagasi che pensa solo a divorare qualsiasi cosa e che, probabilmente, ha pure praticato il cannibalismo. Il parallelismo con le atmosfere exploitation modello The human centipede, a questo punto, sono lampanti: con l’unica differenza che i corpi cuciti chirurgicamente sono stati rimpiazzati da un edificio sinistro e impersonale, in cui semplicemente si agisce per la rispettiva sopravvivenza (e spesso a spese altrui).

    Perchè i personaggi sono rinchiusi nella prigione?

    Non è chiaro cosa ci facciano lì i personaggi, se non a grandi linee: ma è interessante accorgersi che si risveglieranno, in giorni differenti, in livelli apparentemente casuali, sperimentando così sia il punto di vista degli oppressi che quello degli oppressori. Ogni punto di riferimento ulteriore è stato rimosso: a differenza di un altro film analogo come The experiment (e viene in mente, per certi versi, anche l’ottimo The divide), la poetica di Galder Gaztelu-Urrutia non è troppo esplicita, e c’è ovviamente da augurarsi che ciò avvenga nelle sue prossime produzioni. Se si tratti di un test di volontari, cosa rappresenti il ristorante (se fossimo negli anni 70 non ci sarebbero dubbi: la società capitalista) non sarà del tutto chiaro, in favore di un’atmosfera sempre più lugubre, che diventa mistica sul finale. Quello che riusciamo ad intuire, per quello che vale, è che la struttura è popolata sia da volontari che da vittime, che esiste un’amministrazione (rappresentata da un’algida e sinistra signora che propone un colloquio conoscitivo al protagonista), che vengono (forse) rilasciati dei “diplomi” a chi riesce a sopravvivere e che, infine, il passaggio tra i vari piani non sembra seguire una logica meritocratica di alcun genere.

    Piani del buco come allegoria della lotta di classe

    La “lotta di classe” è un concetto chiave nella teoria marxista e in altre teorie politiche e sociologiche. Rappresenta il conflitto o la tensione sociale che sorge dalla divisione della società in classi socioeconomiche con interessi e obiettivi divergenti. Nel film in questione viene mostrata in modo sottinteso, non citata esplicitamente, ma è presente una struttura che potrebbe richiamarsi a quel ruolo, soprattuo nei termini delle disparità sociali ed economiche tra molto ricchi e molto poveri.

    Nei livelli inferiori, pertanto, si lotta nichilistamente per nulla, dato che il cibo scarseggia e perché nessuno dei detenuti, di fatto, ha razionato il cibo in precedenza: semplicemente, non c’è più niente per cui combattere. Tra un inciso cannibalico, qualche allucinazione lynchiana e l’onnipresente riferimento all’opera Don Chisciotte, si discende eroicamente fino al numero 333, facendo dedurre che il numero di carcerati, che sono due per piano, sia esattamente 666: il biblico Numero della Bestia. I casi sono due, a questo punto: che il regista abbia voluto infilare una sorta di easter egg nel suo film, oppure che il tutto abbia una valenza effettivamente mistica (come effettivamente suggerirebbero gli ultimi minuti dell’opera ed il suo finale). Questo viene legato ad una spiegazione numerologica del finale, che è abbastanza chiaro: la risalita rappresenta la redenzione, mentre gli altri, vittime o carnefici che siano, rimangono all’inferno, che viene quindi messo a fuoco con la  simbologia dantesca dei gironi.

    Sono anche dell’idea che un’ulteriore chiave di lettura possa, materialisticamente, essere quella dell’opera di Miguel de Cervantes Saavedra, i cui versi conclusivi sembrano adattarsi bene al personaggio protagonista (l’hidalgo è un nobile, per inciso).

    Giace qui l’hidalgo forte

    che i più forti superò,

    e che pure nella morte

    la sua vita trionfò.

    Fu del mondo, ad ogni tratto,

    lo spavento e la paura;

    fu per lui la gran ventura

    morir savio e viver matto

    In definitiva, quindi, un buon film, deviato piacevolmente dalla media del genere, piuttosto crudo in vari passaggi e che riesce a proporre una metafora (neanche a dirlo, sulla società in cui viviamo) piuttosto marcata. Il tutto, tanto per cambiare, senza perdersi in formalismi o pretenziosa ricercatezza.

    Spiegazione del finale

    Avviso Spoiler: La seguente risposta contiene dettagli sulla trama e sul finale del film “Il Buco” (titolo originale “El Hoyo”), quindi se non hai visto il film e non vuoi conoscere gli eventi chiave, ti consiglio di smettere di leggere qui.

    “Il Buco” è un film spagnolo del 2019, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia. Il film è noto per le sue tematiche allegoriche e il suo finale aperto, che lascia spazio a diverse interpretazioni.

    La trama del film si svolge in una prigione verticale composta da numerose celle sovrapposte. In ogni cella, due detenuti sono bloccati per un periodo di tempo determinato e, durante questo periodo, devono condividere un’enorme piattaforma di cibo che scende attraverso i livelli. Il problema è che il cibo viene preparato solo all’inizio e la quantità diminuisce man mano che la piattaforma scende verso i livelli inferiori. Quindi, i detenuti dei piani superiori possono mangiare abbondantemente, lasciando sempre meno cibo per quelli ai piani inferiori.

    Il protagonista, Goreng, cerca di sopravvivere a questa situazione disumana insieme a vari compagni di cella mentre attraversa diversi livelli della prigione. La trama del film esplora temi di disuguaglianza sociale, solidarietà e lotta per la sopravvivenza.

    Il finale del film è aperto e ambiguo. Goreng e la sua compagna di cella Baharat cercano di raggiungere il livello più basso, dove sperano di diffondere il messaggio sulla necessità di condivisione e solidarietà tra i detenuti. Alla fine raggiungono il fondo, dove trovano una bambina che sembra rappresentare la speranza per un futuro migliore.

    L’interpretazione del finale può variare. Alcuni spettatori vedono la bambina come un simbolo di speranza e la volontà di cambiamento, mentre altri vedono il finale come una sorta di circolo vizioso, in cui la lotta per la sopravvivenza continua anche nei livelli più profondi della società.

    In generale, “Il Buco” è noto per la sua natura allegorica e aperta all’interpretazione, e il suo finale lascia spazio a diverse letture sulla condizione umana, la società e la possibilità di cambiamento.

  • Natale di sangue è l’horror definitivo su Santa Claus

    Natale di sangue è l’horror definitivo su Santa Claus

    Il giovanissimo Billy Chapman, dopo aver parlato con il nonno (o aver immaginato di averlo fatto), diventa ossessionato dal lato punitivo di Babbo Natale; poco dopo, rimane traumatizzato da un killer vestito da Santa Claus, che uccide entrambi i genitori davanti ai suoi occhi. Cresce così in un orfanotrofio…

    In breve. Un classico dell’horror natalizio, uno dei migliori mai realizzati; perfetto nella storia come nei ritmi, nella regia e nei tocchi di horror ed erotismo, mai gratuiti quanto davvero traumatizzanti. Da non perdere.

    Something terroristic about Christmas: è questa una delle lettere più risentite da parte di genitori indignati che, all’uscita del film nel 1984, contestarono nei cinema questo lavoro di Charles Sellier, regista e produttore cinematografico molto prolifico, qui alle prese con uno dei più celebri film della sua sterminata produzione. Piuttosto che impedire la diffusione del film, queste polemiche contribuirono ad elevarne il livello cult. C’è da chiarire che le polemiche potevano essere giustificate all’epoca, dal punto di vista del pubblico più perbenista o bigotto; ad oggi, probabilmente, parte di quella carica sovversiva finirà forse per lasciare indifferenti. Quelle polemiche non consideravano, in ogni caso, i veri punti di forza del film, quelli che lo hanno reso a mio parere uno dei migliori mai realizzati in questo sotto-genere.

    Di Davy1509 - screenshot catturato personalmente da un'edizione in DVD del film, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4329945
    Di Davy1509 – screenshot catturato personalmente da un’edizione in DVD del film, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4329945

    Natale di sangue è una favola nera moderna, che riesce a sconvolgere il pubblico quale horror di ottima fattura, nichilista e crudele nelle sue conclusioni, in grado di turbare anche il pubblico più disilluso. Il trauma infantile diventa, in questo, non solo la scintilla da cui parte la storia, ma anche il feeling con cui si chiude l’intreccio, lasciando un senso di sospensione perfetto (oltre che terreno fertile per un sequel). Con una sorta di ciclicità innata (che infatti giustificherà almeno un seguito), i bambini restano profondamente affascinati e, al tempo stesso, turbati dalla presenza di Santa Claus, che potrebbe essere l’assassino insospettabile della porta accanto, e colpire da un momento all’altro. Questo è il sentimento che il film finisce per trasmettere, per quanto ovviamente non si tratti di un prodotto adatto a dei bambini. Vediamo Billy crescere in un mondo complicato, tra un evento che segnerà la sua vita per sempre ed un’educazione severa. La sua vita potrebbe davvero cambiare in meglio se non fosse che, lavorando in un negozio di giocattori, un bel giorno gli viene richiesto di vestirsi proprio da Babbo Natale. Cosa che il protagonista fa senza conseguenze, ma che poi innesca una paurosa reazione a catena, in grado di evocare antichi orrori vissuti in passato.

    In questo, appare chiaro l’intento rivoluzionario della pellicola: un film sostanzialmente blasfemo nei confronti della figura del classico Babbo Natale, quanto ragionato e ben congegnato, convinto della tesi che nulla sia sacro nel Natale consumistico e buonista, e che – soprattutto – un’educazione punitiva e repressiva (come quella che subisce Billy) non possa che portare a risultati nefasti. In effetti, il protagonista non si compiace di violenza gratuita giusto per fare qualcosa nella vita: la sua trasformazione in killer seriale è maturata, anzitutto da un trauma profondo (un ladruncolo vestito da Babbo Natale gli ha ucciso i genitori), si consolida con le punizioni corporali (la severità dell’orfanotrofio in cui cresce), arriva allo zenith nel momento in cui la ragazza che sogna di portarsi a letto finisce tra le braccia di un collega. Proprio questo climax, questo accumulo di elementi negativi che pongono paradossalmente Billy soggiogato al killer (un killer qualsiasi ed insignificante, non un villain: questo è forse l’aspetto più inquietante) diventa il vero punto di forza del film.

    Natale di sangue è portatore sano di horror ottantiano puro: quello fatto da un mix di erotismo (mai inutile nè volgare, sostanzialmente gradevole) e di violenza (mai gratuita, e sempre ragionata: si veda la sequenza grottesca del “regalo” del taglierino insanguinato alla bambina “buona”). A questo si aggiunga la spettacolarità di alcune sequenze, destinate a rimanere nella storia per il loro tasso di trovate originali, e per la caratterizzazione del mutamento di Billy, sempre graduale e sostanzialmente realistica quanto spaventosa. Per percepire la teatralità macabra e completamente priva di sbavature di Silent Night, Deadly Night, del resto, basterebbe sentire la voce del killer in originale, che fa sobbalzare dalla sedia urlando “Punish!” prima di ogni delitto (ovviamente evocando l’educazione repressiva che ha subito). Chiaro che il film è influenzato da Halloween (per il tema del baby-killer) e Venerdì 13 (per quello del trauma infantile), ma possiede nel proprio DNA una originalità che lo fa spiccare, soprattutto rispetto ad una sovrabbondanza di epigoni natalizi a volte insulsi, e non sempre significativi.

    Natale di sangue è un film Horror con la “H” bene in vista, che potrà certamente piacere o meno – ma che sicuramente resta un ottimo lavoro, ben girato ed interpretato, la cui tesi di fondo è che non esiste nulla di sacro, e che bisognerebbe sempre dialogare coi bambini facendo in modo che la loro scala di valori non vada a corrompersi senza che se ne accorgano. In definitiva, uno dei migliori horror natalizi mai realizzati, con la giusta dose di tutte le componenti e perfettamente equilibrato nella resa visiva. Certo il pubblico più puritano in fatto di tradizioni natalizie farebbe bene a restarne alla larga, ma tutti i veri appassionati di horror possono accomodarsi, e gustarselo appieno. Non troppo reperibile in italiano sul mercato dei DVD, esiste una certa confusione tra una marea di titoli simili: questo film circola col titolo originale Silent Night, Deadly Night, ma non è Silent Night, Bloody Night (che è pure un buon horror natalizio, ma non è quello di cui parliamo); non si tratta neanche di Christmas Evil – Un Natale macchiato di sangue, bensì si può trovare su Amazon in lingua inglese (abbastanza comprensibile se masticate la lingua).

  • Terrifier è un vero incubo

    Terrifier è un vero incubo

    Terrifier di Damien Leone vorrebbe richiamarsi alla gloriosa tradizione horror slasher anni Ottanta e Novanta, la stessa che annovera Halloween, Venerdì 13 e via dicendo. Un genere che non da’ molto respiro narrativo e che difficilmente si discosta dal canone (amicizie, amori, sessualità, villain che irrompe a simboleggiare i sensi di colpa di chiunque); un genere che imporrebbe, quasi ontologicamente, una qualche variazione sul tema, perchè proporre le cose come al solito lo farebbe decadere nella stereotipìa. Del resto non sarebbe cinema di genere se non proponesse situazioni già viste e riviste, cosa che questo primo episodio del regista classe 1982 Damien Leone (il primo di una saga che conta tre episodi, l’ultimo dei quali – Terrifier 3 – è uscito nel 2024) fa in maniera a suo modo encomiabile, per quanto il lavoro soffra di un’approssimazione ineludibile sulla trama.

    Terrifier inizia su un canale sintonizzato che intervista una ragazza in un canonico salotto TV, in cui scopriremo che la stessa è stata orrendamente sfigurata ed è sopravvissuta ad un serial killer. Neanche il tempo di familiarizzare col mood che vediamo subito l’assassino in azione, che sembra avvenire in una città qualsiasi, forse nel giorno di Halloween, in un quartiere di cui non sappiamo nulla e per cui intuiamo essere negli Statu Uniti.

    Se è vero che la trama articolata di uno slasher è un qualcosa che per i fan conta poco o nulla, non può a una critica poco più che grossolana perchè, di fatto, è proprio la narrazione di Terrifier a non funzionare. Al netto delle efferatezze mostrare, della fantasia nel proporle e della mancanza di scrupoli nel far vedere tutto da vicino allo spettatore, le cose accadono perchè è necessario che avvenga. Detta diversamente manca il contesto, manca lo scenario, per quanto non si lesini sul senso di colpa e sul non detto (come già in altri epigoni slasher, il clown che uccide simboleggia il senso di colpa delle vittime, ma anche l’oscurità d’animo di chi cova odio e violenza per motivi che la società non conosce, non può o non riesce a vedere). Non si tratta del resto di un horror sociologico perchè manca totalmente l’aspetto dialogico e narrativo, e gran parte dei personaggi risultano più che altro irritanti nelle proprie certezze. Impossibile non notare, ovviamente, le assonanze tra questo Art The Clown e Pennywise di IT, che colpiva solo i bambini e che almeno era arricchito dalla prosa ineguagliabile di King, qui del tutto assente – al punto che viene il sospetto che i clown killer abbiano un po’ stancato.

    Art the Clown, l’assassino protagonista uccide senza ritualistica e senza suggestione, spesso sfigurando le vittime, e viene presentato come assodato, pronto all’uso, pre-marketizzato: è il killer nascosto che tutti abbiamo già visto, cugino dei reali serial killer della storia, nipote di Freddy Krueger (dato che predilige vittime giovani), discendente di qualsiasi assassino misogino sia stato inventato dal cinema.

    I dialoghi di questo primo Terrifier sono banalotti, poco incisivi, scarsamente coinvolgenti, al netto di ciò che viene mostrato a livello di gore: ci sono sangue, assassinii che evocano grotteschi rituali, amputazioni e decapitazioni come tradizione splatter impone, per il resto poco altro. La trama appare telefonata, piatta, prevedibile, del tutto priva di una qualche introspezione, al punto di rappresentare personaggi monocordi, ossessionati dall’aspetto sessuale e in cui i personaggi femminili sono quasi esclusivamente frivoli, impeccabili e per forza sensuali. Il sottotesto ipotizzato da Carol J. Clover a inizio anni Novanta non è cambiato: questi film mantengono, forse non sempre volontariamente, una potenzile chiave di lettura femminista, che si esplica nella vittimizzazione dogmatica della donna, nella rappresentazione del villain che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo, senza una ragione che non sia ricondubile ad un universo lovecraftiano, irrazionale, o – se vogliamo leggerla con le lenti critiche di oggi – intriso di cultura maschilista, profondo legame nei confronti dei ruoli e quant’altro. Art the Clown avrebbe potuto essere il patriarca grottesco che uccide senza motivo e senza dover rendere conto di ciò che fa, ma Terrifier resta un prodotto per niente politico e poco avvezzo a letture del genere.

    Comunque stiano le cose – e sarà la sensibilità del pubblico a deciderlo – Terrifier è un onesto tentativo di rendere la realtà che viviamo più splatter e orribile di quanto non sia, e rimane lontano dallo status di cult e memorabilità che ha reso celebri i film di cui sopra. Al punto che si guarda a fatica, ci si distrae facilmente – al netto delle espressioni grottesche di Art the Clown, il cui interprete (David Howard Thornton) ha studiato mimo e da’ quasi la sensazione di potersi materializzare alle spalle dello spettatore, e rimane l’unico vero motivo per guardare il film almeno una volta nella vita.

    Cosa per cui l’horrorofilo navigato riporrà ogni speranza di vedere una svolta, un qualcosa che non si limiti a brutalizzare corpi, a mostrare sangue, a inventarsi l’ennesimo sadismo ostentato che, di suo, lascia poco o nulla. Paradossalmente i tre cortometraggi a cui si ispira il film – contenuti in All Hallows Eyes – riuscivano a rendere meglio l’idea, soprattutto per il taglio da mockumentary che li rendeva accattivanti, senza contare per quel tocco autoironico che caratterizzava il clown, in misura leggermente superiore a quanto avvenga in Terrifier.

    Un film che strizza l’occhio ai blockbuster dell’orrore, riuscendo solo in parte nell’impresa, a nostro avviso, e limitandosi a costruire una valanga di riferimenti al mondo dell’Altro che, alla lunga, rendono il film vuotamente enciclopedico, al netto del buon Art the Clown: un villain come se ne sono visti tanti, che probabilmente occuperà il proprio posto infernale nella storia del genere, che magari tra qualche anno sarà riesumato e riscoperto, ma che appare qui troppo ovattato e prevedibile per potersi ricordare.

  • The Turning: trama, cast, spiegazione finale

    The Turning: trama, cast, spiegazione finale

    The Turning” è un film horror del 2020 diretto da Floria Sigismondi. È basato sul racconto “The Turn of the Screw” di Henry James, pubblicato per la prima volta nel 1898.

    Sinossi

    La trama segue una giovane donna di nome Kate Mandell (interpretata da Mackenzie Davis) che viene assunta come governante per due bambini, Flora e Miles (interpretati rispettivamente da Brooklynn Prince e Finn Wolfhard), in una grande e isolata tenuta nel Maine. Tuttavia, ben presto Kate inizia a sperimentare eventi inquietanti e a percepire presenze soprannaturali nella casa, mettendo in dubbio la sua sanità mentale e la sicurezza dei bambini che le sono stati affidati. Il film è noto per il suo finale controverso e aperto all’interpretazione.

    Spiegazione del finale del film

    Nel finale di “The Turning”, la protagonista Kate Mandell (interpretata da Mackenzie Davis) si trova di fronte a una situazione inquietante e drammatica che coinvolge i bambini Flora e Miles, oltre ad altri eventi soprannaturali nella casa. Tuttavia, il film termina con un’ultima scena ambigua e aperta all’interpretazione, senza fornire una risposta definitiva alle domande sollevate durante la trama. La conclusione lascia molte questioni senza risposta, consentendo agli spettatori di formulare le proprie ipotesi e di interpretare il significato del finale in modo soggettivo.

    Cast

    1. Mackenzie Davis – interpreta il ruolo di Kate Mandell, la giovane donna che diventa governante dei bambini nella casa isolata.
    2. Finn Wolfhard – interpreta il ruolo di Miles, uno dei bambini affidati a Kate.
    3. Brooklynn Prince – interpreta il ruolo di Flora, l’altro bambino affidato a Kate.
    4. Barbara Marten – interpreta il ruolo di Mrs. Grose, la governante della casa.
    5. Joely Richardson – interpreta il ruolo di Mrs. Grose, la madre dei bambini.

    Nel film Joely Richardson (Darla Mandell) è il quarto membro della sua famiglia a comparire in un’adattamento della novella horror del 1898 “The Turn of the Screw” di Henry James. Suo nonno Michael Redgrave ha interpretato lo Zio in Suspense (1961), sua zia Lynn Redgrave ha interpretato la governante Miss Jane Cubberly in The Turn of the Screw (1974) e suo zio Corin Redgrave ha interpretato il Professore in The Turn of the Screw (2009).

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    Libro

    The Turn of the Screw” è un romanzo breve scritto da Henry James e pubblicato per la prima volta nel 1898. È considerato uno dei capolavori del genere horror psicologico e della letteratura gotica. Il romanzo è ambientato in una grande e isolata tenuta di campagna in Inghilterra durante il XIX secolo.

    La trama ruota attorno a una giovane governante che viene assunta per prendersi cura di due bambini, Miles e Flora, dopo la morte dei loro genitori. Tuttavia, la nuova governante inizia a sperimentare eventi inquietanti e a percepire la presenza di presenze soprannaturali nella casa. In particolare, la governante sospetta che i bambini siano influenzati da due spettri, Peter Quint, il precedente guardiano, e Miss Jessel, la precedente governante, entrambi deceduti in circostanze misteriose.