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  • 13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    Nella sterminata filmografia di Takashi Miike, frammisti tra manga cinematografici (Yattaman), horror, thriller e quant’altro, rischia di apparire pretenzioso esprimere un giudizio senza averne visti pressappoco la metà: del resto si tratta di quasi cento pellicole, molte delle quali disponibili esclusivamente su internet, e neanche tutte doppiate in italiano (solo sottotitoli).  Una situazione che costringe, di fatto, anche il cinefilo più incallito a valutare ogni suo film come una cosa a sè stante, facendo diventare un’impresa titanica delineare una linea di continuità tra le opere.

    Nel caso dei “13 assassini” ci può stare, credo, che si esprima una valutazione a prescindere da tutto, dato che – al di là della violenza estetizzante, tra Eli Roth e Tarantino – non è esattamente un horror, anche se eredita parecchio a livello di gore: non mi sorprenderebbe sapere che possa aver deluso chi ha visto ad esempio Audition, dello stesso regista, dato che si tratta di un sostanziale remake di un film anni 60 di arti marziali con lo stesso titolo. 13 assassini” è intriso di cultura e tradizione giapponese – con riferimento al mondo dei samurai, esaltandone il codice etico da guerrieri e, al tempo stesso, mettendo in discussione gli assunti di una società arcaica che si sta estinguendo. Due mondi contrapposti – dignitosa tradizione contro avida modernità – che combattono ferocemente  come consuetudine vuole anche nei film di Bruce Lee.

    La storia narra di un gruppo di dodici samurai (più un tredicesimo che si aggiungerà in seguito), che dovrà combattere contro un esercito intero per eliminare un signorotto feudale (Naritsugo) feroce e sanguinario. Il tutto per evitare che l’uomo possa consolidare ancora di più il proprio potere, approfittando dell’impunità di cui gode (etteparèva) e della schiera di soldati pronti a morire per difenderlo. Dopo una prima parte più contemplativa (anche se il sangue arriva dopo pochi minuti, mostrando il suicidio rituale di un uomo), si passa all’azione vera e propria: la dinamica di fatto è quella di un puro action-movie, solo con qualche spiegazione etico-filosofica in più rispetto alla media. I riferimenti di fondo, da tenere presente, sono almeno due: “I sette samurai” di Kurosawa – altro bellissimo film – e l’omonimo <<13 Assassini>> di Eiichi Kudo, del 1963.

    Questo film possiede dunque la struttura di un tipico film orientale di arti marziali elaborato in chiave moderna (ottima la fotografia), e trasposto nel mare di sangue di una guerra senza scampo, che potrebbe quasi considerarsi l’equivalente nipponico di Platoon. Di fatto molti tratti dei “13 assassini” sono (atipicamente, direi) “occidentalizzati”, a cominciare dallo svilupparsi lineare della trama, senza trascurare dettagli che saranno familiari un po’ a chiunque, come il samurai che minaccia il proprio opponente con un “ci vediamo all’inferno” che sa troppo di già sentito e di american-way. Un film inizialmente lento – è un luogo comune, in questi casi, ma va detto – che non mostra debolezze umane su cui sadici aguzzini infieriscono (come nel succitato Audition) bensì la figura di un Male assoluto, beffardo, compiaciuto e sostanzialmente estraneo a qualsiasi moralità. Un Male che gode nel vedere le proprie pedine combattere ferocemente, e difenderlo come se fosse un semi-dio.

    Se avete un po’ di insana curiosità, o comunque apprezzate il cinema orientale e non siete schizzinosi in fatto di sangue, secondo me dovete procurarvi questa pellicola ad ogni costo, e non credo rimarrete delusi. In caso contrario state alla larga, o alla meglio è bene che vi prepariate con la giusta predisposizione mentale ad assistere ad una pellicola insolita, che ha come suo principale “difetto”, se posso chiamarlo così, qualche momento lento e riflessivo non sempre troppo comprensibile. Una complessità che cozza con la tagline degna di un film di Schwarzy (“13 uomini / una missione / massacro totale“), forse un po’ subdola e che possiede il pesante difetto di suggerire una banale “tamarrata” anni 80.

  • The Watcher è su Netflix: e si basa su una storia autentica

    The Watcher è su Netflix: e si basa su una storia autentica

    The Watcher (L’osservatore) è una serie Netflix tra le più popolari del 2022, incentrata su una inquietante casa, ambitissima da vari compratori quanto in grado di diventare l’ambientazione di surreali incubi ad occhi aperti al loro interno. Gli episodi raccontano le vicissitudini dei vari coinquilini e, in particolare, quelle di una coppia (Naomi Watts e Bobby Cannavale) con due figli adolescenti, innamorati dell’abitazione a prima vista, nonchè futuri entusiasti acquirenti. La storia è in bilico su varie tonalità narrative e si ispira, nello specifico, ad un autentico fatto di cronaca del 2014: la storia della famiglia Broaddus, minacciata da lettere anonime dopo aver cambiato casa.

    Detta in maniera sintetica, The Watcher (scritto da Ian Brennan, in collaborazione con l’ideatore Ryan Murphy, che si occupa specificatamente del primo episodio) è una serie con più registi che vorrebbe forse riprendere la gloriosa tradizione dei mediometraggi horror di 20 o 30 anni fa. Cosa che avrebbe avuto più senso per le serie antologiche, forse, non certo per quelle che raccontano una storia di cinque ore e mezza che appare interminabile, poco stimolante e cosparsa di dettagli poco funzionali.

    Del resto si insiste su un’idea già vista, leggermente stantìa, di horror, basata sui topici dialoghi un po’ faciloni (che negli horror non sono tutto, e lo sappiamo, ma sono pur sempre qualcosa). Esemplificativo a riguardo un momento di intimità tra i coniugi, interrotto da uno dei figli per via di una musica che crede di aver sentito dalla casa, il tutto giusto durante il climax orgasmico. A quel punto ci pensa l’uomo, il padre (e chi sennò?), perfetto emblema del padre-protettore: ci pensa lui a rispondere al figlio, dalla camera da letto, “tua madre sta venendo“, una allusione talmente grossolana da far precipitare le braccia dello spettatore nelle profondità degli abissi. Anche lo stesso tormentone sul guardare o essere guardati (mentre si fa sesso?), sull’occhio dell’Osservatore da cui il titolo, passa relativamente indifferente, nonostante venga ribadito con cadenza sistematica.

    Le varie situazioni spaventose sembrano poi troppo rare rispetto alla tensione in ballo, tensione che per la verità funzionerebbe pure: i coniugi Brannock si legano visceralmente alla nuova casa, ne sono rapiti irrazionalmente, fronteggiando così alcune lettere anonime di minaccia che li vorrebbero fuori da lì. I sospetti ricadono su una coppia di vicini, fin da subito scontrosi e derisori nei loro confronti, e su alcuni altri grotteschi soggetti che sembrano riuscire a penetrare in casa anche senza averne le chiavi. La casa, ovviamente, si presta a interpretazioni psicologiche e sottotesti assortiti: il suo aspetto lussuoso è parte dello scenario in cui i protagonisti specchiano le proprie vanità, il desiderio di ritrovare la dimensione perduta, un Eden (probabilmente inesistente o idealizzato) a cui anelano da sempre. È il posto che dovrebbe metterti a tuo agio e puntualmente non lo fa, diventando un luogo seminale in cui coltivare e far degenerare terrori ancestrali, irrosolti esistenziali, frustrazioni e problemi economici. A vantaggio della narrazione si potrebbe, per onor di cronaca, raccontare della forte componente paranoica della trama (in una sequenza è presente un riferimento alla teoria del complotto sull’adrenocromo, ad esempio); non è male, peraltro, il clima paranoico (sempre accennato e vagamente hitchcockiano, per alcuni aspetti) in cui i protagonisti si muovono, senza capire come faccia l’Osservatore a vederli.

    Andrebbe bene, o sarebbe nella media dignitosa del genere, se non fosse che sono situazioni già viste e, già dalle prime puntate. The Watcher si svela come un thriller sostanzialmente ripetititivo, senza troppa anima, in cui le cose avvengono in modo lento quanto inesorabile, mentre i climax appaiono diluiti da vaghi jumpscare sempre poco efficaci e funzionali. Ne basti uno su tutti, per comprendere i limiti di The Watcher: il figlioletto che si sveglia nella casa vuota, per capire cosa stia succedendo, e poi scoprire che il suo animaletto (un furetto) è morto senza motivo. Inquadratura sui piedi, animaletto ucciso, urlo del ragazzino, sirene della polizia, poliziotto tutto d’un pezzo che accorre sotto casa. Per un furetto?

    Non gioca a favore della seie, di fatto riuscito per meno di metà, il formato scelto (ed il fatto di essere diretto da più registi alimenta più che altro il senso di opera abbastanza disorganica): prefigurandosi come mini-serie di 7 puntate, diluisce la trama più del dovuto – o almeno, questa è la sensazione crescente che si prova mentre lo si guarda. I personaggi dell’ennesimo The Watcher (da non confondersi con l’analogo The Watcher, nè con Watcher), per inciso tra le serie più viste su Netflix degli ultimi tempi, sono l’aspetto più accettabile: diretti, caratterizzati e privi di fronzoli – l’investigatrice privata tormentata, ad esempio, sembra uscita fuori dalla filmografia blaxpoitation. Sono i personaggi secondari a funzionare meglio di tutti, paradossalmente, essendo sempre caratterizzati da teatralità, suggestioni e retrogusto lynchiano. Sembrano a più riprese burattini delle loro stesse storie, incapaci di agire se non nel modo in cui lo fanno, vittime della necessità di agire passivamente per conto di un Grande Altro indecifrabile (una setta? Un demone? La casa stessa?), preda di automatismi inconsci a cui obbediscono, persi nei loro rispettivi ricordi dolorosi. L’inconscio affiora anche dalla storia di una famiglia cittadina, irreprensibile quanto involontariamente irritante, vittima probabilmente del proprio perfezionismo e che decide di trasferirsi in provincia, rifuggendo dal caos cittadino (e dov’è la novità, del resto). Una famiglia troppo stereotipata e banalizzata, se vogliamo, per essere vera.

    È la ricerca metaforica del paradiso perduto, mentre il resto della vicenda si segue con difficoltà e non cattura, purtroppo, come dovrebbe. Storie già viste, già sentite, già sviscerate in lungo e in largo – per cui viene da pensare a Jack Nicholson e Shelley Duvall, per certi versi, ma solo per brutale assonanza con la casa spettrale e minacciosa, con la “luccicanza” del caso, le famiglie che forse non sono ciò che appaiono (e ti pareva) e i vari scheletri nell’armadio che sbucheranno, prima o poi, fuori. Sarà anche così, ma non sembra molto interessante capire a fondo di cosa si tratti.

  • Vetro: il thriller sull’isolamento degli utenti internet

    Vetro: il thriller sull’isolamento degli utenti internet

    È uscito nei cinema il lungometraggio thriller d’esordio firmato Domenico Croce, girato sulla falsariga del sottogenere psicologico, e pervaso da curiose reminiscenze ai classici del genere e, cosa non da poco, con un sottotesto tecnologico tutt’altro che accessorio. Un lavoro per molti versi originale quanto semplice nella sua struttura, che sembra rifiutare l’effetto shock facile (troppo spesso banale scappatoia per accattivarsi il pubblico, o costruire serie TV pop) e si declina sulla tradizione del cinema di genere italiano, più ragionata e introspettiva. Un film che vale la pena, definitivamente, vedere almeno una volta nella vita e coglierne, in definitiva, ogni singola sfumatura.

    Il film è incentrato su un forte senso di claustrofobia, mood immarcescibile che pervade costantemente tutta la narrazione, e che racconta una singolare vicenda “di ogni giorno” scritta e sceneggiata da Luca Mastrogiovanni e Ciro Zecca. La sinossi assume tratti inusuali, rispetto alla media del genere, fin dal principio: il focus è infatti su una giovane protagonista, interpretata da Carolina Sala, rinchiusa da tempo indefinito nella propria camera.

    Vetro è un giallo zero-knowledge più classico che mai, quello in cui lo spettatore è catapultato nel mondo voluto dal regista senza complimenti, nè troppi preamboli. Non sappiamo perchè la ragazza si trovi lì, non conosciamo tantomeno il nome dei personaggi, non siamo nemmeno sicuri dell’ambientazione (Torino? Milano? …?), soprattutto non sappiamo di cosa abbia paura la ragazza. Nel frattempo la vediamo brancolare timidamente nella propria camera, in perenne ricerca di un qualcosa, di uno stimolo, di un perchè ad una vita, che sembra vivere isolata dal mondo esterno, in compagnia del solo padre. Padre che, di fatto, non appare per gran parte del film: sentiamo solo la sua voce, poi si affaccia dalla porticina del cane, rigorosamente chiusa a chiave dalla ragazza, giusto per portare da mangiare alla figlia, dialogando  amorevolmente con lei dietro una porta chiusa. Non sembra esserci verso di farle cambiare idea: quella porta non deve essere aperta, là fuori c’è qualcosa che la terrorizza. In questo scenario programmaticamente claustrofobico tutto potrebbe ancora essere, da una potenziale apocalisse in corso fino a eventuali morbose implicazioni relazionali.

    Non c’è tempo per rifletterci troppo durante la visione del film, peraltro, e – cercando di evitare spoiler che in questa circostanza potrebbero guastare parte della bellezza dell’opera -la narrazione si articola in due fasi ben distinte tra loro. Nella prima ci limitiamo ad entrare nella stanza (e nella vita) della diciassettenne protagonista, alle prese con quella che sembrerebbe una “ordinaria” crisi adolescenziale ed un rigetto verso il mondo esterno, forse a causa di un trauma regresso. Il film ci mostra il primo contatto coi social network della ragazza, la sua titubanza nell’iscrizione e la sua conoscenza (e frequentazione virtuale) in videochat con un ragazzo. Non è il mondo virtuale che conosciamo via Google e Facebook, per inciso: la scelta registica è quella di mostrarci motori di ricerca e piattaforme sociali inventate per l’occasione, con l’effetto di incrementare il senso di straniamento e concludere una prima sezione del film intrigante quanto forse, a ben vedere, un po’ prolissa. La seconda parte fa degenerare Vetro in un thriller onirico, anti-causale e vagamente simil-lynchiano, in cui la situazione è portata verso un’evoluzione psichedelica (uso e abuso di farmaci), fantasmatica e sempre più stringente, fino alla rivelazione ed al twist finale modello argentiano (Profondo rosso, peraltro, viene omaggiato da una specifica sequenza talmente evidente da provocare un sussulto nello spettatore, che sicuramente non passerà inosservata per quanto è azzaccata e liberatrice). Dopo aver visto il film sono abbastanza sicuro che non sarà difficile vedere nel personaggio della Sala una tragica, silente figura Femminile per eccellenza, un po’ anti-eroina un po’ scream queen, nella tradizione raccontata da autrici pluri-citate come Carol J. Clover.

    Nel disperato tentativo di capire cosa turbi così tanto la protagonista, tanto da far prefigurare allo spettatore apocalissi varie o eventuali nel mondo esterno, lo spettatore è messo davanti ad un’unico spiraglio di speranza: il talento per il disegno che caratterizza la protagonista, abile a disegnare fedelmente ciò che osserva, esasperato dall’essere alle prese con la manìa di spiare i vicini di casa dagli spiragli delle tapparelle della stanza, anch’esse tenute barricate. Un riferimento voyeuristico che non esprime solo una citazione al classico hitchcockiano di sempre (La finestra sul cortile), ma che diventa allegoria dell’utente qualunque, del popolo del web sui social network alle prese con lo sbirciare – e provare a ricostruire – le vite altrui.

    Non è un caso, a questo punto, che la protagonista sia una donna, una giovane donna in un universo popolato da quasi soli uomini, dove il proprio ruolo di vittima viene ribaltato da assunti sempre più spaventosi, in cui la lotta per la riscoperta del proprio Sè represso diventa causa di dolore, liberazione ed emancipazione. Sembra in altri termini la raffigurazione di un incubo cristallizzato, destinato a frantumarsi o a ricomporsi – lo stesso che abbiamo vissuto nei tempi più difficili della pandemia, quando il contatto con gli stessi consaguinei era limitato per motivi sanitari, ed in cui il “virus” questa volta è sociale, radicato nel nostro inconscio e, a questo punto, nell’intera società in cui ci pregiamo di vivere. Un incubo sconnesso in cui lo scenario è grottesco quanto paradossale, a volte onirico-psichedelico, e che non sembra un azzardo inquadrare come una raffigurazione dell’isolamento disagiato dell’individuo, così come una raffigurazione delle più atroci dipendenze da internet che affliggono tanti esseri umani sul pianeta.

    Come una novella protagonista di Luis Buñuel (L’angelo sterminatore), la donna non può uscire dalla propria stanza, bloccata da una paura irrazionale del mondo esterno, che riesce quantomeno ad esorcizzare mediante originali disegni e ritratti, anche grazie all’amore incondizionato per un cagnolino, unico essere vivente ammesso in sua compresenza. Una fobia, la sua, realmente esistente e ben nota in psicologia, tipicamente curata da farmaci e percorsi di psicoterapia, e che si riconduce al fenomeno degli hikikomori, i giovani giapponesi che si isolano dalla vita sociale volontariamente, costruendo il proprio mondo esclusivo all’interno della propria stanza.

    Su Wikipedia italiana, peraltro, una frase impietosa (quanto forse troppo generalizzante) ne definisce il comportamento: uno dei motivi che spingono gli adolescenti giapponesi a isolarsi – si scrive – è la volontà di sfuggire al conformismo tipico della società giapponese. Se è davvero così, il fenomeno degli hikikomori diventa il dilemma di un qualsiasi giovane pronto ad inserirsi nella società, attratto dalle lusinghe del guadagno e del sesso facili, quanto respinto da individui ostili e organizzazioni gerarchiche quanto stereotipate. Insomma, è una delle più grandi tragedie psicotiche del nostro tempo, o poco ci manca perchè lo sia. Nel caso di Vetro questa motivazione non sembra reggere del tutto, e presenta un considerevole distacco narrativo da quella tradizione anime/manga (da cui, peraltro, sembrerebbe prendere ispirazione almeno in parte), in cui il ragazzino isolato era l’eroe del fumetto o cartone animato di turno: la protagonista assume semmai la valenza di un’eroina più smaccatamente sociologica, immersa in un mondo in cui non ha colpe e da cui, probabilmente, vorrebbe mantenere il distacco. È dopo aver considerato tutto questo che – forse – entra in gioco il vetro del titolo, non solo chiave di volta a livello narrativo ma anche simbolo della psicologia della protagonista, fragile e tagliente al tempo stesso, trasparente quanto potenzialmente dannosa una volta fracassato.

    Per un thriller d’esordio, a conti fatti, tutto questo ci piace molto e, al netto di qualche momento di stanca ravvisabile soprattutto nella prima metà del film, la missione potrà dirsi compiuta. E molti di noi, speriamo per molto tempo, continueranno a vedere, amare e discutere Vetro. Un film italiano autentico e terrorizzante (soprattutto negli intensi, quanto improvvisi, minuti finali) di cui, sballottati come sempre tra improbabili reboot e terrificanti rehash delle medesime trame da quasi cento anni, avevamo bisogno.

  • Guida perversa al cinema: l’analisi filosofica e psicoanalitica di Zizek

    Guida perversa al cinema: l’analisi filosofica e psicoanalitica di Zizek

    Un documentario in cui Slavoj Zizek esamina molti film celebri, glissando dai titoli di Hitckcock a quelli di David Lynch, dal punto di vista filosofico e psico-analitico.

    In breve. La filosofia di Žižek può ritenersi condivisibile o meno, ma di sicuro è più comprensibile di quella di molti suoi colleghi. Questo documentario può ritenersi, alla peggio, una guida ragionata alla riscoperta di titoli cinematografici (soprattutto horror e thriller) che hanno fatto la storia, e che siano rilevanti dal punto di vista psicoanalitico.

    La Guida perversa al cinema rappresenta probabilmente uno dei documentari più importanti ed incisivi mai usciti su questo argomento; a cominciare dal titolo, che evoca evidentemente uno storico di cinematografia di genere e che coinvolge titoli di ogni ordine e grado, analizzandoli dal punto di vista del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Žižek (doppiato brillantemente da Tatti Sanguineti).

    Se il punto di vista di Žižek è considerato a volte controverso e, quasi senza dubbio, non sempre pienamente condivisibile, rimane un’analisi molto lucida ed efficace alla riscoperta del significato psico-analitico di molti titoli che abbiamo amato, che fosse da cinefili incalliti o da pubblico affascinato. Ad esempio quelli di Hitchcock, ed ampio spazio viene riservato a La donna che visse due volte e naturalmente Psico. Molti passaggi di quel cinema che spesso passavano sottogamba, di fatto, vengono qui rivalutati e rivitalizzati in un’ottica filosofico-concettuale decisamente affascinante, facendoci capire le probabili reali intenzioni di quei registi.

    https://www.youtube.com/watch?v=Azu1t1I3lDM

    Il rischio, in questi casi, è che la critica finisca per travolgere le effettive intenzioni del regista, associando a vari film intenzioni e sottosignificati che il cineasta di turno non avrebbe neanche mai pensato; alcune digressioni, effettivamente, rischiano di risultare vagamente azzardate, come ad esempio il citato corto della Disney Il giorno del giudizio di Pluto, che secondo il filosofo sloveno sarebbe una rappresentazione allegorica di un processo politico staliniano, in cui la condanna viene unanimamente e grottescamente stabilita ancora prima di iniziare il processo.

    Il problema, secondo me, non è tanto stabilire se Žižek abbia torto o ragione, quanto utilizzare la visione di questo documentario per riscoprire titoli incredibili e sottovalutati negli anni: a partire ad esempio dal cinema di David Lynch, in cui viene quasi sempre prefigurato il desiderio sessuale ed il mistero della femminilità attraverso figure (quasi da teatro dell’assurdo, verrebbe da scrivere) di grotteschi padri-padroni (vengono citati Strade perdute, Mulholland Drive, Cuore selvaggio e Velluto Blu).

    Non solo: molte questioni emblematiche sul concetto di osservare, sulla filosofia annessa al desiderio e come il cinema finisca per essere più realistico della realtà sono tratte sia film celebri (ampio spazio è dedicato anche a Matrix, ad esempio) che da piccole perle del passato come, ad eempio, Possessed (L’amante) di Clarence Brown del 1931.

    L’analisi viene condotta in modo originale ed accattivante, coinvolgendo concetti complessi in modo comprensibile anche perchè – nella maggiorparte dei casi – Žižek si reca personalmente nei luoghi dove i film citati sono stati girati, affiancando brillantemente le riprese originali con quelle della regia Sophia Fiennes. Possiamo vedere, ad esempio, il commentario al pluri-premiato film La conversazione di F. F. Coppola, direttamente dal motel in cui Gene Hackman osserva un omicidio.

    In tutto questo, ovviamente, la regia della Fiennes gioca un ruolo fondamentale, in quanto nelle riprese documetaristiche vengono riprodotte le condizioni ambientali e di illuminazione delle pellicole originali dando così, in molti casi, un senso di continuità tra il protagonista che parla con un altro personaggio e Žižek che sembra “inserirsi” materialmente nella scena. Se alcuni momenti, poi, sono visibilmente grotteschi – in certi casi forse al limite del risibile, vedi ad esempio la digressione su quella che non esiterei a definire “filosofia del cesso”, con Žižek seduto sul water a commentare una specifica scena del film di Coppola in cui il personaggio di Gene Hackman  – detective con l’ossessione per la privacy – ispeziona un bagno e lo scarico del WC si riempie di sangue.

    Un documentario che potete trovare su Amazon Video e che, pertanto, suggerisco caldamente di procurarvi.

  • Sei donne per l’assassino: Mario Bava inventa un genere nel 1964

    Sei donne per l’assassino: Mario Bava inventa un genere nel 1964

    Un prestigioso atelier diventa teatro degli omicidi di alcune modelle.

    In breve. Il film che ha inventato il giallo all’italiana, un genere prestigioso che ha continuato a vivere fino ai giorni nostri.

    Girato in sole sei settimane, fu anche un film tipicamente low-budget per cui Bava dovette inventarsi soluzioni sul momento: come quella, riportata da IMDB, di montare la macchina da presa su un trenino per riprendere alcune scene in movimento. Noto anche come L’atelier della morte, Jernhånden i rædselsnatten in Danimarca (tradotto in italiano La rossa notte della mano di ferro, con riferimento ad uno dei sette omicidi che si vedono nel film), sul mercato anglofono “Blood and Black Lace“, Sei donne per l’assassino è un film fondamentale per una serie di motivi: prima di tutto per l’epoca in cui uscì (1964), anticipando tempi e modi del giallo all’italiana (ma anche di molti thriller stilizzati americani) e ponendosi come modello di riferimento per più di una generazione di registi successivi.

    Lo schema classico del giallo all’italiana – un killer seriale che colpisce gli altri personaggi a rotazione i quali, fino alla fine, assistono inermi alle indagini – viene qui riprodotto per la prima volta, fornendo un vero e proprio schema di fondo. L’assassino inquietante, feroce – ogni omicidio avviene con modalità diverse e decisamente fantasiose, modus operandi ripreso più volte in film successivi come Oscar Insaguinato, ad esempio – ha il volto nascosto da una fasciatura – e diventa, qui, un villain ante-litteram, una sorta di “nonno” di Freddy Krueger (a quanto pare Wes Craven prese qualcosa da questo film per inventarne l’aspetto), e si mostra al pubblico in rigoroso impermeabile scuro e cappellaccio: il medesimo aspetto che avrebbe utilizzato anche Dario Argento per i killer dei suoi film.

    Sei donne per l’assassino è chiaramente un film anni ’60 che risente del ritmo – qui lento, inesorabile e accattivante – e dello stile di recitazione d’epoca (molto accentuato in senso teatrale, oltre che erede di quello del gotico in cui Bava era specializzato), ma che mantiene la propria carica di modernità attraverso l’uso di varie soluzioni sceniche teatrali quanto originali. A tale riguardo, basterebbe anche solo pensare alla sequenza introduttiva di presentazione dei personaggi, rappresentati in posa plastica (come fossero manichini) ed in modo che sia facile confonderli tra loro. Uno di quei film da guardare obbligatoriamente, insomma, anche solo per come è stato girato e per il tipo di fotografia basata su colori vividi e alto contrasto. A prescindere da quello che poi succeda a livello di intreccio, in effetti, non sempre facile da seguire e probabilmente non esente da buchi narrativi. Basterebbe pensare, a tale riguardo, alla celebre intervista in cui il regista, nel rispondere ad un’elaborata domanda della rivista francese Cahiers du cinéma, ammise di non ricordare il finale (Alberto Pezzotta. Mario Bava. Milano, Il Castoro Cinema, 1995).