AZIONE!_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori film d’azione usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Diabolik – Ginko all’attacco non delude le aspettative

    Diabolik – Ginko all’attacco non delude le aspettative

    Diabolik ed Eva Kant si ritrovano calati in una nuova avventura contro l’ispettore Ginko, in una veste inedita e dai risvolti imprevedibili.

    Diabolik – Ginko all’attacco si richiama parecchio al suo predecessore, Diabolik, con l’unica sostanziale differenza di aver cambiato l’interprete protagonista (da Luca Marinelli si passa Giacomo Gianniotti). Il resto non è cambiato (gli interpreti principali, con l’aggiunta di un intrigante Alessio Lapice nella parte di Roller e la presenza pacata e raffinata di Monica Bellucci): l’impianto è quello tipico del fumetto delle Giussani, anni 60 sobri e casti quanto ricchissimi di colpi di scena: in questo caso, peraltro, si è scelto un soggetto ancora più accattivante del precedente, quanto forse leggermente prevedibile nelle note finali. Diabolik è ossessionati dai furti di gioielli e pietre preziose, e la sua mania fa il pari con quella di Ginko di volerlo catturare: entrambi, persi nella rispettiva ossessione, trascurano gli affetti personali, e sembra proprio questo l’autentico, duplice motore della storia.

    Una storia che rinnova – di nuovo – il mito creato su carta, amatissimo dai sui lettori e che mai tanta fortuna aveva sullo schemo (impossibile non citare il Danger – Diabolik di Mario Bava: ma erano, chiaramente, ben altri tempi). E poi arrivano i Manetti Bros, alla luce di una consolidata esperienza nel genere (da Paura 3D al meno noto L’arrivo di Wang, lidi sui quali ci auguriamo che tornino, prima o poi) ci consegnano una nuova versione del mito di Diabolik, con la sua eleganza e scaltrezza, per una saga che è solo al secondo capitolo e che potrebbe ancora continuare. Un film che è un racconto del consacra la bellezza, a cominciare da quella dei protagonisti, ma anche quella di una regia accorta e mai banale, unita alla scelta del sedicesimo albo (che da’ il nome al film).

    Diabolik è ancora una volta il Male che seduce, attrae e soggioga tutti coloro che incontra, nonostante la sua spietatezza nei confronti degli avversari, perennemente diviso tra la consacrazione dell’amore romantico (di cui questo film è pervaso, forse anche più del capitolo precedente) e la narrazione di una singolare storia di vendetta: quella di Eva nei suoi confronti, tradita nel momento del bisogno, artefice del destino della storia. Una vicenda che, in questo episodio dall’andamento fluido e gradevole, vedrà Diabolik orfano di ciò che lo ha reso potente: il suo nascondiglio è stato violato dalla polizia, sulle prime, spiazzando lo spettatore fin da subito, mentre la sua fidata fabbrica di maschere (qui usate meno del capitolo precedente) è stata anch’essa monitorata dalle autoità. La vera domanda sarà capire come farà questa volta a salvarsi, per quanto gran parte del suo pubblico già conoscerà la risposta (se per pubblico intendiamo i suoi lettori), e si saprà perdere (anche se non ha letto l’albo nello specifico) nelle meraviglie dell’intreccio, dei colpi di scena e della passionalità dei personaggi (incluso Ginko, in una veste qui inedita rispetto al capitolo precedente, ed al classicissimo ed algido personaggio della duchessa interpretata da Monica Bellucci).

  • Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    La definizione dell’autorevole urban dictionary a riguardo della parola Pulp, difficile da tradurre in italiano, non lascia adito a dubbi: un film, un libro o una pubblicazione di altro tipo di argomento lurido e oscuro, come ad esempio un crimine. In molti casi gli argomenti di natura shockante sono affrontati come se fossero ordinari.

    Lìessenza di Pulp fiction è forse tutta qui, in quelle due frasi così incisive, a patto però che non diventi uno dei tanti film più discussi che visti, come tradizione cinefila imporrebbe subdolamente. Pulp fiction va visto, rivisto e assimilato per poterne apprezzare la bellezza antica, novantiana ed ovviamente pulp.

    Capolavoro di Quentin Tarantino del 1994, e non per modo di dire: diventato oggetto di cult per la fluidità fuori norma, per gli omaggi cinematografici e la molteplicità di riferimenti (Rocky Horror Picture Show e I guerrieri della notte, tanto per citare i più noti). Un film costruito su riferimenti da veri cinefili, capace di stordire, appassionare, spaventare e divertire: certamente l’opera “di cassetta” forse meglio riuscita di ogni tempo da parte del regista. Un regista che all’epoca era saldamente ancorato sulla rielaborazione del cinema di genere anni 70, prima della svolta pop recente che lo avrebbe consacrato al famigerato “grande pubblico”.

    La storia è sostanzialmente divisa in tre parti, e il regista ha deciso di spezzattarla e rimontarla in modo anti-casuale, stravolgendo l’ordine cronologico e riuscendo comunque a chiudere il cerchio in modo anticonvenzionale.

    In fondo non ha alcuna importanza che il regista ritagli per sè una parte minima (neanche troppo rilevante per la trama), e non importa neanche troppo che ci sia un cast di tutto rispetto (John Travolta, Samuel L. Jackson, Uma Thurman, Harvey Keitel il “risolvi-problemi” e Bruce Willis): il vero protagonista del film è il cinema amato dal regista, e declinato in decine di “salse” diverse, fatto di riferimenti – per la verità non sempre ovvi e spesso molto di nicchia.

    In ordine cronologico i fatti sono i seguenti: Vince (Travolta) si procura dell’eroina da uno spacciatore (Lance), e successivamente deve accompagnare la moglie cocainomane del suo capo (Mia, Uma Thurman) a trascorrere una serata in un caratteristico locale (Jack Rabbit Slim’s). La serata si conclude drammaticamente: la donna va in overdose per aver sniffato la dose appena procurata, e Vince la riporta al suo spacciatore al fine di praticarle in’iniezione di adrenalina al cuore. La donna si risveglia e concorda di non raccontare l’accaduto al marito.

    In questa fase viene fuori il “pulp” del film: dialoghi surreali, sarcastici, sul filo del rasoio ed estremizzati come da tradizione del cinema di genere. Il dialogo tra Mia e Vince, fatto di allusioni, imbarazzi ed nevrosi dei due personaggi è quasi l’archetipo dell’appuntamento tra due persone che sanno di non poter “spingersi oltre” pur essendo attratte l’uno/a dall’altra/o. Visivamente la scena più forte è quella della siringa al cuore, un capolavoro di tensione degno di Dario Argento, che Tarantino fece eseguire al contrario per rimontarla all’inverso.

    Successivamente Vince, assieme al suo collega Jules (S.L. Jackson), si reca in macchina da alcuni spacciatori, i quali possiedono una valigetta appartenente al loro capo (Wallace) dal contenuto misterioso (mai chiarito dal film). Nessuno sa cosa ci fosse nella valigetta: diamanti, soldi, quello che penso che sia (cit.), Sto cazzo™️… Che importa. Ha importanza solo che ne dibattiamo ancora oggi, forse. Dopo aver discusso (e dopo essere scampati miracolosamente all’aggressione da parte di un quarto spacciatore fino ad allora nascosto), i due uccidono senza pietà tutti i presenti nell’appartamento tranne uno, che porteranno con sè: poco dopo Vince gli sparerà a morte per errore all’interno della macchina. Jules si rivolge a Jimmie Dimmick (Tarantino) per avere un luogo dove fermarsi, e contatta mediante il loro capo il celebre sig. Wolf, il risolvi-problemi, il quale riuscirà a far ripulire l’auto senza lasciare traccia.

    In questa fase del film la violenza visiva (ed estetizzata) raggiunge il proprio apice, e si esaspera particolarmente l’uso del torpiloquio e del non politically-correct. Rimane nella storia la scena dell’omicidio in macchina ed il versetto biblico –  inventato – recitato a memoria da Jules.

    Poco dopo i due gangster vanno a fare colazione in un vicino fast-food, nel quale Zucchino e Coniglietta (coppia nevrotica di rapinatori alla Bonnie e Clyde) organizzano sul momento una rapina nel locale, facendosi consegnare tutti i soldi dai presenti. Il rapinatore (Tim Roth) incontra Jules, il quale dopo averlo affrontato a muso duro lo disarma. Alla fine decide di lasciarlo in vita, poichè l’essere sopravvissuto all’aggressione di poco prima lo ha fatto entrare in una fase mistica, che gli impedirà di proseguire a fare il gangster. Alla fine dona il contenuto del proprio portafoglio – quello con su scritto “Bad MotherFucker” – al rapinatore, che riesce ad fuggire con la compagna.

    Condotto quasi sulla falsariga del celebre “Un giorno di ordinaria follia” (durante la scena della finta-rapina al fast food dell’impiegato), questa fase del film caratterizza in modo eccellente altri due personaggi, e mostra l’ inatteso spessore dei personaggi di Vince e Jules.

    L’ex pugile Butch (Willis) tratta con Wallace di disputare un incontro truccato a pagamento: i suoi piani pero’ prevedono di incassare subito la somma pattuita, puntando poi su se stesso presso vari bookmaker e vincendo l’incontro, venendo meno ai patti. Nel frattempo riesce a rientrare nel motel dove lo attende la fidanzata: il giorno dopo si rende conto di aver dimenticato l’orologio appartenuto a suo padre e a suo nonno, e ritorna nel proprio appartamento a recuperarlo. Lì, pur trovando Vince ad attenderlo, riesce fortuitamente ad avere la meglio su di lui uccidendolo con l’arma che il gangster aveva lasciato sul tavolo proprio mentre usciva dal bagno.

    Mentre Butch è in fuga con la macchina, fermo ad un semaforo incontra casualmente Wallace in persona, e decide di andargli addosso con la macchina ferendolo (e ferendosi) gravemente. Da qui nasce un inseguimento a piedi che culmina all’interno di un negozio, gestito dal sadico Maynard che tramortisce i due e li porta nello scantinato per stuprarli. Mentre l’amico del proprietario, il poliziotto Zed, sta esercitando violenza sessuale sull’immobilizzato Wallace, Butch riesce a liberarsi e fa fuori lo “storpio” (lo schiavetto della coppia in tenuta sadomaso). Convinto inizialmente a darsela a gambe ritorna invece sui suoi passi, scegliendo accuratamente un’arma adatta a liberare Wallace (un martello, una mazza da baseball, una motosega ed infine una katana). Trafigge così Maynard, mentre lascia la vendetta per Wallace, che si preannuncia particolarmente lenta e dolorosa, estinguendo per riconoscenza verso l’ex antagonista il suo debito precedente. Butch ritorna al motel a bordo di un chopper e fugge da Los Angeles con la fidanzata.

    La parte conclusiva di “Pulp fiction” merita un posto d’onore all’interno della storia del cinema, non tanto per le citazioni sparse – tra cui evidentemente “Poliziotto sadico“, e quasi certamente qualche exploitation di nicchia di argomento sadomaso – quanto per il ritmo e lo svolgersi dell’intreccio. Probabilmente la parte migliore del film, recitata con grande spirito da Bruce Willis, e ricca di personaggi aggiuntivi e di micro-storie annesse (lo schiavetto, la tassista, la fidanzata del pugile).

    Alcuni dettagli del film potrebbero globalmente spiazzare il pubblico, che potrebbe non comprendere certi riferimenti o infastidirsi per l’autoreferenzialità del regista, senza contare la miriade di dettagli – che non riporto per brevità – che arricchiscono un film di quasi tre ore (!). In realtà sono proprio questi ultimi a costituirne la base della grandezza che si è tramandata fino ad oggi, offrendoci un’opera che riesce a non far sbadigliare neanche per un attimo.

    Un film che dice molto più di quanto possa raccontare una recensione, e che dipinge lo stile del primo Tarantino assieme a Le iene e Jackie Brown.

  • Matrix spiegato al popolo sovrano

    Matrix spiegato al popolo sovrano

    The Matrix è un film d’azione di fantascienza del 1999 scritto e diretto dalle sorelle Wachowski. È il primo capitolo della serie cinematografica di Matrix e vede protagonisti Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss, Hugo Weaving e Joe Pantoliano. Ambientato in un universo cyberpunk, il film presenta un futuro distopico in cui l’umanità vive inconsapevolmente intrappolata all’interno della Matrix, una realtà simulata creata da macchine intelligenti. Convinto che Neo, un hacker informatico, sia “l’Eletto” profetizzato per sconfiggere le macchine, Morpheus lo recluta in una ribellione contro i loro oppressori.

    La trilogia di Matrix (1999–2003), diretta dalle sorelle Wachowski, può essere analizzata in una chiave psicoanalitico-materialista combinando riferimenti alle teorie psicoanalitiche di Freud e Lacan e ai principi materialisti della filosofia contemporanea e delle neuroscienze. Questo approccio permette di interpretare la realtà simulata di Matrix come una metafora della costruzione dell’identità, dell’alienazione sociale e della dialettica tra mente e corpo.

    n una chiave psicoanalitico-materialista, Matrix è un’esplorazione dell’alienazione umana e delle condizioni che la rendono possibile. La trilogia riflette sul rapporto tra mente e realtà, sull’identità e sulla possibilità di emancipazione attraverso un atto radicale di consapevolezza e rottura con l’ordine simbolico dominante. Sia nella psicoanalisi che nel materialismo, l’uscita da Matrix rappresenta la lotta per una nuova soggettività, che riconosce e affronta la realtà materiale senza più nascondersi dietro illusioni.


    Metafora dell’inconscio e della realtà simulata

    In una prospettiva psicoanalitica, Matrix rappresenta la tensione tra il conscio e l’inconscio, con la simulazione digitale che funziona come un meccanismo di rimozione collettiva. La matrice agisce come il principio di piacere freudiano, mantenendo gli esseri umani in uno stato di apparente soddisfazione e sicurezza. Questo stato impedisce loro di affrontare la cruda realtà materiale della loro esistenza: sono sfruttati come fonti di energia dalle macchine, un’immagine che simboleggia l’alienazione capitalistica.

    La figura di Morpheus e la sua offerta della pillola rossa rispecchia il trauma del confronto con il Reale lacaniano: ciò che sta al di là del simbolico e dell’immaginario, ossia la verità brutale e non mediata del mondo. In termini neuroscientifici, il conflitto tra Matrix e la realtà esterna può essere visto come un’analogia del ruolo delle aree cerebrali responsabili della percezione (corteccia visiva, aree associative) nel generare una simulazione interna del mondo che è funzionale alla sopravvivenza, ma non necessariamente “reale”.


    Neo e l’identità come processo dialettico

    Neo rappresenta l’io che tenta di emanciparsi dalla rete simbolica che lo imprigiona. La sua progressiva consapevolezza di essere “l’Eletto” (una figura che potremmo connettere al Sé ideale lacaniano) avviene attraverso un processo di destrutturazione e ricostruzione identitaria. In termini psicoanalitici, Neo incarna il soggetto che rompe con l’Altro (la matrice come rappresentazione del grande Altro) per riconoscere la propria posizione nel sistema.

    Sul piano materialista, questa trasformazione può essere letta come il risveglio di un soggetto alienato che si rende conto delle condizioni materiali della propria esistenza. La trilogia, in questo senso, riflette il concetto marxiano di “falsa coscienza”: gli esseri umani, intrappolati in Matrix, accettano come naturale un sistema di sfruttamento che viene invece artificialmente prodotto.


    Simulazione e controllo: neuroscienze e biopolitica

    L’idea centrale della matrice come simulazione corrisponde alle teorie neuroscientifiche contemporanee che vedono la mente umana come una “macchina predittiva”. La nostra percezione del mondo è una costruzione del cervello basata su modelli interni e input sensoriali (Friston, 2010). Allo stesso modo, Matrix offre un mondo costruito che soddisfa le aspettative sensoriali degli esseri umani, mantenendoli sotto controllo.

    In una chiave biopolitica, questo sistema di controllo totale è paragonabile alle strutture descritte da Foucault e Deleuze, in cui il potere si esercita non solo attraverso la repressione diretta, ma tramite la modellazione del comportamento e dei desideri. Le macchine di Matrix rappresentano un potere che non solo domina i corpi, ma plasma le menti, orientando i soggetti verso una vita che li sfrutta mentre li illude di essere liberi.


    L’amore come interruzione del sistema

    L’amore tra Neo e Trinity può essere interpretato come un’eccezione alla logica del sistema. Per Lacan, l’amore è l’incontro con l’Altro in quanto soggetto e non oggetto di desiderio. Nella trilogia, questo legame sfida le regole della matrice e genera uno spazio di autenticità che sovverte il controllo totale delle macchine.

  • Inglorious Basterds: il revenge movie di Tarantino in chiave anti-nazista

    Inglorious Basterds: il revenge movie di Tarantino in chiave anti-nazista

    L’ennesima opera di Quentino Tarantino dovrebbe essere vista da un pubblico che sa bene cosa aspettarsi da lui. Notare che la storpiatura della “e” di “bastErds” serve a distinguere il film dall’omonima opera di Castellari (con cui non c’entra assolutamente nulla, nonostante se ne sia parlato parecchio).

    In breve: Tarantino sempre in gran forma, e con la propensione alle opere costruite sui multi-episodi. Uno dei migliori film di genere che ha girato di recente, senza troppi dubbi.

    I soliti detrattori un po’ chic diranno che il film non ha attendibilità storiografica, che Hitler non finì certo come descritto dal film, che la ribellione anti-nazista è stata “gonfiata” col senno di poi, e che le figure dei “Bastards” sono fumettistiche ed irreali. Ebbene, per una volta possiamo scrivere “chi se ne frega“: questo è Cinema, se non vi piace, tornate pure a qualche tisana intellettualoide coi trentenni in crisi adolescenziale – chiusa parentesi.

    Vediamola ancora meglio: i “Bastards” sono i protagonisti incattiviti dal dolore, proprio come la bella Thurman in Kill Bill, o come le ragazze sadiche di Grindhouse, che deliziano i palati più esigenti proponendo un catalogo infinito di sevizie e crudeltà. A dirla tutta, un catalogo leggermente inferiore alla media cui ci ha abituato il regista. In questo film, nonostante tutto, il dialogo domina sull’azione, che invece viene dosata con una pacatezza che ha avuto per me dell’incredibile. Molti equivoci dell’intreccio nascono da una pronuncia errata delle parole da parte dei protagonisti, ed infatti molte parti non sono state affatto doppiate per mantenere questo effetto (a proposito, Brad Pitt che parla in siciliano “cazzu-mminchia-baciamo-le-mani” è da sentire ovviamente in originale!). Una finezza, questa, che farà la gioia di chi aspetta più di qualcosa da quest’opera. Ma non bisogna neanche preoccuparsene troppo, in fondo, dato che questo film non incentra il discorso su questo, offrendo una storia molto bella ed avvincente fregandosene della credibilità storica regalandoci un azzardo di quelli che non si vedevano da tempo. Una sorta di licenza poetica da vero “terrorista dei generi”, come sarebbe piaciuto al grande Lucio Fulci.

    Le descrizioni accuratissime ed estremamente crudeli di ogni personaggio. I fumetti (che sbucano fuori sullo schermo) per indicare o descrivere i protagonisti. Il caratterista di turno che impersona il male in toto (un immenso Cristoph Waltz nella parte del sadico SS Hans Land). Le bellezze femminili (soprattutto quella di classe dell’incazzatissima Mèlanie Laurent) sono dosate con criterio, e sono sempre funzionali alla storia, oltre ad essere obiettivamente dei bei personaggi.

    Non poteva mancare, in finale, il riferimento al feticismo plantare che ormai è un marcio-marchio di fabbrica tarantiniano. In effetti questo  – nel senso migliore del termine – incarna il cinema dove conta molto il linguaggio (la forma) a discapito della sostanza (il contenuto): eppure quelle incisioni nella carne viva della svastica su ogni nazista lasciato vivo, sembrano esprimere qualcosa di troppo. Il che, intendiamoci, non guasta affatto.

    È per voi, maledetti guardoni della Fenech, adoratori di Banfi, voi che avete le videocassette originali di Deodato e Fulci, che ancora conservate il poster della Cassini, di un film di Margheriti, che osannate Vitali “col fischio o senza“. E come dimenticare la Rizzoli, la Bouquet, la Guida, il primo Abatantuono. E su, non fate finta di non conoscerli o di non sapere che Quentin ha preso parecchio da loro: se non li conoscete, siete solo chiacchiere e distintivo hipster.

  • Faster, pussycat! Kill! Kill!: il Russ Meyer che piace a Tarantino

    Faster, pussycat! Kill! Kill!: il Russ Meyer che piace a Tarantino

    Il re dell’eccesso del cinema exploitation ci da’ dentro con donne formose e aggressive, auto in corsa e violenza di strada: Tarantino e Rodriguez applaudono e ringraziano.

    Hai uno strano modo di divertirti…

    Il trio protagonista di “Faster pussycat…” è espressione estrema ed archetipica di sessismo, violenza e cinismo. La spietata Varla (Tura Satana, deceduta a febbraio 2011), la frivola Billie (una Lori Williams da capogiro) e la romantica Rosie (Haji) finito il turno di lavoro sono in giro per il deserto con le proprie auto: incrociata una coppia di giovani, Varla sfida il ragazzo ad una corsa automobilistica.

    Dopo aver perso la gara, il giovane ha una collutazione con la sfidante e viene brutalmente ucciso, mentre la sua fidanzata viene sequestrata. Mentre il trio sta ancora escogitando cosa fare della sopravvissuta incrociano un vecchio misogino da cui si fanno ospitare. Nel frattempo la ragazzina cerca più volte di scappare, e familiarizza con il figlio apparentemente ragionevole del burbero padrone di casa.

    “Tu sei per me una ragazza malata! Ricorda che ero abbastanza sana mezz’ora fa, o la pensi diversamente quando non sei in posizione orizzontale?”

    Russ Meyer sa il fatto suo: gira con maestria, caratterizza con cura anche i personaggi secondari ed accompagna il tutto con un costante tocco di ironia. Probabilmente è un’affermazione scontata, ma bisogna dare atto al regista che, probabilmente in modo inconsapevole, ha gettato le basi di Kill Bill, Grindhouse e Machete, tanto per citare tre cult recenti. “Faster, pussycut” è un b-movie ante-litteram, con tutti i limiti del caso.

    Quindi si tratta di un film intrinsecamente valido, con l’importante rivoluzione dettata da tre ragazze come assolute protagoniste dell’intreccio, quindi decisamente avanti per l’epoca in cui è stato girato, in barba a convenzioni e moralismo. Impossibile non notare la grossa pecca del doppiaggio italiano (secondo me non proprio impeccabile): questo fa perdere un po’ dell’efficacia delle battute delle tre protagoniste, e così – ad esempio – alcune allusioni di tipo sessuale diventano spaventosamente inefficaci.

    Nonostante questo, “Faster, pussycat! Kill! Kill!” è un film da godere e riscoprire: godimento puro per gli occhi di chi apprezza le forme femminili, ma anche per lo spirito pioneristico senza compromessi dei suoi personaggi.