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  • Terrifier è un vero incubo

    Terrifier è un vero incubo

    Terrifier di Damien Leone vorrebbe richiamarsi alla gloriosa tradizione horror slasher anni Ottanta e Novanta, la stessa che annovera Halloween, Venerdì 13 e via dicendo. Un genere che non da’ molto respiro narrativo e che difficilmente si discosta dal canone (amicizie, amori, sessualità, villain che irrompe a simboleggiare i sensi di colpa di chiunque); un genere che imporrebbe, quasi ontologicamente, una qualche variazione sul tema, perchè proporre le cose come al solito lo farebbe decadere nella stereotipìa. Del resto non sarebbe cinema di genere se non proponesse situazioni già viste e riviste, cosa che questo primo episodio del regista classe 1982 Damien Leone (il primo di una saga che conta tre episodi, l’ultimo dei quali – Terrifier 3 – è uscito nel 2024) fa in maniera a suo modo encomiabile, per quanto il lavoro soffra di un’approssimazione ineludibile sulla trama.

    Terrifier inizia su un canale sintonizzato che intervista una ragazza in un canonico salotto TV, in cui scopriremo che la stessa è stata orrendamente sfigurata ed è sopravvissuta ad un serial killer. Neanche il tempo di familiarizzare col mood che vediamo subito l’assassino in azione, che sembra avvenire in una città qualsiasi, forse nel giorno di Halloween, in un quartiere di cui non sappiamo nulla e per cui intuiamo essere negli Statu Uniti.

    Se è vero che la trama articolata di uno slasher è un qualcosa che per i fan conta poco o nulla, non può a una critica poco più che grossolana perchè, di fatto, è proprio la narrazione di Terrifier a non funzionare. Al netto delle efferatezze mostrare, della fantasia nel proporle e della mancanza di scrupoli nel far vedere tutto da vicino allo spettatore, le cose accadono perchè è necessario che avvenga. Detta diversamente manca il contesto, manca lo scenario, per quanto non si lesini sul senso di colpa e sul non detto (come già in altri epigoni slasher, il clown che uccide simboleggia il senso di colpa delle vittime, ma anche l’oscurità d’animo di chi cova odio e violenza per motivi che la società non conosce, non può o non riesce a vedere). Non si tratta del resto di un horror sociologico perchè manca totalmente l’aspetto dialogico e narrativo, e gran parte dei personaggi risultano più che altro irritanti nelle proprie certezze. Impossibile non notare, ovviamente, le assonanze tra questo Art The Clown e Pennywise di IT, che colpiva solo i bambini e che almeno era arricchito dalla prosa ineguagliabile di King, qui del tutto assente – al punto che viene il sospetto che i clown killer abbiano un po’ stancato.

    Art the Clown, l’assassino protagonista uccide senza ritualistica e senza suggestione, spesso sfigurando le vittime, e viene presentato come assodato, pronto all’uso, pre-marketizzato: è il killer nascosto che tutti abbiamo già visto, cugino dei reali serial killer della storia, nipote di Freddy Krueger (dato che predilige vittime giovani), discendente di qualsiasi assassino misogino sia stato inventato dal cinema.

    I dialoghi di questo primo Terrifier sono banalotti, poco incisivi, scarsamente coinvolgenti, al netto di ciò che viene mostrato a livello di gore: ci sono sangue, assassinii che evocano grotteschi rituali, amputazioni e decapitazioni come tradizione splatter impone, per il resto poco altro. La trama appare telefonata, piatta, prevedibile, del tutto priva di una qualche introspezione, al punto di rappresentare personaggi monocordi, ossessionati dall’aspetto sessuale e in cui i personaggi femminili sono quasi esclusivamente frivoli, impeccabili e per forza sensuali. Il sottotesto ipotizzato da Carol J. Clover a inizio anni Novanta non è cambiato: questi film mantengono, forse non sempre volontariamente, una potenzile chiave di lettura femminista, che si esplica nella vittimizzazione dogmatica della donna, nella rappresentazione del villain che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo, senza una ragione che non sia ricondubile ad un universo lovecraftiano, irrazionale, o – se vogliamo leggerla con le lenti critiche di oggi – intriso di cultura maschilista, profondo legame nei confronti dei ruoli e quant’altro. Art the Clown avrebbe potuto essere il patriarca grottesco che uccide senza motivo e senza dover rendere conto di ciò che fa, ma Terrifier resta un prodotto per niente politico e poco avvezzo a letture del genere.

    Comunque stiano le cose – e sarà la sensibilità del pubblico a deciderlo – Terrifier è un onesto tentativo di rendere la realtà che viviamo più splatter e orribile di quanto non sia, e rimane lontano dallo status di cult e memorabilità che ha reso celebri i film di cui sopra. Al punto che si guarda a fatica, ci si distrae facilmente – al netto delle espressioni grottesche di Art the Clown, il cui interprete (David Howard Thornton) ha studiato mimo e da’ quasi la sensazione di potersi materializzare alle spalle dello spettatore, e rimane l’unico vero motivo per guardare il film almeno una volta nella vita.

    Cosa per cui l’horrorofilo navigato riporrà ogni speranza di vedere una svolta, un qualcosa che non si limiti a brutalizzare corpi, a mostrare sangue, a inventarsi l’ennesimo sadismo ostentato che, di suo, lascia poco o nulla. Paradossalmente i tre cortometraggi a cui si ispira il film – contenuti in All Hallows Eyes – riuscivano a rendere meglio l’idea, soprattutto per il taglio da mockumentary che li rendeva accattivanti, senza contare per quel tocco autoironico che caratterizzava il clown, in misura leggermente superiore a quanto avvenga in Terrifier.

    Un film che strizza l’occhio ai blockbuster dell’orrore, riuscendo solo in parte nell’impresa, a nostro avviso, e limitandosi a costruire una valanga di riferimenti al mondo dell’Altro che, alla lunga, rendono il film vuotamente enciclopedico, al netto del buon Art the Clown: un villain come se ne sono visti tanti, che probabilmente occuperà il proprio posto infernale nella storia del genere, che magari tra qualche anno sarà riesumato e riscoperto, ma che appare qui troppo ovattato e prevedibile per potersi ricordare.

  • The Turning: trama, cast, spiegazione finale

    The Turning: trama, cast, spiegazione finale

    The Turning” è un film horror del 2020 diretto da Floria Sigismondi. È basato sul racconto “The Turn of the Screw” di Henry James, pubblicato per la prima volta nel 1898.

    Sinossi

    La trama segue una giovane donna di nome Kate Mandell (interpretata da Mackenzie Davis) che viene assunta come governante per due bambini, Flora e Miles (interpretati rispettivamente da Brooklynn Prince e Finn Wolfhard), in una grande e isolata tenuta nel Maine. Tuttavia, ben presto Kate inizia a sperimentare eventi inquietanti e a percepire presenze soprannaturali nella casa, mettendo in dubbio la sua sanità mentale e la sicurezza dei bambini che le sono stati affidati. Il film è noto per il suo finale controverso e aperto all’interpretazione.

    Spiegazione del finale del film

    Nel finale di “The Turning”, la protagonista Kate Mandell (interpretata da Mackenzie Davis) si trova di fronte a una situazione inquietante e drammatica che coinvolge i bambini Flora e Miles, oltre ad altri eventi soprannaturali nella casa. Tuttavia, il film termina con un’ultima scena ambigua e aperta all’interpretazione, senza fornire una risposta definitiva alle domande sollevate durante la trama. La conclusione lascia molte questioni senza risposta, consentendo agli spettatori di formulare le proprie ipotesi e di interpretare il significato del finale in modo soggettivo.

    Cast

    1. Mackenzie Davis – interpreta il ruolo di Kate Mandell, la giovane donna che diventa governante dei bambini nella casa isolata.
    2. Finn Wolfhard – interpreta il ruolo di Miles, uno dei bambini affidati a Kate.
    3. Brooklynn Prince – interpreta il ruolo di Flora, l’altro bambino affidato a Kate.
    4. Barbara Marten – interpreta il ruolo di Mrs. Grose, la governante della casa.
    5. Joely Richardson – interpreta il ruolo di Mrs. Grose, la madre dei bambini.

    Nel film Joely Richardson (Darla Mandell) è il quarto membro della sua famiglia a comparire in un’adattamento della novella horror del 1898 “The Turn of the Screw” di Henry James. Suo nonno Michael Redgrave ha interpretato lo Zio in Suspense (1961), sua zia Lynn Redgrave ha interpretato la governante Miss Jane Cubberly in The Turn of the Screw (1974) e suo zio Corin Redgrave ha interpretato il Professore in The Turn of the Screw (2009).

    Galleria foto (credits: imdb)

    Libro

    The Turn of the Screw” è un romanzo breve scritto da Henry James e pubblicato per la prima volta nel 1898. È considerato uno dei capolavori del genere horror psicologico e della letteratura gotica. Il romanzo è ambientato in una grande e isolata tenuta di campagna in Inghilterra durante il XIX secolo.

    La trama ruota attorno a una giovane governante che viene assunta per prendersi cura di due bambini, Miles e Flora, dopo la morte dei loro genitori. Tuttavia, la nuova governante inizia a sperimentare eventi inquietanti e a percepire la presenza di presenze soprannaturali nella casa. In particolare, la governante sospetta che i bambini siano influenzati da due spettri, Peter Quint, il precedente guardiano, e Miss Jessel, la precedente governante, entrambi deceduti in circostanze misteriose.

  • L’Uomo della Sabbia: Hoffmann Rivisitato da Giulio Questi

    L’Uomo della Sabbia: Hoffmann Rivisitato da Giulio Questi

    Metà dell’Ottocento: Nataniele (interpretato da Donato Placido) sta per sposare Clara (Francesca Muzio); il film ha inizio con una confessione che riguarda l’infanzia del protagonista, che avviene in presenza del fratello di lei Lotario (Saverio Vallone). Si parla del padre, di un incidente durante un esperimento e della sua passione insana per l’alchimia: il tuto in collaborazione con un inquietante scienzato, sedicente fisico, di nome Coppelius (Mario Feliciani).

    Sinossi del film

    Nataniele sembra cresciuto con l’idea, apparentemente assurda, che Coppelius fosse letteralmente Il Mago Sabbiolino, un personaggio mitologico le cui storie terrificanti lo fanno sentire minacciato fin da bambino. Di suo, Nataniele è l’eroe romantico dal cuore puro per eccellenza: vive nell’idealizzazione dell’amore e rifiuta il razionalismo che invece caratterizza il futuro cognato. Epica, quasi ai livelli della scazzottata interminabile di Essi vivono, il duello tra i due uomini in cui, nel bel mezzo del combattimento, espongono ferocemente i reciproci punti di vista in materia di scienza e filosofia (!).

    Del resto guardare non costa niente…

    Se l’effetto di queste prime sequenze potrebbe risultare un po’ goffo, tutto sommato, non va dimenticato che il film è fortemente contestualizzato nel periodo in cui è ambientato il racconto: racconto da cui è impossibile prescindere, in quanto relativamente fedele all’originale di Hoffmann e considerato, a ragione, uno dei capolavori della letteratura fantastica di ogni tempo.

    La regia di Questi (che tutti ricorderanno quantomeno per Se sei vivo spara) è ben strutturata e solida, oltre che – per contesto e mezzi in ballo, relativamente modesti per essere un film di inizio anni ottanta – abbastanza convincente, per quanto il lavoro sia pur sempre girato nel formato dello sceneggiato TV, al limite un po’ fuori dalle righe, e il lavoro sia stato quasi certamente ridoppiato in seguito.

    Non si spiega, se non così, una certa rigidità nei dialoghi, che costringono lo spettatore ad adeguarsi al ritmo che, per la verità, non parte esattamente con lo sprint che ci si potrebbe attendere. E dire che si tratta di uno dei racconti più emblematici di Hoffman, un proto-Frankenstein che ha scomodato l’analisi psicoanalitica della trama da parte di Sigmund Freud.

    Tra occultismo e psicoanalisi

    Nella narrativa de L’uomo della sabbia vi sono vari elementi di rilievo che si barcamenano tra l’occultismo e le tecniche psicoanalitiche, all’epoca neanche pienamente sviluppate: da un lato c’è l’ossessione del protagonista per una conoscenza che non sia solo rigidità, nozionismo e sperimentazione, ma che possa arrivare qualcosa in più anche a costo di ricorrere all’occultismo e all’alchimia. Questo punto di vista gli provoca incomprensione da parte della futura sposa e del fratello di lei, che guardano con sospetto le sue posizioni fino ad allontarlo da casa.

    Se l’alchimia, del resto, era pur sempre considerata scienza all’epoca, l’occultismo sarebbe quasi interpretabile come una proto-psicoanalisi: questo appare plausibile nella misura in cui la conoscenza di ciò che è nascosto potrebbe, in effetti, fare riferimento all’inconscio del protagonista, al suo scavare alla ricerca di un rimosso – tanto più che il racconto inizia con un ricordo d’infanzia, confuso e traumatizzante, che verrà via via ricostruito dalla memoria e dalla coscienza del protagonista.

    Occhi, amore, ossessione

    L’uomo di sabbia da’ una grande importanza allo sguardo ed alle conseguenze dello stesso: lo fa mediante gli occhi, l’organo adibito alla vista che, mediante un cannocchiale che Coppelius rifilerà a Nataniele, viene sfruttata per soddisfare una forma di parafilia o voyeurismo. Il protagonista intravede una figura algida e molto avvenente dalla finestra di fronte, e il cannocchiale gli serve per innamorarsene definitivamente. È qui che il film prende la sua svolta e costruisce un climax sempre più intenso, che è accompagnato dal sentimento di perturbanza di cui parlava Freud: un senso di straniamento, di disorientamento accompagnato dal desiderio di saperne di più, che avvinghia lo spettatore, il quale non capisce bene cosa non vada. Una sorta di “doppio” del protagonista, che nel frattempo è completamente invaghito della ragazza che scorgeva dalla finestra: è una cantante, apparentemente figlia di un fisico (Spalanzani, interpretato da Ferruccio de Ceresa), di nome Olimpia.

    La scena probabilmente più bella del film è quella del ballo: Nataniele, ormai innamorato di Olimpia, le propone di ballare. La donna accetta, ma i suoi movimenti sono meccanici, quasi innaturali, freddi e determinati da una rigidità di fondo. Al tempo stesso la coppia non perde un colpo nella danza, e Olimpia sfoggia una cultura incantevole – il che alimenta l’invaghimento del romantico protagonista. La regia propone l’alternanza dei commenti degli altri partecipanti alla festa (che malignano su Olimpia – per quanto, sostanzialmente, abbiano ragione a rilevare qualcosa di strano in lei: è un automa meccanico con parvenza di donna) e il dialogo idealizzato ed ipnotizzante dell’incontro in corso. Secondo Freud, si definisce (il) “perturbante” (uncanny in inglese) l’esperienza psicologica di provare qualcosa che abbia un carattere misterioso o spaventoso, con l’aggiunta di una sorta di familiarità nell’esperienza. In tedesco Freud usa il termine un-heimlich (raccapricciante, una sorta di archetipo dell’orrore) alternato con heimlich (segretamente, ma anche pacificamente, intimamente), due termini che riferiscono la stessa semantica in coppia, e che sono tipici di alcune perversioni sessuali, specie quelle legate a parafilie e sado-masochismo.

    Il tema dell’illusione amorosa è stato sviscerato dal cinema non solo di genere, e per quanto l’idea di un robot o automa non sia nuova è chiaro che è il modello narrativo ad essere fortemente debitore verso chiunque (viene in mente Blade Runner e la controversa storia con il replicante da parte di Deckard, ulteriormenete complicata dal dilemma esistenziale, mai risolto, che non sia anche lui un “lavoro in pelle”; ma andrebbe citato anche quel piccolo capolavoro che è ancora oggi L’invenzione di Morel). L’intuizione di Hoffmann, se servisse specificato, è stata quella di raffigurare La tragedia psicologica a tutti gli effetti: non solo perchè Nataniele si innamorerà perdutamente di un automa, incapace di ricambiare il sentimento sia fisicamente che interioremente, ma anche perchè la scoperta della sua natura proto-robotica sarà causa della sua follia.

    Follia da cui, inspiegabilmente, sembrerà guarire (sembra quasi di immaginare Freud offrirsi di psicoanalizzare e far guarire il ragazzo), tornando al suo vecchio amore, ma poi rievocando il trauma grazie allo strumento che glielo aveva provocato la prima volta, ovvero il cannocchiale (perturbante, evidentemente!). L’uomo di sabbia è probabilmente più efficace in forma scritta che in qualsiasi lavoro cinematografico, ma gli va comunque riconosciuto il suo carattere seminale, in grado di influenzare qualsiasi film con twist finale degno di questo nome, da Shutter Island a Dario Argento o Mario Bava, passando per il thriller psicologico anni novanta – e chi più ne ha, ne metta.

    L’uomo della sabbia di Giulio Questi è un adattamento del racconto The Sandman di E.T.A. Hoffmann, ed è stato l’episodio di apertura della serie TV, suddivisa in 6 parti, dal nome “I giochi del diavolo“, che presentava storie dell’orrore ambientate nel XIX secolo.

    La serie è stata trasmessa per la prima volta da Rai Uno nel 1981.

    Dove vedere il film

    È possibile vedere in streaming gratuito L’uomo della sabbia su RaiPlay.

    REGIA: Giulio Questi
    SOGGETTO: E.T.A. Hoffmann
    MUSICHE: Luis Bacalov
    Anno: 1981

  • Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    I FOO FIGHTERS si trasferiscono in una villa di Encino per provare a registrare il loro decimo album: la mancanza di ispirazione si tramuterà in una storia macabra dai toni splatter.

    Arriva in Italia il 23 giugno 2022 (e resta nelle sale fino al 29) il nuovo film scritto da Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Studio 666: un horror splatter dai toni ironici che racconta in chiave autobiografica la registrazione dell’album . Girato nel periodo più lungo della pandemia di Covid-19 per compensare alla mancanza di un tour, è un film dai toni celebrativi e autoironici pensato e concepito per i fan della band e per chiunque conosca la carriera dell’attivissimo musicista. Sebbene con diversi spunti riusciti, si lascia dimenticare appena qualche istante dopo l’uscita dalla sala, dando la sensazione di essere stato un intenso videoclip dell’orrore, o poco più.

    Abbiamo di fronte una comedy horror modello The babysitter, questa almeno è la sensazione che si avverte dalle prime sequenze, costellate di cameo che sembrano voler alleggerire il carico da horror serioso che, in modo nemmeno troppo velato, Studio 666 vorrebbe assumere in seguito. Il problema principale del film risiede proprio in questa ambivalenza di fondo: da un lato è un horror demenziale come miriadi ne sono usciti, dall’altro sembra voler diventare il racconto dei tormenti interiori di Grohl (cosa che ci poteva stare, ed avrebbe forse sorpreso più in positivo se fosse stata mantenuta come linea: una rockstar che medita inconsciamente di uccidere la propria band non era malvagia, come idea, tanto più se girata modello primo Peter Jackson). Di fatto, Studio 666  degenera nello splatter horror fine a se stesso, un po’ come da media delle produzioni USA un po’ modello Troma, con ritmi incalzanti, dialoghi essenziali, gore a non finire, qualche sprazzo surreale modello Nightmare ma soprattutto dimenticando per strada quello che stava raccontando.

    Un film in cui, in altri termini, le esagerazioni sono all’ordine del giorno e prefigurato il must, la necessità; per quanto i mezzi visuali siano superiori alla media, durante la visione ci si sente più che altro barcamenati da una narrazione incerta, difficile da decodificare. Si guarda il film, si ride o si sorride o si resta indifferenti (dipende dai casi), e non si è mai sicuri se sia un horror o una commedia, se il tono sia introspettivo o retrospettivo, se sia uno scherzo o se si faccia sul serio. Studio 666 è tutt’altro che noioso, per la verità, anzi vive di momenti autenticamente divertenti o intensi; tuttavia non assume mai un feeling chiaro, sembra dilatato all’infinito per quanto racconti una storia horror già vista mille volte (il che diventa l’ultimo dei problemi, ovviamente). Se non altro vedere i Foo Fighters suonare un pezzo doom di quasi un’ora, quasi tipo Sunn O))), rimane al netto di tutto un’esperienza suggestiva per qualsiasi fan del genere (e anche qui, solo per lui).

    Il tutto per quanto sia girato in maniera impeccabile, da horror vecchia scuola, di quelli fatti bene-bene: la primissima sequenza lo dimostra, così come i vari omicidi con le pugnalate modello Dario Argento, i demoni dagli occhi rossi alla Lamberto Bava(o anche The fog), le reminiscenze inequivocabili di Sam Raimi, la citazione de L’esorcista e i richiami al John Carpenter anni 80 e 90, regista che firma assieme al figlio Cody la colonna sonora del film. Anche i Foo Fighters come interpreti di se stessi sono ben caratterizzati, ma latita un po’ troppo il piano narrativo per poter apprezzare appieno l’idea.

    Probabilmente ha ragione Peter Bradshaw sul Guardian a scrivere che il film conferma una certa tendenza della horror comedy nel non saper essere nè spaventosa nè propriamente divertente, per quanto si lasci un po’ prendere la mano dalla critica definendo addirittura “sconcertante” che una commedia (o presunta tale) prenda ispirazione da fatti violenti avvenuti negli anni 90 (è plausibile che nel dirlo ritenga reale l’assunto della band maledetta, il che immagino farebbe molto ridere Grohl e il regista). In realtà che si crei una urban legend o un dubbio sulla realtà dei fatti raccontati fa parte delle ordinarie dinamiche degli horror moderni “fuori dalle righe”, almeno dai tempi di Cannibal Holocaust, ma questo – più che altro – è mera ordinarietà da un punto di vista filologico, e vale per tutti gli horror seriosi o finto-snuff, non certo per un film che, tra le altre cose, strizza l’occhio a lavori come Tenaciuos D di Liam Lynch (pur senza le stesse musiche spettacolari).

    È stato sicuramente divertente per la band auto-interpretarsi o immaginarsi calati all’interno di una trama horror anni ottanta che più topica non si potrebbe, ma il dubbio di fondo è che sia un film più divertito che divertente, che il modo narrativo non sia troppo intellegibile per il pubblico a cui è rivolto il film, che non è affatto scontato (specialmente negli ultimi anni) essere cultore dei cult del genere. Ed il rischio è quello di non cogliere, annoiarsi, rimanere perplessi, senza contare che tante sequenze risultano fiacche se non sai con precisione che quello che interpreta il fonico folgorato è il chitarrista degli Slayer (Kerry King), oppure che la vicina di casa della band è una delle più famose e dissacranti stand up comedian americane (Witney Cummings). Insomma, siamo sempre lì: Studio 666 non ha un’identità chiara e per quanto sia un film divertente (specie da vedere tra metallari) rischia di farsi dimenticare con la stessa frenesia con cui lo si guarda.

    La storia di Grohl, per altri versi è un archetipo horror a tutti gli effetti, che sembra estratto materialmente e con decisione dagli anni 80: la scenaggiatura viene affidata a Jeff Buhler e Rebecca Hughes, per cui il primo contribuisce alle note più horror mentre la seconda alle situazioni umoristiche. La componente splatter tende un po’ a strabordare e, di fatto, oscura quasi del tutto quella ironica, nonostante la presenza  di due interpreti molto popolari della stand up comedian (forse non troppo noti in Italia, ovvero Jeff Garlin e la Cummings). A poco servono gli stessi cameo musicali: Kerry King degli Slayer nella parte di un fonico maldestro, Lionel Ritchie che accusa grottescamente Grohl di plagio durante una scena onirica (forse una delle più riuscite del film), lo stesso John Carpenter (accompagnato dall’attore che ha interpretato la trilogia di video più recenti degli Slayer, ovvero Jason Trost e la benda sull’occhio che porta anche nella vita di ogni giorno, un po’ Frigga/Madeleine un po’ “Jena” Snake Plissken) che non poteva che interpretare il fonico incaricato di registrare la musica della band.

    L’unica certezza ed autentica nota positiva del film è la regia di BJ McDonnell, solida, sicura del fatto suo e ricca di omaggi agli horror amati da tutti: La casa, Venerdì 13 e compagnia. La prova attoriale dei Foo Fighters è inaspettatamente convincente, soprattutto quella di Grohl nell’interpretare l’archetipico personaggio kinghiano dalla personalità multipla. Studio 666 è imbevuto di atmosfere horror anni 80 fino all’eccesso, in una misura da risultare quasi stucchevole anche per il fan più sfegatato. Al netto di questo rimane un film gradevole quanto, alla fine dei conti, solo per fan della band e forse nemmeno per tutti, oltre che rivolto a qualsiasi fan del rock con un minimo sindacale di senso dell’umorismo. Con la nota a margine che potrebbe, nonostante le aspettative elevate, restare un po’ deluso dalla visione.

    Il film vede l’ultima partecipazione da attore del batterista Taylor Hawkins, scomparso nel marzo 2022 durante il tour della band a Bogotà.

    Studio 666 potrebbe essere a breve disponibile in streaming su Prime Video, per quanto ad oggi non sia ancora visionabile e l’Italia non rientri tra i paesi in cui c’è. Il disco contiene brani della band maledette (e fictional) DREAM WINDOW, che è stato anche pubblicato come LP completo su Spotify. Studio 666 è anche il nome di un misconosciuto horror indipendente del 2005, firmato dall’attore e produttore Corbin Timbrook, con cui non dovrebbe avere nulla a che fare.

  • The Northman: Il Dramma Rituale dell’Ultima Era Vichinga

    The Northman: Il Dramma Rituale dell’Ultima Era Vichinga

    La storia mitologica del giovane principe vichingo Amleth, in cerca di vendetta dopo l’omicidio del padre.

    In breve. Eggers dirige col consueto stile visionario, dimostrando di essere totalmente maturo, originale e pronto ad affiancarsi a nomi dei registi che contano, e conteranno molto, di qui agli anni a venire. The Northman è un poema epico vivido e ricco di simbolismi, che lascia il pubblico senza fiato.

    L’assonanza di The Northman con l’Amleto shakespeariano dovrebbe apparire in modo lampante fin dai primi minuti di visione, per quanto Eggers abbia operato in modo filologico: è risalito infatti ad un’opera originale di Saxo Grammaticus, la stessa da cui Il Bardo trasse uno dei propri capolavori, nel primo caso con un’ambientazione norrena o vichinga. Non, quindi, una versione norrena dell’opera di Shakespeare sul principe di Danimarca, vittima par excellence del proprio procrastinare, bensì un ritorno alle origini, alla mitologia norrena che aveva ispirato il misterioso autore, vissuto verso la metà del 1100, sulla cui biografia non si conosce neanche troppo.

    Secondo Eggers, The Northman rappresenterebbe una curiosa via di mezzo tra Andrej Rublëv di Tarkovskij e… Conan il Barbaro.

    Se l’Amleto è diventato uno stereotipo non semplicemente letterario, ma addirittura pop, del resto, lo si deve alle sue numerosissime re-interpretazioni teatrali (impossibile dimenticare quella crossmediale di Carmelo Bene), oltre ai noti adattamenti cinematografici di Franco Zeffirelli e di Laurence Olivier. Questo brevissimo excursus su una storia abbastanza tipica, in effetti, serve soltanto a far passare l’idea che Eggers abbia almeno per questa volta messo da parte gli stilemi horror, forse per provare a cavalcare una tematica apprezzata a livello mainstream, quella sulle imprese epiche del popolo norreno, anche grazie al successo di serie TV caposcuola come Vikings (2013). Al tempo stesso, la regia non rinnega le origini e anzi, non disdegna qualche momento cruento come da tradizione, sia pure con misura decisamente più contenuta rispetto alle opere precedenti.

    La ricostruzione dei rituali dell’epoca (inclusi due sacrifici umani) si è avvalsa di una ricerca filologica del regista, con l’unica eccezione del rituale di iniziazione di Amleth, definito “probabilmente il rituale più immaginario del film“. Si tratta di una perifrasi, in verità, dato che quella sequenza, dal sapore horror-grottesco, è girata con una certa dose di insospettabile ironia (non diciamo altro per non guastare la sorpresa a chi non avesse visto il film, ndr).

    The Northman avrebbe anche poco a che vedere con l’opera di culto di Shakespeare (che secondo alcune fonti, peraltro, potrebbe non aver mai letto Saxo Gramaticus), alla fine dei conti, se non fosse che narra del figlio di un principe, naturale erede al trono, in fuga dallo zio che gli ha fatto uccidere il padre al fine di governare assieme alla madre. L’Amleth eggersiano è un omone tutto d’un pezzo, con un cuore a pezzi e una sofferenza interiore mai risolta, che ricorda, soffre e combatte, evocando quasi un supereroe ante litteram, un mito in carne ed ossa che assume almeno tre aspetti differenti durante il corso della storia (corrispondenti a tre fasi narrative idealmente corrispondenti: la crescita, l’infiltrazione e la vendetta vera e propria). Come se non bastasse, è anche un personaggio onirico-psichedelico, dato che ha frequenti allucinazioni da sciamano sul proprio passato, varie premonizioni sul futuro e soprattutto una pregevole visione della sua ascesa al Valhalla, un maestoso fascio di luce che conduce, a bordo di un cavallo, fino ad Ásgarðr, mitico regno di Odino. Uno dei momenti visivamente più meritevoli di tutto il film, che rientra così a pieno titolo nell’opera tra la storia, il mito ed il fantasy puro.

    Il film si svolge nell’anno 914, durante il cosiddetto “landnámsöld“(letteralmente “l’età della presa della terra”), ovvero il primo insediamento dell’Islanda.

    Se l’ambientazione è norrena non manca, come da tradizione, il riferimento al folklore locale d’epoca, tanto che sono presenti vari canti e danze rituali in lingua originale sottotitolata, oltre ad alcune parti recitate in lingua dai protagonisti (Alexander Skarsgård e la consueta Anya Taylor-Joy), il tutto a costituire un’atmosfera decisamente suggestiva. La regia di Eggers è quella di sempre, in questo frangente: se bada molto al ritmo della narrazione, in alcuni momenti sembra perdersi dolcemente nella riscoperta e rievocazione del mito, mostrandoci con piglio quasi etno-antropologico la cultura e le tradizione di quel popolo. Se a questo di aggiunge una fotografia gelida e spettrale, con l’unica eccezione della battaglia finale (ambientata in un simil-inferno, ovvero nei pressi di un vulcano), si capisce bene che questo The Northman potrebbe essere, senza timori di esagerare, uno dei migliori film dell’anno. Il tutto a dispetto di una storia forse poco elaborata, sicuramente già vista – anche se è chiaro che se parliamo di un’opera originale di oltre 900 anni fa non ha neanche senso fare ragionamenti cronologici. Vale la pena citare anche il cast di lusso, che annovera  oltre ai succitati Nicole Kidman, Ethan Hawke, Willem Dafoe e Claes Bang.

    La storia di The Northman si basa su quella di Amleth, così come possiamo leggerla nella Gesta Danorum (Storia dei danesi) di Saxo Grammaticus, a sua volta discendente di varie tradizioni orali.

    Eggers è ormai una certezza, e garantisce una solida e accattivante regia, prevedibilmente ancorata alla compostezza gelida (gli scenari, i personaggi sulfurei, gli sguardi sinistri in camera fissa) che aveva determinato le sue opere precedenti – lo ricordiamo, di genere horror, ovvero The Vvitch e The Lighthouse: non sembra casuale, per inciso che la trilogia eggersiana abbia quel “The” a fattor comune, finchè qualcuno non saprà trovare una qualche attinenza concettuale tra i tre film. Parallelismi a parte, non sembra utile aver visto o conoscere il resto della filmografia di Eggers, classe 1983, proteso originariamente sull’universo dell’horror folklorico che qui ha scelto di declinare un’opera per il grande pubblico, accattivante, dotata del giusto grado di orrido e di gore, mai eccessiva nonostante la storia possa sembrare tirata un po’ troppo per le lunghe (ma questa è un’osservazione da spaccare il capello in quattro, valida giusto per gli amanti estremi della sintesi). In definitiva, un film da vedere immediatamente e gustare senza esitazione sul grande schermo.

    Eggers si è avvalso della collaborazione di vari storici dell’era vichinga, e ha svolto meticolose ricerche sul periodo, per rendere al meglio il clima, gli ambienti e gli oggetti dell’epoca. Tra i collaboratori troviamo anche il professor Neil Price, archeologo, che ha affermato che The Northmanpotrebbe essere il film ad ambientazione vichinga più accurato mai realizzato“.

    Cosa rappresenta l’albero di The Northman?

    A più riprese dentro il film vediamo un albero suggestivo e dai rami luminescenti, su cui parte del pubblico si è interrogata sulla valenza e sul significato. Come ha spiegato Eggers stesso, l’albero riconduce a qualche elemento legato a Yggdrasil, l’albero del mondo della mitologia norrena, ma soprattutto un’illustrazione reperita sulla nave di Oseberg, in cui è possibile vedere (caso raro per l’era vichinga) una struttura ad albero sui cui rami sono presenti vari corpi appesi. La sceneggiatura, concepita assieme allo scrittore Sjón, ha presumibilmente immaginato che si trattasse degli antenati di Amleth. L’albero genealogico della famiglia del protagonista, nel film, sembra “vivere” letteralmente all’interno del suo stesso corpo.