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  • Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Un figlio scopre il padre con l’amante; la moglie decide di evirare il marito. Non riuscendoci, evira il figlio.

    In breve. Per un film del genere qualsiasi spiegazione sintetica rischia di apparire riduttiva: lo sguardo di Kim Ki-duk è impietoso e non risparmia dettagli sulle sofferenze, senza dare spiegazioni e senza un esplicito intento catartico. Uno dei film più nichilisti mai girati dal regista, probabilmente, che non rientrebbe neanche nei film prettamente consigliati per il grande pubblico. Eppure, nulla è gratuito e tutto rientra in una metafora considerevole sui tempi moderni.

    Da non confondersi con l’omonimo argentino del 1996, Moebius (trasmesso anche su RaiTre il 6 aprile del 2019) è l’ultimo film del prolifico regista coreano Kim Ki-duk, purtroppo recentemente scomparso per Covid-19 e che certamente, all’epoca, non le mandava a dire a livello contenutistico. Lo scandalo che suscitò il film per via della sua estrema crudezza di fondo è tutt’altro che ingiustificato, il tutto per quanto, in questa circostanza, la forma sembri decisamente più corposa della sostanza.

    Tanto per cominciare, perché Moebius? L’accostamento con il celebre nastro scoperto dal matematico Mobius (una struttura che si avvolge su se stessa, ottenibile congiungendo le due estremità di un nastro dopo averne girata una di 180°), si lega alla struttura narrativa avvolgente e dai tratti non lineari del film, un po’ come avviene in Strade perdute di Davide Lynch. Pensare ad esso comporta svariate suggestioni, che scateneranno particolarmente le menti degli spettatori, ovviamente quelli disposti a farsi travolgere da suggestioni molto forti.

    Moebius è la visione allucinata della vita di persone comuni, che trasformano una “ordinaria” tresca padre-figlio-amante-madre in un vortice di violenze, sopraffazione e crudeltà. Al centro della narrazione l’idea di evirazione, di privazione forzosa della parte sessuale maschile per espiare le colpe regresse, e naturalmente dei suoi risvolti tragici. In fondo, i guai peggiori del film vengono fuori dal trapianto di pene che il padre concede al figlio, diventa simbolo di una potenza virile del tutto smarrita, ed il fatto che giusto un pene assuma questo genere di valenza è tanto grottesco quanto considerevole.

    Non ci viene detto nemmeno il nome dei personaggi, e questo è quanto. Dettaglio ancora più interessante, il film è del tutto privo di dialoghi: ma questo non dovrebbe far temere velleità arthouse o da cinema d’essai, per quanto – forse solo per via dell’argomento trattato – il messaggio passi lo stesso grazie alla fisicità possente ed espressiva degli interpreti. E questo avviene in modo diretto, puri, comprensibile quasi certamente da solo quegli spettatori provvisti degli attributi (é proprio il caso di dire) per vedere il film senza distogliere lo sguardo neanche per un attimo. Dato il cinismo di Ki-duk (la sua violenza visiva, del resto, è tutt’altro che compiaciuta), ed il suo stile diretto e fin troppo privo di fronzoli (che fa sorridere, in un certo senso, a confronto con quello diluito di Hard Candy, ad esempio, film in parte analogo per contenuti e contesto), rendono la visione un “lavoro” tutt’altro che agevole.

    Il figlio, in particolare, esempio archetipico di bravo ragazzo tormentato dai bulli, diventa anche chi che paga colpe non sue e capricci dei propri genitori: il suo arresto, del resto, coincide con la sua mutazione completata, sia dal lato fisico che comportamentale, un po’ come sarebbe avvenuto nel miglior Cronenberg. Non passa istante in cui qualcuno non voglia sbirciare nei pantaloni del ragazzo, diventato quasi una sorta di fenomeno da baraccone per via del delicato intervento subito. Al tempo stesso il padre, figura in parte debole e del tutto vittima degli eventi, scopre un modo “alternativo” per procurarsi piacere, ovvero sublimando il dolore fisico, e ritenendo che ciò possa condurlo ad un orgasmo che, in effetti, non saprebbe in quale altro modo raggiungere. Una teoria disperata e crudele, non troppo dissimile da quella dei “supplizianti” di Hellraiser, a ben vedere, per quanto ovviamente non ci sia traccia dell’impianto scenico immaginifico del film di Barker. Qui il realismo è quanto di più vivido si possa immaginare, e probabilmente è questo l’aspetto realmente spaventoso e “scandaloso” in ballo.

    Il padre che viene scoperto con l’amante, la madre che vorrebbe vendicarsi sul marito per poi ripiegare sul figlio, i teppisti che aiutano apparentemente il ragazzo salvo poi coinvolgerlo in uno stupro, parlando di un’umanità persa nei palazzi anonimizzanti delle metropoli, oltre che nei suoi vicoli asfissianti. Viene in mente lo stesso regista quando affermò che “l’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno; è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile“, il che sembra chiarire parte del senso del suo film. Moebius diventa quindi un trattato dell’assurdo su un mondo incomprensibile, prepotente e spaventoso, nel quale è difficile chiarire appieno le motivazioni dei personaggi, per quanto il sesso (e non poteva essere diversamente, in questo contesto) assuma una valenza tanto preponderante da sembrare logorroica.

    C’è da aggiungere, in conclusione – perché non è certo cosa di poco conto – come questo film sia profondamente scabroso, e vada a combinare in un vortice di pulsioni erotiche una storia tanto semplice quanto terrificante per le sue conseguenze (e che a volte, vista in modo un po’ superficiale, sembra addirittura illogica o buttata lì). Il mondo di Moebius è fatto di città semidesertiche, in cui i protagonisti si sbirciano con aria smarrita, consumano sesso proibito, fugate e a volte incestuoso, e con uno sguardo impietoso su baby-gang una più tremenda dell’altra.

    Con un perenne rivoltarsi dei giovani contro le generazioni precedenti, si crea un turbine che sembra non conoscere speranza nè possibilità di reale redenzione.

  • Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il responsabile di un atelier di moda, apparentemente elegante e rispettabile (John Harrington), è in realtà un folle serial killer che uccide a colpi di mannaia le proprie vittime…

    In due parole. Un giallo all’italiana condito di elementi gotico-sovrannaturali, che riesce a colpire lo spettatore pur sovvertendo uno dei cardini del genere (l’assassino viene rivelato dopo neanche due minuti). Una buona dose di humor nero ed il tocco di classe del grande regista completano il quadro.

    Qualcuno sta camminando in punta di piedi nel mio cervello...”

    Un’accetta per la luna di miele” – circolato anche con il titolo italiano “Il rosso segno della follia” rappresenta una sorta di studio d’atmosfera sul giallo nostrano, che nel periodo sarà estremamente prolifico ed efficace. Tuttavia qui, a differenza dei grandi cult in cui l’assassino viene rivelato solo alla fine – quando non negli ultimi fotogrammi – Bava si prende il lusso (a ragion veduta) di divagare sul tema, mostrando la vicenda dal punto di vista del responsabile dei delitti, soggettivizzando a tal punto l’intreccio che, ad esempio, il meccanismo per provare ad incastrarlo è ignoto fino alla fine a lui come a noi. Numerose – e di rilievo – quindi le differenze rispetto ai classici del genere, ed è questo che – a conti fatti – rende di grande interesse la pellicola ancora oggi: John Harrington è dichiaratamente un maniaco, un po’ come un Henry ante-litteram, solo un po’ più avvolto in una poetica prettamente gotica, oltre che da ossessioni infantili (il carillon) che sono alla base dei suoi comportamenti.

    Dopo aver visto il film sarà impossibile, del resto, non riportare alla mente quel Profondo rosso che tanto deve, come tutto il cinema di Argento alla fine, proprio al maestro Mario Bava; e questo naturalmente fa parte del gioco di ispirazioni, citazioni e ricordi visivi che hanno fatto il cinema di genere tutto, il quale da sempre vive di rielaborazioni continue (peraltro non sempre apertamente tributate). “Il rosso segno della follia“, senza eccedere in gore e sangue, anzi calibrando con efficacia il ritmo di una storia costruita su personaggi ben studiati e magnetici (ad esempio Dagmar Lassander, affascinante quanto sicura di sè), rappresenta forse uno dei migliori – e meno noti – film di Mario Bava.

  • Nascosto nel buio: contiene una delle migliori interpretazioni di Robert De Niro

    Nascosto nel buio: contiene una delle migliori interpretazioni di Robert De Niro

    Uno psicologo (Robert De Niro) assiste al suicidio della moglie; sconvolto dal dolore decide di far cambiare aria alla piccola figlia (Dakota Fanning), e si trasferisce in una zona apparentemente tranquilla. E’ a questo punto che farà sentire la sua presenza Charlie, un misterioso personaggio di cui non è chiara la natura (un amico immaginario?) che sconvolgerà ulteriormente le loro esistenze …

    In breve. Un thriller “commerciale” piuttosto nella norma, che vive di situazioni canonizzate nel cinema di questo tipo (e di questi anni), e che spaventa più che altro per i colpi di scena senza preavviso. Neanche troppo pauroso nè eccessivamente violento, può essere un buon modo per approcciare al genere per chi è poco avvezzo al sangue (ed alle trame contorte). De Niro superbo come sempre, Dakota Fanning perfetta come archetipo di “bambina inquietante”.

    Poco da raccontare su questo discreto film di Polson: buona padronanza della macchina da presa, pochi e ben definiti personaggi, qualche situazione un po’ “televisiva” ed il giusto livello di intrighi e sospetti. Una citazione ad uno dei classici horror più riusciti di sempre – surprise! ho rimosso una delle immagini in basso perchè altrimenti … – rende  delizioso il “piatto”, ed è davvero impossibile dire quale si tratti senza fare un minimo di spoiler involontario: a dirla tutta, la citazione sembra sostanzialmente involontaria, ma gli spettatori più attenti non mancheranno di coglierla.

    Per quello che posso intuire da onesto profano in materia, gli spettatori psicologi avranno di che discutere dopo aver visto “Nascosto nel buio“, in relazione al tema dell’impossibilità per la ragione di cogliere tutti gli aspetti del vissuto. Da vedere senza esitazione, anche se qualche sbavatura qui e là rende la trama – col senno di poi – abbastanza prevedibile. Per chi conosce a memoria “Tenebre”, “Identità” o “La tarantola dal ventre nero”, “Nascosto nel buio” rimane molto fumo e poco arrosto; per tutti gli altri sarà un gradevole brivido di circa un’ora e mezza, con tanto di doppio finale – o “un finale e mezzo” – a sorpresa.

  • Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    “Enemy” è un film del 2013 diretto da Denis Villeneuve e basato sul romanzo “The Double” di José Saramago. Il film è noto per la sua trama complessa e ricca di simbolismi, che ha portato a numerose interpretazioni e discussioni tra gli spettatori.

    La trama segue la vita di Adam Bell, un insegnante di storia noioso e insoddisfatto, interpretato da Jake Gyllenhaal. Un giorno, guardando un film, Adam nota un attore che assomiglia in modo sorprendente a lui. Adam inizia quindi a indagare sulla vita dell’attore, Anthony Claire, che è anche interpretato da Jake Gyllenhaal.

    Man mano che la trama si sviluppa, emergono parallelismi e simboli che suggeriscono che Adam e Anthony potrebbero essere la stessa persona, o almeno rappresentazioni simboliche di parti della stessa personalità. Entrambi i personaggi condividono una relazione complicata con le donne nella loro vita, che a loro volta sembrano avere connessioni e parallelismi.

    Il film è caratterizzato da una forte atmosfera onirica e surreale, con una fotografia cupa e una colonna sonora inquietante che contribuiscono a creare un senso di tensione e mistero. La narrazione ambigua e aperta a interpretazioni multiple ha portato a numerose teorie e discussioni tra gli spettatori sul significato e sulle implicazioni della trama.

    In definitiva, “Enemy” è un film che sfida lo spettatore a riflettere sul concetto di identità, doppio e la natura oscura della psiche umana. La sua natura enigmatica e simbolica lo rende un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per chi è disposto ad affrontare il suo mistero.

  • Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Alex DeLarge è un giovane londinese che trascorre le giornate tra risse e stupri, accompagnato da una banda di degenerati degni compari: arrestato, viene sottoposto ad un esperimento di rieducazione (“la cura Ludovico”, fortemente promossa da un candidato ministro) dagli esiti imprevedibili.

    In breve. Il saggio di ultra-violenza cinematografica per eccellenza: senza dubbio tra i migliori film di sempre.

    Considerato ai primi posti nella classifica dei più controversi film mai girati (secondo posto, l’Entertainment Weekly nel 2006), rientra in numerose classifiche, tra cui quella di essere al 70° posto come miglior film in assoluto. In realtà “Arancia Meccanica” dovrebbe rientrare tra i primi dieci di diritto: l’arte cinematografica di Stanley Kubrick, virtuoso regista stra-citato quando discusso e impossibile da imitare, si esprime infatti in una delle sue migliori creazioni.

    Arancia meccanica – noto con vari titoli a seconda degli stati: The Orange From Hell, Paklena Pomorandza, Paklena Naranca, Paklena Masina, Machine from hell, tutti titoli che evocano “Un’arancia ad orologeria” che doveva far riferimento, nelle intenzioni dell’autore Anthony Burgess, ad un essere umano trasformato in una macchina – racconta una storia realistica in un’Inghilterra distopica. Lo fa sfruttando una singolare reinvenzione del linguaggio, in una propria, inequivocabile dimensione, aderente al romanzo da cui è tratto e riletta in grande stile. Ciò avviene a partire dai presupposti scenografici, che immaginano un’ambientazione bizzarra (attuale quanto futuristica, diremmo: ci sono libri e vinili, ma si capirà di non essere nel 1971), tra colori sgargianti e tecnologie vintage, per focalizzare una storia di “ordinario degrado”, come tante ne potremmo sentire in cronaca – che diventa successivamente grottesco puro. Nel farlo, Kubrick si affida ad un linguaggio puramente rivoluzionario, sfruttando il cinema per esprimere le contraddizioni dei metodi autoritari di educazione e, al tempo stesso, mostrando altrettante perplessità su quelli più aperti in voga in quegli anni. Se da un lato potremmo quindi intravedere le derive del cinema poliziottesco (che rappresentava sempre più spesso eroi comuni che giustiziano da soli i delinquenti, soddisfando la sete di sangue di certo pubblico reazionario), Arancia Meccanica si pone in una posizione sostanzialmente contrapposta, tutt’altro che ideologica o “per partito preso”.

    Arancia meccanica vive in un clima strano, un’Inghilterra straniante e distopica, fatta di colori vivaci e luce diffusa: un possibile parallelismo di ambiente potrebbe ricondursi a ciò che avviene in certa letteratura cyberpunk. Il futuro (perchè è qui che si colloca la storia di Alex) non è fatto da tecnologie alettanti o astronavi nello spazio, bensì da paure urbane, violenza gratuita, alienazione, droghe e sesso violento. Componente sessuale, qui, funzionale e caratterizzante (al netto di polemiche moralistiche, sostanzialmente inutili), in grado di perdere qualsiasi attrattività per lo spettatore, diventando mera esibizione di vuoto, spettacolarizzazione cruda e brutale. Qualsiasi esagerazione visuale, del resto, fa vedere da cosa parta Alex, fino a definire una parabola su cosa diventerà: questo sembra essere il punto. In questa narrazione la grandezza di Kubrick si declina anche nel non lanciare alcun esplicito messaggio moralistico o di monito, come faceva ad esempio tantissima exploitation (da questo film molte scene sono state ispirate o imitate, spesso con risultati e filosofie ben diverse), bensì nel mettere lo spettatore di fronte ad un paradosso (senza uscita?): laddove la rieducazione del selvaggio Alex sembri doverosa o necessaria, improvvisamente il ragazzo è diventato un’ameba incapace di difendersi, vittima di un feroce contrappasso nonchè strumentalizzato a fini politici.

    Il soggetto del libro fu assegnato (nell’ordine) a Mick Jagger dei Rolling Stones, a Ken Russell, a Tinto Brass e finalmente a Stanley Kubrick, che si prese l’incarico di girarlo vedendo in Malcom McDowell l’unico possibile interprete del protagonista. Ne risulta un film emblematico, solidissimo nel suo concepimento, a sottolineare un’idea precisa di cinema kubrickiano, perfezionista fino all’estremo: Kubrick non solo girò ogni scena numerose volte (incluse quelle più obiettivamente difficili da gestire per gli attori), ma fece anche distruggere dal proprio assistente tutto il girato non utilizzato. Non solo: temendo che i cinema che proiettavano il film lo manipolassero prima della proiezione, si accontentò di un budget di poco più di 2 milioni di dollari (un budget da b-movie, per l’epoca) pur di mantenere il controllo sul materiale, curando personalmente le campagne pubblicitarie del film, il trailer e (pare) mandando, poco prima delle proiezioni, nuove copie integrali ai principali cinema, in modo da assicurarsi che il film fosse sempre proiettato per intero.

    Sembra incredibile a pensarci oggi, ma Arancia Meccanica venne girato con un budget ridicolo rispetto alla grandiosità che sarebbe riuscito ad evocare, diventando un’icona pop, di genere, di cinema impegnato e quant’altro, ed è questo un ulteriore motivo di pregio per una delle pellicole più autenticamente distopiche mai realizzate. Un film determinato da una selezione di riprese ossessive, dove nulla è lasciato al caso, e da gesti meccanici, coreografici (Alex che danza nelle scene più violente, così come è in grado di diventare mansueto e farsi coccolare dalle autorità, è uno spettacolo ineguagliabile): in una parola perfetti proprio perchè provati e ripetuti fino all’inverosimile. Basti pensare (senza entrare nei dettagli) che solo il finale venne ripreso ben 74 volte, prima di pervenire alla versione definitiva.

    Arancia meccanica è quel tipo di pellicola autoriale controversa, lontana dalla tradizione di genere ma che, in parte, al cinema più popolare strizza l’occhio: è un film per cui è impossibile dire se sia drammatico, distopico, grottesco o che altro, che viene arricchito da elementi aggregabili che sarebbero diventati codificatissimi sotto-generi. Il racconto di ordinario degrado urbano, il cinema decadente, un certo tipo di recitazione straniante e ostentata – le spiazzanti home invasion, l’infame tradizione del revenge movie, sono tutti elementi richiamati nel film con gradazioni differenti.

    Un personaggio, quello di Alex, emblema del ragazzo difficile in cui è impossibile immedesimarsi, dall’innata crudeltà esaltata da un carattere passionale (stupratore e aggressivo, quanto amante del “Sommo Ludovico Van” Beethoven), per cui alla fine si proveranno sentimenti contrastanti. Le sequenze sembrano avvenire in luoghi caratterizzati da un mix bilanciato di grandiosità e complessità (il teatro abbandonato, le statue di Allen Jones del Korova Milk Bar, il centro di rieducazione che non è che una profondissima sala cinematografica), a finire dal modo di parlare dei personaggi, che evocano quello del libro di Burgess con il loro strano e suggestivo modo di esprimersi (il “nadsat”, un mix di slang russo ed inglese) e di chiamare le cose (il “latte più” alla mescalina). Del resto, è proprio il linguaggio a condannare Alex, in quanto la segnalazione alla polizia della sua presenza viene presa sul serio per “quello strano modo di parlare”.

    Vale la pena di raccontare, peraltro, ciò che accadde durante e dopo la famosa scena dello stupro, accompagnata in modo straniante da “Singing in the rain“: la cosa venne improvvisata sul set dopo 4 giorni di prove, e l’idea era quella di non banalizzarla o renderla troppo convenzionale. Kubrick fu talmente entusiasta del ciak definitivo da essere disposto a pagare 10,000 dollari per ottenere i diritti sul brano. Ma non solo: in seguito pare che Gene Kelly (protagonista del film Cantando sotto la pioggia, 1952) abbia evitato il povero McDowell durante una festa, dicendosi disgustato dall’uso che l’attore aveva fatto di quella canzone sognante e ottimista.

    Dopo una prima porzione di film incentrata su nefandezze di ogni genere, Alex – tradito dai compagni che diventeranno i suoi futuri aguzzini – diventa il detenuto 655321, alienato ed oppresso dall’autorità, sottoposto ad un durissimo regime carcerario ed alle prediche della religione e dell’autorità militare. Da qui scaturisce un ipocrita interesse per i testi sacri (che poi non è che immedesimazione in cruenti e dissoluti centurioni), ma soprattutto per la Cura Ludovico: un brain-wash a tutti gli effetti, che passa per la sottoposizione incessante ad immagini violente, allo scopo di purificarsi. A questo punto è la svolta: Alex è disposto a svendersi ed adeguarsi ai canoni imposti dalla società (“essere buono“, per lui, è un modo come un altro per essere di nuovo libero), ma non considera cosa comporti essere privato della possibilità di scegliere (“quando un uomo non ha scelta, cessa di essere un uomo“). Così si offre – dal suo punto di vista, furbescamente – alla cura, il che lo porterà alla libertà quanto alla progressiva rovina. Una volta fuori, c’è un mondo che non aspetta altro se non potersi vendicare delle sue malefatte.

    La Cura Ludovico è forse l’emblema del cinema politico tacciato di estremizzare e brutalizzare la visione: nel vedere Alex sottoporsi a filmati violenti, qualsiasi appassionato di cinema (soprattutto se estremo o borderline) troverà un appagante parallelismo. In fondo la visione di ogni film, specie tra i più controversi, non è che una “cura Ludovico” per provare a purificarci, al netto delle strumentalizzazioni e del comportamento che la visione potrebbe indurre. In questo, Arancia Meccanica si erge semplicemente come capolavoro assoluto.