PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Mysterious Skin racconta l’alienazione lacerante delle vittime di abusi e pedofilia

    Mysterious Skin racconta l’alienazione lacerante delle vittime di abusi e pedofilia

    Un adolescente ribelle e un ragazzo ossessionato dall’ufologia si incrociano da ragazzini, ma si perdono di vista in seguito: il loro reincontrarsi da adulti segnerà il disvelamento di una realtà traumatizzante, legata ad abusi infantili.

    In breve. Un film traumatico e realistico come pochi ne sono stati girati. Da non perdere, ma con cautela: non per tutti gli stomaci.

    Tratto dall’omonimo romanzo di Scott Heim, Mysterious Skin è ambientato in gran parte in una hicktown, che nel linguaggio gergale indica una città del sud popolata da redneck – un ambiente di provincia in cui si sviluppano i peggiori incubi dietro un’apparenza di rude normalità. Lo si vede fin dall’inizio, mediante l’inquietante parallelismo tra Neil (molestato sessualmente dal proprio allenatore di baseball) e Brian (vittima anch’egli di un abuso di cui, pero’, non ricorda nulla). Mentre il primo vive una vita dissoluta e si prostituisce fin da ragazzino, il secondo è diventato ossessionato dagli UFO – tanto da farli diventare, nella sua psiche, simbolo di quegli abusi e spaventosa allegoria del proprio passato. Le strade dei due ragazzi si separano, con una differenza fondamentale: Neil ricorda tutto degli abusi subiti, e vive una sessualità irresponsabile coniugandola con un carattere egocentrico e da sbruffone; Brian, nettamente più sensibile, si chiude completamente in se stesso, e sarà proprio Neil ad aiutarlo a tirare fuori ciò che la sua psiche ha rimosso.

    Il film segue questi due percorsi paralleli, ricchi di numerosi dettagli legati alla pedofilia ed alla scoperta prematura del sesso: nelle prime sequenze, per intenderci, i protagonisti avevano meno di dieci anni. In queste sequenze, insolite per un film pensato come un mainstream, la componente disturbing cede il passo a quella più esplicita, ed in questa sede il regista riesce a districarsi senza abusare dell’aspetto visivo più esplicito. Ovviamente l’aspetto sessuale è dichiaramente traumatizzante in due estremi: da un lato Neil che si prostituisce a pagamento, dall’altro Brian che sviluppa diffidenza e terrore per il mondo esterno e per il sesso, tanto da rifiugiarsi nello studio dell’ufologia. Anche l’incontro con la ragazzina che racconta di essere stata rapita dagli alieni, del resto, finirà per degenerare in un conflitto ed un rifiuto.

    Ne risulta un film globalmente inaccettabile per il pubblico più sensibile o moralista – proprio perchè di norma il tema trattato è considerato universalmente intrattabile. Eppure le cronache ci hanno abituato ai peggiori fatti in questo ambito, e vederle qui rappresentate in modo esplicito fa male proprio per il realismo ed il senso di trauma ripetuto sulle vittime (le scene di sesso sono, per quanto fuori campo, tutte perfettamente intuibili). Secondo il parere dello psicologo Richard Gartner, Mysterious Skin è una raffigurazione piuttosto fedele degli effetti degli abusi sessuali sui ragazzi. Molte delle quali saranno davvero insostenibili per lo spettatore, specie per l’aura di normalità da abuso – che le rende ancora più brutali di quanto non siano.

    Mi sono stufato: voglio sognare qualcos’altro.

    Il film, ad esempio in Australia, è stato bandito dalla circolazione per via delle tematiche trattate, mentre in Italia ha avuto distribuzione più o meno in sordina, per via del contenuto esplicito in termini di amore gay e pedofilo, generi tipicamente maltrattati dalla censura nostrana.

    C’è anche da aggiungere che, al di là dell’aspetto psicologico ed erotico-ossessivo dei contenuti (il finale evoca una seduta psicoanalitica vera e propria, mediante la ricostruzione dettagliata dell’episodio che Brian non ricordava), si mettono in evidenza anche piccoli dettagli – ad esempio che nell’ambiente in questione si praticasse sesso senza protezione, tant’è che il primo preservativo usato da Neil risale al suo successivo viaggio a New York. Piccoli aspetti che, nell’insieme di una simbologia esplicita paragonabile a quella di un film snuff, rendono Mysterious Skin un film da scoprire o rivedere – certo per un pubblico adulto, non in un contesto familiare o se siete alla ricerca di un film leggerino.

    Mysterious Skin farà male, come solo Requiem for a dream e pochissimi altri sono riusciti a trasmettere al pubblico. Ma è un male liberatorio, che ci ricorda orrori nascosti e tenuti segreti per anni, in grado di influenzare la psiche e condizionare le vite delle giovanissime vittime.

  • Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Cast

    Cate Blanchett
    Noémie Merlant
    Nina Hoss
    Sophie Kauer
    Julian Glover
    Allan Corduner
    Mark Strong

    Sinossi. Lydia Tár è la prima donna direttore principale della Filarmonica di Berlino. Si affida a Francesca, la sua assistente personale, per gestire la sua agenda. Mentre viene intervistata da Adam Gopnik al New Yorker Festival, Lydia promuove la sua prossima registrazione dal vivo della Quinta Sinfonia di Mahler e il libro Tár on Tár. Incontra Eliot Kaplan, un banchiere di investimenti e direttore d’orchestra amatoriale che ha co-fondato la Fondazione della fisarmonica con Lydia per sostenere le aspiranti direttrici d’orchestra. Discutono di tecnica, sostituiscono Sebastian, l’assistente direttore di Lydia, e riempiono un posto vacante di violoncello a Berlino.

    Produzione. Nell’aprile 2021 è stato annunciato che Blanchett avrebbe recitato e sarebbe stato produttore esecutivo del film, che sarebbe stato scritto e diretto da Todd Field. In una dichiarazione che accompagnava il teaser trailer nell’agosto 2022, Field disse di aver scritto la sceneggiatura per Blanchett e che non avrebbe realizzato il film se lei lo avesse rifiutato. Nel settembre 2021, Nina Hoss e Noémie Merlant si sono unite al cast e Hildur Guðnadóttir è diventata la compositrice del film.

    Le riprese sono iniziate nell’agosto 2021 a Berlino. Tutta la musica parte integrante del film è stata registrata dal vivo sul set, inclusa la esecuzione del pianoforte di Blanchett, il violoncello di Kauer e le esibizioni della Filarmonica di Dresda.

    La verità è che, fin dall’inizio, io so precisamente qual è il tempo, e il momento esatto in cui voi e io arriveremo insieme a destinazione.

    Spiegazione del finale

    A Berlino, Lydia viene rimossa come conduttrice a causa delle polemiche. Furiosa per le accuse e la mancanza di comunicazione di Lydia, Sharon le impedisce di vedere la figlia. Lydia si ritira nel suo vecchio studio e diventa sempre più depressa e squilibrata. Si intrufola nella registrazione dal vivo che avrebbe dovuto condurre e affronta il suo sostituto, Eliot. Consigliata dalla sua agenzia di management a non dare nell’occhio, torna nella sua modesta casa d’infanzia a Staten Island, dove alla parete sono appesi gli attestati di successo con il suo nome di nascita, Linda Tarr. Si commuove guardando una vecchia VHS di Young People’s Concerts in cui Leonard Bernstein parla del significato della musica. Suo fratello Tony arriva e la ammonisce per aver dimenticato le sue radici. Qualche tempo dopo, Lydia trova lavoro come direttrice d’orchestra nelle Filippine. In cerca di un massaggio, il portiere dell’hotel la manda in un bordello che si presenta come un salone di massaggi; le giovani donne siedono in semicerchio con dei numeri sulle loro vesti. Il numero 5 guarda direttamente Lydia, che si precipita fuori a vomitare. Alla fine dirige la colonna sonora della serie di videogiochi Monster Hunter davanti a un pubblico di cosplayer. Si può interpretare il finale in vari modi, in effetti: appena Lydia Tár alza la bacchetta e l’orchestra inizia la sua esibizione, una ripresa laterale del pubblico ci rivela il colpo di scena conclusivo del film, consentendo una rilettura completamente nuova dell’atto finale appena trascorso.

    Le sue speranze e il progetto a cui aveva dedicato cuore e anima le sono state sottratte senza pietà: voleva dirigere la sublime Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, e non potrà più farlo. Il suo ingresso trionfale sul palco, con Lydia avanzante con un’ira ardente verso la telecamera, si svolse in brevi istanti, con la ferocia di una belva scatenata: la donna scaccia via dal podio il suo collega designato per sostituirla, Eliot Kaplan (Mark Strong), per poi scagliarsi su di lui con furia selvaggia. Per un personaggio che all’inizio della narrazione era apparso così tranquillo, disinvolto, assolutamente padrone di sé e del suo mondo, questa è una trasformazione radicale, inconscia, inconcepibile, destabilizzante. In seguito, Lydia è condotta in un centro di benessere per un trattamento massaggiante e si trova di fronte a una situazione chiamata “l’acquario”. Incolpata di essere una predatrice, è circondata da un gruppo di giovani donne dai volti abbassati, tra cui deve scegliere la sua preferita. L’unica a sollevare lo sguardo, sfidandola con uno sguardo deciso, è la numero cinque, come la sinfonia di Mahler che Lydia non ha più potuto dirigere. La scena è ambigua e la fuga affrettata di Lydia, sopraffatta da una sensazione di nausea, riflette lo stato psicologico precario di un personaggio che non è ancora riuscito a liberarsi dei suoi tormenti interiori (e forse dei sensi di colpa). Infine, durante la sua esibizione successiva, l’orchestra filippina di Lydia esegue la colonna sonora del videogioco Monster Hunter per un pubblico di appassionati di cosplay: questo può essere visto come l’estremo oltraggio inflitto a un idolo ormai infranto, una sottolineatura della “caccia al mostro,” o forse l’epilogo nasconde qualcos’altro?

    Da un lato la realizzazione di un sogno in veste diversa da quella che avevamo prefigurato, dall’altro – forse – la distruzione assoluta del sogno.

    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=F_NxSjuprJs, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9498611

  • I miserabili: trama, cast, curiosità, produzione

    I miserabili: trama, cast, curiosità, produzione

    “I miserabili” del 1998 è una versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Victor Hugo, diretta da Bille August. Ecco alcune informazioni sul film:

    Cast Principale:

    • Liam Neeson nel ruolo di Jean Valjean.
    • Geoffrey Rush nel ruolo di Ispettore Javert.
    • Uma Thurman nel ruolo di Fantine.
    • Claire Danes nel ruolo di Cosette.
    • Hans Matheson nel ruolo di Marius.
    • Natalie Baye nel ruolo di Madame Thénardier.
    • Claire Rushbrook nel ruolo di Madame Thénardier giovane.
    • Christopher Adamson nel ruolo di Montparnasse.
    • John McGlynn nel ruolo di Père Fauchelevent.

    Recensione e Critica: “I miserabili” del 1998 ha ricevuto recensioni miste da parte della critica. Mentre alcune recensioni hanno elogiato le performance degli attori principali, la scenografia e la fedeltà al materiale originale, altri critici hanno trovato il film piuttosto lento e privo di energia rispetto ad altre adattamenti della storia. La recitazione di Liam Neeson come Jean Valjean è stata generalmente ben accolta, così come quella di Geoffrey Rush nel ruolo di Ispettore Javert. La colonna sonora e la cinematografia del film sono state anche elogiate.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Sarah Radclyffe e James Gorman ed è stato girato in varie location in Francia, tra cui Parigi.

    Curiosità:

    • Questa versione di “I miserabili” è stata girata principalmente in lingua inglese, con attori di lingua inglese che interpretano i personaggi francesi. Questa scelta ha ricevuto alcune critiche da parte di coloro che preferiscono un adattamento più fedele dal punto di vista linguistico.
    • Il film è una delle numerose trasposizioni cinematografiche del celebre romanzo di Victor Hugo. La storia è stata adattata in film, musical e serie televisive molte volte nel corso degli anni.
    • Nonostante la divisione della critica, il film ha ricevuto una nomination per l’Oscar per la miglior canzone originale per la canzone “A Heart Full of Love.”

    “I miserabili” del 1998 offre una delle tante interpretazioni cinematografiche della storia di Victor Hugo ed è considerato da alcuni come un adattamento fedele, mentre altri preferiscono altre versioni cinematografiche o teatrali della stessa storia.

  • Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Anni ’40. Shlomo preavvisa gli abitanti del suo villaggio shtetl, in Europa dell’Est, che i soldati nazisti stanno arrivando. Per salvare tutti il protagonista lancia l’idea di costruirsi un treno, fingere di auto-deportarsi e fuggire in Palestina. Metà degli abitanti si travestirà da soldato tedesco e l’altra metà da deportato…

    In breve. Uno dei migliori film mai realizzati sull’ olocausto, in un perfetto equilibrio tra tragico e comico: da non perdere.

    Si può trattare in modo ironico o satirico l’olocausto, senza retorica o cattivo gusto, e senza scadere o degenerare? A guardare “Train de vie” del regista rumeno Radu Mihăileanu, sembrerebbe proprio di sì: questo film gioca un ruolo essenziale nella cinematografia del genere, solitamente propensa a presentare solo storie tragiche (come è giusto che sia, in fondo), ma focalizzando la visuale sull’ottica di un protagonista (una vittima o, più raramente, un carnefice). Ed è davvero incredibile come anche oggi, nella giornata della memoria, questo piccolo gioiello non venga quasi mai citato.

    Molti film sull’Olocausto, al di là di eccezioni molto specifiche, possiedono come difetto la capacità involontaria di sminuire o alleggerire i fatti, presi come sono da un meccanismo di “voler sembrare” in un certo modo (ad esempio il film di Benigni La vita è bella lascia più il segno di un tragedia personale piuttosto che collettiva, mentre La settima stanza di Márta Mészáros si focalizza sul contraddittorio misticismo della protagonista, tralasciando deliberatamente da parte, per dire, la tragedia in atto ed il rapporto ambiguo tra chiesa e nazismo). Si ammette infatti, di voler concentrare l’attenzione esclusivamente sul protagonista e i suoi drammi personali, per restituire la massima empatia con il pubblico: ma ciò, di fatto, finisce troppo spesso per mettere in secondo piano lo scenario che, nel caso del nazismo, è invece fondamentale. Train de vie non solo fa questo, ma lo rende oggetto di satira (il che non implica, ricordiamo, che la cosa debba fare ridere: semmai, alla fine, provoca l’effetto contrario).

    C’è una mentalità che degenera, un modo malato da rappresentare: e pochi film lo sanno fare come “Train de vie“. Si sa ironizzare su una tragedia senza sminuirne la portata, giocando su un equilibrio delicatissimo e, soprattutto, facendolo in modo credibile: e nel frattempo uno dei protagonisti si chiede quanto potrà mai costare un biglietto per la Palestina, oppure “se deportarsi da soli ti sembri da sani di mente”.

    Train de vie è una successione incalzante di eventi, che alternano tradizioni yiddish (una parodia del tedesco con dentro l’umorismo, si dice all’inizio, ed è un po’ questa la chiave di lettura più vere dell’opera) ad imperdibili siparietti parodistici: i personaggi che si dividono in fazioni politiche o religiose, del resto, è degno di un film dei Monty Python.  il finale, poi, è un’autentica sorpresa, che solo la visione completa del film potrà far gustare appieno.

    Train de vie può essere considerato, senza mezzi termini, un capolavoro del genere, proprio perchè mostra uno scenario verosimile, possiede una visione globale della cultura e della società dell’epoca, con la capacità di fare satira efficace in chiave anti-nazista, ma rifiutando al tempo stesso qualsiasi collocazione aprioristica in una religione o un’ideologia. Buona, ed incalzante, colonna sonora di Goran Bregovic.

    Io fuggivo, credendo che si potesse fuggire da ciò che si è già visto… troppo visto.

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  • Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

    Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

    Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

    Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

    La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

    L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

    L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

    Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).