AZIONE!_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori film d’azione usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Diretto da Neil Burger, Limitless è un film del 2011 che, all’uscita, interessò moltissimo gli appassionati di cinema e dell’assurdo. La pellicola getta le radici in Territori oscuri, romanzo del 2001 di Alan Glynn. Un’opera affascinante, la cui trama, gira intorno ad una misteriosa droga in grado di incrementare la potenza del cervello negli esseri umani.

    Limitless risponde ad un interrogativo che attanaglia moltissime persone. Usando soltanto il 20% del nostro cervello, cosa accadrebbe se ne sbloccassimo tutte le capacità? Sono diverse le nozioni che si incastrano nei meandri più nascosti della mente, finendo molto facilmente nel dimenticatoio. In Limitless, per l’appunto, tutte queste barriere crollano attraverso una pillola apparentemente miracolosa che cambierà la vita del protagonista.

    La recensione di Limitless: premessa

    Limitless è la storia del decaduto scrittore Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, che, nei primi frame, si barcamena tra le strade affollate di New York. Un creativo senza storie, lontano dalle sponde più estrose del suo essere. Insomma, l’intera pellicola si muove sul cliché di una figura scapestrata che, giorno dopo giorno, tira avanti nella speranza di un’idea sensazionale che cambierà per sempre il corso della sua vita. Morra è assalito da un blocco micidiale, sopraffatto dallo squallore dei sobborghi newyorkesi.

    Il suo, è un personaggio devastato, abbandonato dai suoi affetti e dalla compagna, la Lindy di Abbie Cornish, in piena scalata sociale. Il controverso aiuto dell’ex cognato, Vernon Gant, interpretato da Johnny Whitworth cambierà il corso della sua esistenza. Quest’ultimo, infatti, suggerirà allo scrittore di fare uso di NZT-48, il farmaco che renderà la visione esistenziale di Morra vivida e positiva. Morra sistemerà casa sua e, nel giro di un giorno, guadagnerà le avance della moglie del suo padrone di casa, salvo poi tornare, il giorno successivo, alla solita vita.

    Da qui, il plot di Limitless si fa chiaro. Morra farà di tutto per procurarsi la pillola dei miracoli, consegnare il libro alla casa editrice e diventare la versione migliore di sé stesso. In men che non si dica la pellicola diventa una escalation dei migliori successi dello scrittore che, intanto, si sarà lanciato in borsa e sarà diventato una figura travolgente, non mancando di portare l’attenzione dello spettatore su una delle chimere che attanagliano il mondo moderno: la ricerca persecutoria e spasmodica di un irraggiungibile appagamento.

    I pregi della pellicola

    L’interpretazione di Bradley Cooper è ciò che colpisce maggiormente lo spettatore. L’attore ricopre il ruolo poliedrico di Morra alla perfezione, raccontando luci e ombre di un uomo ossessionato dalla realizzazione personale, eppure incapace di sfruttare le proprie potenzialità a pieno. Limitless è seducente adrenalina, ma anche inquietudine melancolica, specie grazie alla regia magistrale di Burger che permette allo spettatore di rimanere immediatamente coinvolto nelle vicende del protagonista.

    La fotografia gioca un ruolo chiave nella differenziazione delle fasi di Morra, accentuando i toni caldi nei momenti di esaltazione, quasi a rimarcare un aumento della temperatura. I cambi di scena sono dinamici, la trama si muove su una premessa semplice, senza mai risultare banale. Ci saranno delle conseguenze, aspre, a tutto questo. Lo scrittore lo scoprirà presto e, mentre lo spettatore comincia a interrogarsi sul futuro del protagonista, compare in scena Robert De Niro, nei panni dell’uomo d’affari Carl Van Loon, pronto a distruggere i sogni di gloria del neonato business-man Eddie Morra.

    La recensione di Limitless: conclusioni

    Insomma, il film si rivela spiazzante e lascia lo spettatore con un plot twist sorprendente o, meglio, con più interrogativi. Il primo, ovviamente, riguarda il destino del protagonista, ormai riavvicinatosi alla ex compagna e in corsa alla Casa Bianca e, l’altro, su sé stesso. Alla visione della pellicola, infatti, sovviene spontaneo chiedersi: “Cosa accadrebbe se potessimo usare il 100% del nostro cervello?”. Superficialmente si penserebbe di consultare le app casino online con bonus e stravincere, ma in realtà, fin dove ci spingeremmo pur di avere successo e quanti rischi saremmo disposti a correre? Se state cercando un lungometraggio che vi intrattenga in maniera dinamica e che vi lasci anche degli spunti di riflessione interessanti, allora Limitless è ciò che fa per voi. Da thriller psicologico, infatti, riesce a mutare in un fantascientifico assurdo, seppur verosimile, impreziosito da un cast ed una regia d’eccezione.

  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.

  • The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    Il militare David si reca in visita dai genitori di un commilitone morto in battaglia, venendo accolto con commozione e stabilendo un legame emotivo con i familiari: ma chi si nasconde davvero dietro di lui?

    In breve. Sano action-movie come da tradizione ottantiana (si parte dagli stessi presupposti del primo Rambo): trama accattivante e divertimento per il pubblico, a cominciare dalle citazioni a finire dai dialoghi essenziali ed ontologicamente tamarri (nel senso migliore del termine). Ci si diverte con stile, e solo questo conta.

    Girato da Adam Wingard (giovane guru dell’horror noto per You’re Next, The ABCs of Death e recentemente Death Note) con un budget di circa 5 milioni di dollari, The Guest è strutturato con le dinamiche di un film del terrore – tranquillità iniziale, crescendo di tensione e rivelazione/i finale/i – senza pero’ sfruttarne pienamente le dinamiche espressive. Ciò che emerge è un buon thriller molto contenuto (stranamente per Wingard) a livello di sangue e violenza, girato con gusto e recitato in modo gradevole, ben calato nella realtà americana – e strizzando l’occhio ad Halloween (nella sequenza finale, soprattutto). L’idea del film arriva dalla penna di Simon Barret, partito da un’idea di classico film a sfondo revenge, che poi è stata abbandonata causa complicazioni e trasformata dal regista in ciò che il film è: in parte prevedibile dopo un po’, forse, ma assolutamente dignitoso.

    La cosa più affascinante di The guest è legata sicuramente al suo rendersi inclassificabile per circa un’ora di film, almeno fin quando iniziano a delinearsi i tratti essenziali della trama; lo guardi con interesse, e non riesci a capire se vedrai uno slasher, una spy-story, un action puro o un horror cruento. La verità è che non importa granchè, perchè la trama incuriosisce ed avvince lo spettatore, che difficilmente potrà immaginare la sorpresa finale (per quanto, ripensadoci, abbia un che di “grezzo” nel senso accennato all’inizio, tutto sommato divertente). Certo Wingard ama il cinema di genere, anzi in certe sequenze lo venera spudoratamente e lo tributa senza pudore, a cominciare dalla scelta delle musiche puramente ottantiane di Steve Moore. Tanto per capire l’atmosfera, Moore ha sfruttato gli stessi sintetizzatori suonati da Carpenter e Howarth per Halloween 3: Season of the Witch (1982), ed il feeling sembra proprio quello.

    Stevens, protagonista del film, impersona l’enigmatico soldato che irrompe nella vita ordinaria di una famiglia americana, quale archetipo del “buono” in grado di sedurre, combattere e dominare la scena in lungo ed in largo. La sua parte è particolarmente complessa soprattutto per ciò che implica, ed in funzione della sua reale identità, e questo lo rende particolarmente affascinante. Quasi sempre padrone della scena ed egocentristicamente coi riflettori sempre puntati addosso, ha dovuto sostenere un allenamento specifico per sfoggiare il fisico necessario ad impersonare un militare. La cosa è stata talmente voluta da Wingard da spingere il regista a rinviare fino all’ultimo una delle scene clou, per dare il tempo allo stesso di allenarsi e girare la scena del trailer.

    Un buon film, quindi, che riserva qualche discreto colpo di scena ed una buona dose d’azione, in definitiva. Per come viene impostato fin dall’inizio, nonostante gli ammicamenti (pesantissimi nel finale, peraltro) The Guest si allontana dai lidi dell’horror per approdare su quelli del thriller d’azione, citando il cinema ottantiano tutto. Al tempo stesso, The Guest piacerà agli appassionati di cinema di genere che non amino le spiegazioni troppo dettagliate – per dire, il pubblico selezionato per il test screening ha convinto Wingard e lo sceneggiatore a togliere di mezzo lo “spiegone” che illustrava con molti dettagli l’ identità dell’ospite, ma questo a ben vedere non lascia spiegazioni in sospeso, per cui va bene così.

  • Cinque dita di violenza: il film di arti marziali più amato da John Carpenter

    Cinque dita di violenza: il film di arti marziali più amato da John Carpenter

    Un anziano maestro di arti marziali invia in una scuola prestigiosa il proprio miglior allievo: nel frattempo un gruppo rivale guidato da un pericoloso individuo inizia a procurare seri problemi al protagonista…

    In breve. “Cinque dita di violenza” ipnotizza ancora oggi l’appassionato di film di arti marziali, fornendo una valida alternativa al consueto Bruce Lee (del quale si sente qui la mancanza in termini soprattutto di carisma del protagonista). Citato dai più grandi registi di genere fino ad oggi, un cult da non perdere, e questo nonostante qualche grossolanità sparsa all’interno della storia.

    Film importante per una serie di ragioni: la versione inglese di Tian xia di yi quan, acquistata da Warner Bros. a suo tempo, lanciò il filone “kung fu” negli Stati Uniti. Del resto è innegabile che questo film abbia influenzato ed affascinato generazioni di registi dagli anni 80 in poi, tra cui John Carpenter (che cita questo film entusiasticamente nella sua recente intervista a Nocturno) e naturalmente il solito Tarantino, che riportò piuttosto fedelmente il “five point palm of death” (la mossa mortale per eccellenza) all’interno del suo successo “Kill Bill“.

    Ambientazione spartana – quella di “Cinque dita di violenza” – ma al tempo stessa suggestiva, con una recitazione non eccelsa (ed il doppiaggio italiano di certo non aiuta in termini di credibilità) ed una sequela memorabile di combattimenti all’arma bianca come nella classica tradizione gongfu (che il film in parte inaugura), quando ancora essa era intrisa di una solennità e di quel tocco favolistico che si banalizzerà, nelle produzioni mainstream, solo pochi anni dopo.

    Il genere, destinato infatti a diventare leggero e demenziale con i noti contributi di Jackie Chan, in questo film vive nella dimensione seria (ma sempre accattivante e mai noiosa) del mistero, dell’intrigo, della favola antica intrisa di romanticismo. Non si tema inoltre di fare spoiler nel dire che l’estirpazione degli occhi con una mossa di karate – una delle poche ed impressionanti scene davvero violente del film – è stata ripresa a piene mani ancora da Tarantino nel suo “Kill Bill“, e questo in considerazione del fatto che una delle copertine in circolazione brucia letteralmente questo dettaglio sbattendolo ben in vista. Caratteristica che in pochi (o nessuno) hanno messo in evidenza, poi, riguarda la rappresentazione quasi perfetta del processo di crescita e maturazione (fisica e mentale) del protagonista, che supera progressivamente le proprie difficoltà ricorrendo a lavoro, sacrificio ed attesa.

    Film visti e rivisti in seguito, alla fine, che hanno influenzato generazioni di cineasti successivi ma che potrebbero, di fatto, risvegliare un sano interesse da parte del pubblico.

  • Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Clint è il prototipo di “bravo ragazzo” onesto e lavoratore, fidanzato con la splendida SuperAngelica: una formosa ragazza tanto focosa quanto ferocemente possessiva. Un litigio particolarmente pesante tra i due darà inizio ad una pazzesca avventura erotica del protagonista…

    In due parole. “The sum total of all my films“, la summa erotica dell’arte meyeriana, priva dei fronzoli dei precedenti lavori ed incentrata su due aspetti: omaggiare la bellezza femminile come valore assoluto, e deridere la remissività del maschio represso medio. Il risultato finale, diluito in due ore che difficilmente riusciranno ad annoiare, sarà un vero spasso.

    Lanciato da una tagline all’insegna dell’eccesso (“Troppo… per un solo film“) “Supervixens” di Russ Mayer è probabilmente uno dei migliori film del famoso cineasta: un artista che seppe conferire un minimo di rilievo artistico ad un genere, quello erotico-pornografico, che tradizionalmente è ritenuto dalla “critica seria” di scarsa ampiezza e valore. Mayer sovverte questa convinzione mantenendo un tono scanzonato ed auto-ironico, per certe trovate strizzando l’occhio a certe trovate alla Monty Python, con grande stile.

    E come se non bastasse, realizza tutto questo mediante uno script costruito in circa una settimana, concretizzando una fotografia fuori dagli standard e – ci mancherebbe altro – sempre da vero amante delle più prosperose curve femminili. Tanto che, in questo film, delizia il pubblico con ben sei bellezze maggiorate: la mora Uschi Digard della locandina, Christy Hartburg, Colleen Brennan, Deborah McGuire, Haji – già vista in Motorpsycho e Faster pussycat… kill, kill! – e la splendida Shari Eubank, che interpreta il doppio personaggio SuperAngel / SuperVixen.

    Non c’è il tempo di cercare sottotesti o messaggi subliminali tra le immagini, di fatto, perchè l’intento è “solo” quello di far godere il pubblico, e questo mediante una visione erotizzata, umoristica, movimentata, estremamente allusiva per quanto – rispetto agli standard odierni – praticamente mai esplicita. Se alcune sequenze hanno certamente fanno scuola nel seguito della cinematografia di genere, l’inquadratura di seni giganteschi e  falli sproporzionati di alcuni protagonisti (che probabilmente provocarono il divieto del film ai minorenni) potrebbe ormai essere parte di un “ordinario” demenziale-erotico di oggi, ed in questo Meyer mostra di essere stato un fiero precursore: un po’ come il collega italiano Joe D’Amato, il quale – a prescindere da fenomeni di successivo cultismo dei suoi film – ha semplicemente saputo dare al pubblico quello che desiderava.

    Sfondando le porte delle ordinarie convenzioni, e liberandosi di qualsiasi sciocca inibizione (siamo pur sempre nella metà degli anni 70), Meyer immagina la storia del timido Clint Ramsey, benzinaio letteralmente sottomesso alle volontà di SuperAngelica, con la quale litiga perennemente per via della gelosia di lei. Dopo uno scontro particolarmente violento – la donna gli distrugge la macchina a colpi di ascia in una sequenza che rappresenta una sorta di proto-pulp – inizia un lungo peregrinare che fa diventare “Supervixens” un road movie erotico, una sequenza di avventure porterà il protagonista, dopo mille peripezie, verso la sua vera donna ideale (SuperVixen, neanche a dirlo).

    Tormentato fino al parossismo da splendide fanciulle che sembrano non aspettare altro che saltargli addosso (Meyer nel farlo, peraltro, abolisce l’idea di mercificazione del sesso, evidenziandone l’aspetto sano, di puro divertimento: in questo effettua a mio parere uno smacco considerevole verso qualsiasi possibile accusa di sessismo), l’operaio Clint vivrà all’interno di una specie di sogno/incubo ad alta densità erotica, caratterizzato dall’esaltazione di corpi femminili in bella vista e, ovviamente, da rappresentazioni grottesche e decisamente acrobatiche dell’atto sessuale (ad esempio la copula sulla cima di una montagna).

    Il linguaggio scelto, del resto, riesce a rendere “Supervixens” diverso da un porno vero e proprio, nel quale invece il tutto è focalizzato in modo totalitario sull’aspetto sessuale e sui primi piani, con tanti saluti alla trama ed al ritmo del film stesso. Il sesso, se ci fosse bisogno di scriverlo, per quanto assuma una valenza fondamentale non è certamente l’unico elemento di spicco, visto che sussistono elementi di pura explotation (l’omicidio nella vasca da bagno, crudele ed improvviso, sembra in parte precursore degli omicidi della saga ottantiana Venerdì 13).

    Tuttavia il tono cartoonesco della pellicola, ricca di momenti realmente spassosi nei quali la risata è quasi sempre dovuta ad una presenza femminile dominante, contribuisce a rendere il film gradevole, interessante e mai noioso. La cosa è talmente evidente, nonostante qualche inevitabile istante di calo, che non ci si capacita di come un film di due ore possa non provocare questo effetto in nessuna sequenza. Il quadro che ne risulta, per quanto volutamente grottesco ed estremizzato, non è in fondo troppo distante da alcune realtà che conosciamo, anche se naturalmente sarà difficile che lo si possa ammettere e ci sarà qualcuno che parlerà per forza di esagerazioni, quando non di sessismo.

    Del resto il tono gioioso che accompagna l’intero film serve a sdrammatizzare il tutto, e a rendere la visione di “Supervixens” indispensabile per conoscere un esempio di cinema “leggero” – nel senso di poco impegnativo – e, al tempo stesso, non banale.

    DVD di SuperVIXENS + Ultra-Vixens su Amazon