POLITICA_ (39 articoli)

  • L’orrore del semplicismo

    L’orrore del semplicismo

    Per qualche strano motivo questo blog si è posizionato, per diversi mesi, sulla ricerca “Lacan spiegato semplicemente” (con questo articolo). Come tutti i contenuti del sito, per inciso, è stato modificato e aggiornato varie volte, e mai c’è stata l’esplicita intenzione di posizionarlo su quella ricerca. Per cui non interessa troppo da un punto di vista della SEO tecnica quanto, più sottilmente, da quello del novero dei tutorial “X spiegato semplicemente“, con X variabile da “carbonara” a “filosofia zen”.

    X spiegato semplicemente è parte dello zeitgeist che stiamo attraversando, lo spirito di un tempo che aborre (come avrebbe detto Mughini) la complessità, e vorrebbe spingere il riduzionismo al punto di rendere elementare ogni concetto, ogni idea, ogni cosa, anche a costo di stravolgerne la sintassi o la semantica. Il frutto marcio di questo atteggiamento è spiegato almeno in parte dal semplicismo che spinge milioni di persone a seguire gli influencer più improbabili, che fanno del semplicismo bandiera. Viene in mente l’account Youtube dal nome How To Basic che, in tempi non sospetti – andiamo a memoria, almeno una decina di anni fa – propose uno dei tutorial fake più visti di sempre: un iPhone che veniva utilizzato per preparare una ricetta, per essere sbattuto nell’uovo, impanato, impastato e infine demolito a martellate (il video purtroppo sembra scomparso dalla rete, ed è stato rimpiazzato da un “how to basic” molto più serio). Era un video non sense che mescolava la manìa evergreen per i prodotti Apple (e la loro presunta “sacralità”) con quella emergente delle video-ricette, che spiegano passo passo e in modo semplice (aridaje) come preparare qualsiasi tipo di piatto. Quel canale prendeva in giro, a suo modo, la tendenza al semplicismo che la rete ha sempre preteso di avere, in fondo, e a cui nessuno che compaia nel mondo dei tutorial / how to sembra essere immune.

    Sono tantissime le persone che cercano spiegazioni comprensibili a cose per le quali non hanno tempo, voglia e modo di approfondire. Non mancano le suggestioni che arrivano da Google Suggest: stoicismo, induismo, buddismo, p value (sic), effetto serra, spiegati semplicemente. Vale anche per cose come il sesso, neanche troppo paradossalmente, come è possibile rendersi conto spulciando un po’ Google. Spiegare tutto in modo semplice – qualsiasi cosa significhi – è il mantra della rete e di gran parte di quella più pop, senza contare che secondo autori come Ceruti/Bellusci (nel saggio Abitare la complessità) il semplicismo può diventare una potenziale anticamera del populismo e della sua annessa normalizzazione.

    Il tema del semplicismo è stato trattato variamente in letteratura scientifica, e trova tra i suoi principali esponenti Paul Watzlawick e la scuola di Palo Alto: nel libro Change si riferisce la ricorrenza di quelle che gli autori chiamano “semplificazioni terribili“, le quali si riducono in nuce al meccanismo della negazione. Un meccanismo di protezione dell’Io variamente studiato dalla psicoanalisi, del resto, che qui trova espressione in forma duplice: non si tratta, infatti, solo di semplificare la complessità (il che spesso si traduce, a livello pratico, nell’aggirare le regole o negare i diritti altrui), ma anche di aggredire chiunque faccia notare il diniego. Una negazione che, spiegano gli autori, si traduce a più livelli, dato che si nega la complessità e al tempo stesso si nega di averla negata, il che in termini prettamente logici porterebbe ad una affermazione. Il semplicismo ortodosso, in un tragico e grottesco contrappasso, il più delle volte finisce puer per complicare o aggravare il problema originario, quando non generare frustrazione a più livelli (ad esempio se si partiva da preconcetti o ipotesi semplicemente sbagliate, senza riconoscerlo).

    Il ricorso al semplcismo nasconde una forma di negazione della complessità del mondo che, lungi dall’essere di nicchia, è molto diffusa e radicata in parte di noi. Invece di affrontare le sfide intellettuali con serietà e approfondimento, si preferisce “sbrigarsi”, riducendo ogni argomento a qualcosa che, proprio per la sua superficialità, diventa più facile da digerire. Ma questa facilità è ingannevole. La spinta del semplicismo non è innocua e non andrebbe sottovalutata. Il rischio è che, a forza di semplificare, ci priviamo di ciò che conta.

  • Uscire da X non è la soluzione

    Uscire da X non è la soluzione

    Uno strano gioco. L’unica mossa vincente è non partecipare.

    Nel film WarGames di John Badham ricorderete la sequenza in cui, dopo aver fermato l’intelligenza artificiale del supercomputer WOPR dallo scatenare una guerra nucleare, il terminale del computer mostra la scritta “A STRANGE GAME. THE ONLY WINNING MOVE IS NOT TO PLAY“.

    WOPR era un acronimo per War Operation Plan Response, un dispositivo in grado di simulare scenari di guerra nucleare. Una visione delle nuove tecnologie inquietante e – come va di moda scrivere in questi casi – profetica di ciò che viviamo in questi anni. Nello stesso film, del resto, il personaggio di David – l’hacker protagonista – aveva attivato il programma “Guerra globale termonucleare” accedendo ad un terminale di comando remoto, dal computer di casa, ritenendo si trattasse di un banale videogame. L’IA reagisce alla circostanza alzando i propri livelli di sicurezza, mentre si addestra con un numero sempre maggiore di dati e di potenziali casistiche belliche, senza fare differenza tra realtà (uno scenario di guerra effettivo) e simulazione (una battaglia simulata allo scopo di fornire informazioni ai militari).

    La morale del film è nota, e vale la pena ribadirla: l’abuso tecnologico porta sempre alla rovina, ed esistono “giochi” a cui è opportuno non giocare: l’unica mossa vincente, a quel punto, è quella di non parteciparvi affatto. Un social network come X si addestra con i nostri dati personali e le nostre storie, non è interessato a fare differenze tra reale e virtuale, possiede un potere di suggestione ben superiore a WOPR e, cosa davvero grottesca, riesce a farlo abbassando il livello di protezione e sicurezza della piattaforma, al posto di alzarlo. Un parallelismo inquietante a cui, complici le esternazioni sempre più politicizzate e radicali di Musk, molti utenti hanno risposto fermando il proprio account, sospendendolo o cancellandolo del tutto.

    Chiaro, bisogna saper dire di no. Lo facciamo ogni giorno, a pensarci, ed è una strategia di sopravvivenza nota: ci tiriamo indietro da relazioni che riteniamo poco adatte, anche se sembravano invitanti all’inizio. Cambiamo idea su una proposta di lavoro perchè precaria o mal pagata. Diciamo no a certe uscite tra amici perchè stanchi, stressati, poco focalizzati su noi stessi, poco a nostro agio – e per quanto la compagnia possa essere teoricamente desiderabile. Dire “no” è un valore aggiunto e sottovalutato, in genere. Ma il punto da cogliere è che in molti casi una discreta parte di chi sta abbandonando X è un organo di informazione, il che rischia di creare una situazione autoritaria o distopica in cui la totalità degli stessi sarà presente perchè a favore di Musk (pro-Trump / repubblicano, per estensione).

    In certi giochi, nessuna mossa è quella vincente e lo sappiamo. E sui social come X, del resto, dovrebbe valere a maggior ragione: ci relazioniamo con una maggioranza di utenti che non vediamo mai dal vivo e, plausibilmente, non vedremo mai. Bisogna saper usare i social, e non darne per scontato l’uso. Abbiamo spesso a che fare con contatti sregolati, eufemismo per dire troll, in molti casi. Rispondiamo in modo incerto o perplesso a messaggi privati inattesi, invasivi e via dicendo. Leggiamo post inconcepibili o eccessivi perchè non possiamo accettarne la presenza e la convivenza. Sono in tanti a non aver accettato le regole del gioco di X, in effetti, e in tantissimi stanno progressivamente andando via dalla piattaforma (tra gli ultimi, Internazionale). Tanto per essere chiari, proverei a spiegare per esteso perchè – da utente tutt’altro che a favore di Trump –  trovi l’abbandono in massa una mossa generalmente poco efficace alla causa, al netto di motivazioni personali di altro tipo.

    Manifesto del non-abbandono

    Alla base del tasso di abbandono di X c’è una linea di gestione della piattaforma che viene considerata troppo libertaria, al punto di minare le basi della democrazia, della reciproca convivenza e, in alcuni casi, sminuendo la portata di potenziali reati come hate speech, razzismo, cyberbullismo, apologia del fascismo e via dicendo. Fermo restando ovviamente che non tutti devono stare sui social e che qualcuno potrebbe semplicemente decidere di starne alla larga, ecco le principali motivazioni per cui trovo mediamente fuorviante uscire dalla piattaforma “per protesta”.

    La protesta, a ben vedere, va fatta dall’interno, per il semplice fatto che è impossibile cambiare qualcosa da cui prendiamo le distanze.

    Le regole possono cambiare

    Anche se ad oggi (gennaio 2025) sembra improbabile un cambio di direzione nella gestione di X (che equivarrebbe ad un cambio di proprietario, da quello che capiamo), le cose potrebbero comunque cambiare nel medio-lungo periodo. Vedremo.

    Soprattutto se persisteranno le polemiche sull’utilizzo, sulla ridotta usabilità della piattaforma, sul timore e sul disagio che provano molti utenti e sul fatto che gli inserzionisti potrebbero ritirare i finanziamenti se gli utenti non sono abbastanza vari per loro. Estremizzando, se tutti coloro che provano disagio andranno via da X, rimarranno primariamente troll a sguazzare liberamente tra loro, o saranno comunque una netta maggioranza rispetto agli utenti ordinari. E questo, naturalmente, realizza in modo preciso e macabro il “piano” iniziale voluto dal suo fautore. Chi esce per protesta, in altri termini, rischia semplicemente di spianare la strada alla normalizzazione dei contenuti violenti per cui è andato via. Come suggerisce Scully a Murder nel film di X-Files, “se me ne vado, vincono loro“. Senza contare che i troll, per loro stessa natura, sono spesso difficili da monetizzare per gli inserzionisti. E se perdi appeal commerciale, la piattaforma decade.

    Non sei tu a stabilire colpe e meriti

    Per quanto le piattaforme social siano ammantate di “democrazia” a corrente alternata (leggasi: solo quando conviene), in genere sono spazi privati, assimilabili più a centri commerciali che a piazze pubbliche. Nonostante parecchi analisi suggeriscano il contrario ed assimilino piattaforme come X a luoghi pubblici, l’ingresso in questo luogo pubblico richiede un’iscrizione, per quanto innocua possa sembrare – e per quanto si sia banalizzata l’idea di fornire i nostri dati per farlo. Quanti di noi entrerebbero serenamente in una piazza in cui non solo ti chiedono un documento all’ingresso, ma registrano almeno una parte dei nostri dati su un dispositivo non in nostro possesso? Sui social, dopati da campagne di marketing sempre più radicali e prive di scrupoli, il problema neanche ce lo poniamo. Men che meno su X dove, di fatto, aleggia una singolare e burrascosa idea di “libertà” dettata, più che altro, da egotismo e isteria di massa.

    Sembrerebbe forse l’unico punto in favore della disiscrizione di massa, in effetti, e presenta un suo fascino oggettivo: il problema pero’ è che in questo caso bisognerebbe cancellarsi da qualsiasi piattaforma social. Senza voler difendere Musk in modo acritico, per intenderci, è quantomeno curioso come le figure di Zuckerberg o di Bezos (da tempo nell’occhio del ciclone per il loro avvicinamento alle politiche repubblicane di Trump, e tutt’altro che neutri politicamente) siano poco considerate dai media e dall’opinione pubblica, e difficilmente si metta in discussione l’opportunità etica di far parte dei loro mondi. Se il criterio per cui ci togliamo da X vale per Musk, uno dovrebbe valutare seriamente di cancellare il proprio account Facebook e, a quel punto, anche quello Amazon. Chi lo farebbe?

    Cosa che farebbero in pochi, dato che i social network e gli ecommerce sono quasi un genere di prima necessità, e creano pure un effetto di attaccamento per cui, per semplificare, non ci cancelliamo per non perdere i contatti a cui magari, nel frattempo, siamo pure affezionati. Anche qui, sembra valere il mantra “if I quit, they win“: nessuno ci obbliga ad interagire con tutti, nessuno ci vieta di cercare altri spazi più flessibili.

    La cosa essenziale è essere consapevoli che esiste il diritto di cancellare l’account, inalienabile, ma al tempo stesso è poco credibile come mezzo di protesta limitarsi a dire “non gioco più”. La vera protesta si fa dall’interno, come gli hacker della prima ora hanno sempre suggerito: trovando falle nel sistema, evidenziandole, mettendole a nudo nella loro debolezza o viltà. Sarà anche utopia e sì, certmente non tutti hanno gli strumenti per farlo, ma quegli hacker spesso diventati famosi non studiavano neanche nelle università e si limitavano ad aguzzare l’ingegno.

    Del resto se queste figure mitologiche si fossero limitate a barricarsi dientro Linux e cancellare Windows e Mac OS dai loro PC, oggi non saremmo a conoscenza di molte delle falle informatiche che affliggono i sistemi Microsoft e Apple.

    I social non usano dati esatti

    Per quanto i sistemi informatici dispongano di molti dati – e per quanto la precisione possa essere elevata (anche solo per il gran numero di fonti da cui generalmente attingono), i dati non sono mai perfetti: approssimano, rendono l’idea in modo parziale, non per forza rappresentano ciò che dovrebbero. Questi errori sono subdoli e difficili / impossibili da rilevare, anche in casi banali: per intenderci, una persona potrebbe aver caricato nel proprio profilo una foto non recente, e potrebbe non essere realmente la “versione” di sè che racconta nel proprio storytelling digitale.

    Del resto non siamo obbligati a dire la verità sui social, anche se tendiamo a dare per scontato che sia proprio il contrario e che tutti attorno a noi lo facciano. Questo vale a maggior ragione dopo l’esplosione creativa di content creator e guru di vario genere, che propongono contenuti commerciali dietro una maschera di “spontaneità” che è solo marketing, alla fine. Troviamo sempre più spesso prodotti miracolosi, servizi presunti innovativi, truffe di ogni genere, donne e uomini che sembrano perennemente carichi di sensualità o infinitamente disponibili. Sono falsi d’autore che collimano solo parzialmente con la realtà, che sembrano bastarci al punto di sostituirsi alla realtà, sulla falsariga di Baudrillard e della società dello spettacolo di Guy Debord. Internet non esprime la totalità del mondo: uno studio del 2024 afferma al contrario che gli LLM come ChatGPT e Gemini sono malamente addestrati su internet, e per questo tendono a replicare passivamente il punto di vista del “popolo del web” – populista, egemonico e non per forza maggioritario come potrebbe sembrare.

    Abbandonare X perchè promuove contenuti falsi significa dimenticare questo aspetto, oltre a rischiare – alla lunga – di arrendersi alla falsa evidenza che i social siano la realtà, al posto di esserne una rappresentazione camuffata, ipocrita, grottesca e/o fuorviante. O magari una vera rivoluzione si potrà un giorno fare offline?

    Non esiste il “paradiso perduto”

    La migrazione in massa su BluSky di qualche mese fa è stata sostanziale, e (per inciso) anch’io vi ho partecipato (senza pero’ uscire da X, per i motivi che discuto qui). Ritenevo giusto stare su due piattaforme simili, anche in considerazione del fatto che molti contatti erano passati lì, e mi interessava continuare a seguirli. Questo porta a fare una considerazione ulteriore: abbandonare una piattaforma sgradita può portare a pensare che andare su un’altra sia salvifico o “balsamico” di per sè. Autori come Cory Doctorow raccontano da tempo per quale motivo non esiste la “piattaforma perfetta” mediante la teoria della enshittification: una catena di decisioni che porta ogni piattaforma social (quindi non solo X) dal sembrare un paradiso sulla terra, fino a un’overdose di contenuti commerciali e ad tossiche, tipicamente per finanziare la piattaforma in perdita finchè, dopo mille tribolazioni, finisce per collassare / perdere interesse.

    Di fatto Musk sembra puntare a rendere X sempre più simile alla board 4chan, una board di utenti anonimi di grande successo, simile a Reddit – ma incentrata per larga parte su contenuti controversi, assenza totale di moderazione e contenuti con un tempo di vita mediamente breve. Finora, tutto sommato, ha funzionato, e gli abbandoni in massa rischiano ancora una volta di renderla esattamente ciò che il suo proprietario vorrebbe: un covo di troll sregolato e piatto, conformista e tragicamente (per loro) autoriferito.

    Come se non bastasse, la scelta di mille piattaforme su cui distribuire gli utenti evoca sempre più la frammentazione del sociale, con miriadi di micro-board, distanziate e difficilmente interfacciabili tra loro, in cui ci saranno sempre più predicatori e sempre meno pensiero razionale e critico.

    A meno che, ovviamente, non si segua il mantra “if I quit, they win“.

    Non sei obbligato a leggere tutto

    Questo è un punto che X non promuove abbastanza, a mio avviso.

    Il fiume di contenuti che arrivano nelle nostre app è tale da mandarci in confusione, ma gli strumenti per evitarlo ci sono: basta cliccare sui tre puntini in alto al post che non ci interessa, e selezionare (neanche a dirlo!) “il post non mi interessa” – alla peggio si può ancora bloccare l’utente sgradito, oppure segnalarlo. Precisiamo: la segnalazione dell’era Musk di X è, per usare un eufemismo, quasi inutile: di circa una ventina segnalazioni che ho fatto, per capirci, solo una o due si sono concluse con il ban dell’utente. In fondo se scorgi qualcosa che ti scandalizza significa che vivi, in fondo, in una società libera.

    Le leggi devono essere violate dalla società per progredire

    Secondo il terzo punto del “manifesto” di Rickard Falkvinge – fondatore del Partito Pirata svedese – sulla società della sorveglianza c’è un aspetto importante da considerare: violare le regole, per quanto suoni sovversivo o criminale, è stato spesso necessario, nella storia, per far progredire la società. È capitato per le leggi dell’apartheid, con le discriminazioni di alcune minoranze e con molte leggi palesemente ingiuste che il progresso ha superato e sconfitto, anche a costo di pagarlo con il carcere o la morte dei suoi promotori.

    Di contro, un social che faccia rispettare ogni regola è, come abbiamo già visto, irrealizzabile.

    Al contrario, uno che non abbia alcuna regola sembra altrettanto utopistico, perchè alla lunga diventa ingestibile e perchè finirebbe per scaricare la colpa sui singoli utenti, al posto di assumersi responsabilità per eventuali mancanze (oltre che essere difficile da monetizzare e poco credibile agli occhi degli investitori).

    Scrive Falkvinge:

    Il progresso sociale impone la necessità assoluta di infrangere le leggi ingiuste, per mettere in discussione i propri valori, al fine di imparare dagli errori e andare avanti.

    Tutto sta nel far apprendere gli errori “giusti” e non quelli errati alla piattaforma, notificandoli e sottolineandoli a dovere. Se al contrario nessuno segnala più che razzismo, cyberbullismo e fascismo sono errori che il sistema non dovrebbe accettare, saranno normalizzati, con conseguenze non prevedibili nel mondo reale.

    Tanto vale, quindi, porsi la domanda in modo diverso: cosa posso fare di utile?

  • La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    Per l’osservatorio EIGE qualsiasi questione di genere può essere definita come qualsiasi questione o tematica determinata da differenze basate sul genere e/o sul sesso tra donne e uomini. Non è atipico che questa tematica venga riprodotta all’interno del recente horror di Eggers, diventando oggetto di una vera e propria sottonarrazione rispetto alla trama principale. Da sempre – e un po’ meccanicamente – si considera Thomas Hutter, agente immobiliare inviato nel castello del conte Orlok per fargli firmare un contratto, il vero protagonista della storia in sè. In realtà nella versione di Eggers è anche Ellen a relegarsi un ruolo di protagonista duale, rispetto alle vicende sanguinose che vengono richiamate nella trama e per l’aspetto legato proprio al sangue: del resto il sangue è vita, e sarà mia, viene ripetuto da McBurney (il capo di Thomas) più volte. (attenzione: il saggio contiene spoiler della trama)

    Inizialmente vediamo la città di Wisborg, in Germania, con Ellen che sembrerebbe vivere felicemente assieme al marito Thomas Hutter. La relazione tra i due viene delineata come profonda, toccante e romantica, ma suggerisce anche implicitamente che non sia una relazione fisica: i due coniugi sembrano non avere tempo e/o modo di avvicinare troppo i loro corpi, vuoi per il lavoro frenetico di Thomas (che arriverà in ritardo dopo essersi trattenuto in effusioni con la moglie), vuoi per una relazione di stampo tradizionalista improntata sull’inibizione reciproca, vuoi perchè (dice apertamente Thomas, ad un certo punto) non potrebbero mantenere un eventuale figlio, cosa che invece possono tranquillamente la coppia benestante di amici (che ne hanno anche un terzo in arrivo). Ellen appare intrappolata in questa visione angusta della relazione e della sessualità, e infatti la vive in maniera controversa: la prospettiva che Thomas vada via per un lungo viaggio la turba, riferisce terribili incubi (uno davvero spaventoso: sogna di sposare la Morte in persona, di voltare le spalle all’altare e constatare che tutti gli invitati sono deceduti all’improvviso), ma viene costantemente minimizzata e quasi ostracizzata nel manifestare il malessere interiore. È il tema legato ad ogni questione di genere: la donna come eterna Cassandra, condannata a non essere creduta nelle proprie affermazioni, che il pubblico sa avere un fondamento. In un momento storico in cui la psicologia e la psichiatria erano ancora ai primi passi, di fatto, non meraviglia che Ellen dopo alcune crisi di sonnambulismo venga semplicemente legata al letto, e solo l’atteggiamento progressista di Von Franz (che evoca grottescamente conoscenze occultistiche nel farlo) la libera da questo gioco.

    Vale la pena di osservare che Ellen ad un certo punto avrà una discussione con il ricco amico del marito, accusando l’uomo di essere responsabile del contagio della peste nei confronti della moglie di lui: l’uomo si limita a richiamare la donna all’ordine, e a restare al suo posto. Ellen non sembra disposta a farlo e, a quel punto, finirà per inseguire il proprio destino che è quello di redimere l’umanità con il suo sacrificio. Nel frattempo Thomas proverà gelosia per le intenzioni del Conte Orlok e si precipiterà a casa, una volta evaso disperatamente dal castello, per evitare di farli incontrare. Tuttavia la connessione tra Ellen e il villain della storia è soprattutto mentale, prima ancora che fisica, al punto che Ellen anela inconsciamente ricongiungersi al conte – con cui, si scoprirà in seguito, ha avuto una storia da giovane. Questa rivelazione cambia radicalmente il rapporto tra i due, facendolo diventare apertamente conflittuale ed instillando il sesso nella relazione nel modo più diretto: in una sequenza che non sappiamo essere o meno condizionata dall’influsso a distanza del conte, Ellen viene posseduta con brutalità dal marito (in modo traumatico per lo spettatore, che non si aspetta un’evoluzione del genere), in funzione della gelosia che prova e della “minaccia” che possa avere un rapporto con il conte. Il vampiro portatore di peste arriva, finalmente, a casa di Ellen, assicurandosi che il patto firmato subdolamente dal marito di lei venga rispettato: la terza notte la donna accetta, ma ha già concordato il proprio sacrificio con Von Franz, l’unico a conoscere le sue intenzioni. Così mentre Von Franz, Sievers e Thomas trovano Knock nella bara del conte e danno fuoco al rifugio del conte per garantire che possa scomparire con la luce del sole, non avendo più dove nascondersi, Ellen si concede al conte più volte, per tutta la notte. Continuerà a ripetere “ancora” e a farsi mordere alle prime luci dell’alba, stremata e morente, consapevole di aver salvato il mondo con la sua prima (e autentica) libera scelta.

  • Realismo capitalista potrebbe bastare

    Realismo capitalista potrebbe bastare

    La sensazione è diffusa: stiamo attraversando una notte lunga e tenebrosa che, piaccia o meno, sta cambiando la storia, nonchè la nostra percezione della realtà. Quello che cambia è soprattutto, introspettivamente, il modo in cui stiamo reagendo a questo cambiamento, che tendiamo a subire in una maniera mediamente passiva o senza troppi accorgimenti. Negli ultimi anni sono stati sdoganati molti luoghi comuni relativi alla psicologia o alla psicoterapia, che vengono praticate con maggiore disinvoltura e sono quantomeno meno tabù di quanto non fossero tempo fa. Viviamo comunque in un paese in cui è più socialmente accettabile confessarsi con il prete che parlare con un analista, e questo diventa un po’ lo specchio in cui ci deformiamo.

    In questo il capitalismo gioca un ruolo determinante, perché sembra potersi additare a causa perenne o “piovra” sul mondo in cui viviamo:  e per quanto sia facile prendersela col capitalismo se, ad esempio, siamo pagati poco (ma anche se un appuntamento romantico dovesse fallire), nessuno sembra aver trovato una ricetta alternativa al mondo che non sia basato sul capitalismo. Che come un padre severo eppure comprensivo, rigido ma in grado di concedere la grazia, ci riaccoglie pacificamente nonostante qualcuno di noi abbia “strane idee” per contrastarlo.

    Realismo capitalista di Mark Fisher, opera profetica della direzione intrapresa dal mondo (nostro malgrado), finiva su questa falsariga:

    La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre degli effetti sproporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile

    Questa frase di Mark Fisher riflette il suo pensiero critico nei confronti del capitalismo e della “fine della storia“, concetto associato alla vittoria del capitalismo liberale come sistema politico-economico definitivo dopo il crollo del comunismo. Fisher suggerisce che la pervasività del realismo capitalista, che permea ogni aspetto della nostra vita e immagina un futuro in cui non ci sono alternative al capitalismo, crea una sorta di stagnazione culturale e politica. Molto probabilmente Fischer non aveva previsto che ci sarebbero stati un gran numero di persone che arrivano a ripudiare l’occidente pur di non ripudiare il capitalismo, e lo dimostrano le simpatie sempre più aperte della classe politica e di soggetti che popolano questa terra rispetto a dittature feroci che tutto sommato, signora mia, si sta meglio con loro che con i politici che ci siamo beccati.

    Tuttavia, Fisher vedeva una luce in quella “lunga e tenebrosa notte della fine della storia“: anche il più piccolo segno di un’alternativa al dominio capitalista potrebbe avere un impatto significativo. La deviazione dalla norma assume un’importanza vitale anche nel piccolo, anche nella nostra capacità di fare scelte diverse per quanto le stesse sembrano insensibili al mondo che ci circonda. La rigidità del realismo capitalista finisce del resto, per definizione, per rendere qualsiasi deviazione dalle sue norme o aspettative potente e significativa, per quanto poi il meccanismo monologante generale diluisca e sminuiscono questo aspetto. Anche un evento apparentemente insignificante può aprire la possibilità di immaginare e costruire alternative politiche ed economiche. Dobbiamo stare attenti probabilmente a non essere noi stessi a finire per autoboicottarci, forse. Potrebbe bastare. Nel senso che sarebbe già qualcosa.

    Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile.

    (nella foto: Fisher che da’ la mano a Lacan, immaginato da Midjourney)

  • Jacques Ellul, il teologo che teorizzò la propaganda nel 1962

    Jacques Ellul, il teologo che teorizzò la propaganda nel 1962

    Tra gli studi sull’anarchismo meritano una menzione particolare quelli incentrati sul suo legame con il cristianesimo, di cui il teologo Jacques Ellul fu precursore. L’anarchismo cristiano fa riferimento ad un passaggio della Bibbia (Libro dei Giudici) in cui sembra si faccia spazio, nel Discorso della montagna, all’idea che un sovrano avrebbe provocato solo oppressione e repressione sul popolo, facendo appello come possibile alternativa ad un popolo che possa obbedire a Dio senza alcun intermediario. Idea affascinante quanto utopica, verrebbe da dire ancora oggi, tanto più se si considerano gli studi di Ellul sul potere della propaganda e sulla sua capacità di guidare il nostro agire. L’idea di propaganda è, forse non a caso, declassata a prodotto commerciale con cui costruire pseudo-sottoculture alternative: felpe, magliette, cappellini modello I want to believe, io desidero credere in qualcosa, sono consapevole della propaganda e la combatto dall’interno, facendomi guidare da un potere insito negli e-commerce e senza assolutamente mettere in discussione il capitalismo, motore immobile dell’universo. Sarà utopico, sarà inconcepibile, sarà contraddittorio? Non importa, perchè la propaganda ha cristallizzato certe idee e le ha iniettate nella nostra mente da tempo, ed è forse troppo tardi per tornare indietro.

    Il saggio Propaganda (J. Ellul, 1962) non è solo indicativo della propaganda politica, che sarebbe già di per sè clamoroso per la quantità di riferimenti e approfondimenti in esso presenti. Ciò che rende unico il lavoro di Ellul (dei primi anni Sessanta, recentemente pubblicato in Italia da Piano B editore) è nel titolo completo dell’opera: “come si formano i comportamenti degli uomini“. Hai detto niente. Una riletture della propaganda in chiave non solo ideologica, tecnica e morale, ma altresì psicologica, sul piano sociale e come chiave di volta per determinare il nostro agire quotidiano. Sicuramente inquietante come idea, ma realistica.

    Pubblicato a Parigi nel 1962, Propaganda di Jacques Ellul è un saggio politico poderoso e approfondito, di circa quattrocento pagine dense di riferimenti politici d’epoca (un intero capitolo, quello finale, è dedicato alla propaganda di Mao Zedong, ad esempio). L’idea dell’educazione marxista permanente, per intenderci – ma anche quella dell’indottrinamento di massa, in vista di un futuro in cui quel tipo di potere possa consolidarsi. Un classico della propaganda, insomma, che culmina con l’idea del lavaggio del cervello dei prigionieri politici già sperimentato da altre nazioni.

    Diventa indicativo, soprattutto, il concetto indicato da Ellul come “cristalizzazione psicologica“, ovvero il processo mentale secondo cui l’agire, i pregiudizi, i pensieri vengono incanalati e globalmente chiarificati dall’incedere della propaganda, che trova una risposta ad ogni incertezza e fornisce risposte chiare, non contraddicibili, prive di dubbi e incertezze. L’individuo ha bisogno di giustificazioni per votare, comportarsi nella vita di ogni giorno, vivere la propria esistenza, e la propaganda ben costruita può abilmente tessere una rete di relazioni, idee e pensieri in grado di dargli supporto incondizionato. Così facendo l’umanità, conclude Ellul, finisce per perdere ogni spirito critico e ogni capacità di flessibilizzare il pensiero, rifugiandosi nelle false certezze cristalizzate o cementificate offerte dalla propaganda. Il saggio è del 1962, è bene ricordarlo, ed è ampiamente influenzato dallo studio della propaganda dei regimi (ferita all’epoca ancora aperta): del resto si applica con disinvoltura anche oggi alle nuove tecnologie e alla tecnocrazia dei social network. Questi ultimi, lungi dal favorire il libero scambio di idee, si configurano sempre più come rigide macchine di ingegneria sociale, dove il consenso viene fabbricato per via algoritmica.

    Tale processo di cristallizzazione ricorda per altri versi il meccanismo di difesa inconscia dell’Io scoperto dai tempi di Freud, che si rifugia in una struttura rigida per proteggersi dall’angoscia dell’incertezza del vivere quotidiano. Come nella più classica nevrosi, l’individuo cede il proprio potenziale creativo e dialettico, preferendo il rassicurante conforto di una narrazione preconfezionata che non richiede sforzi critici. Laddove il Sé potrebbe abbracciare la complessità e la fluidità del reale, la propaganda lo spinge a un processo regressivo: la dipendenza infantile da un’autorità superiore, un papà autoritario che offre verità assolute, schemi binari di interpretazione del mondo. È il trionfo del Super-Io autoritario sulla spinta del principio di piacere, sulla forza dirompente della pulsione di vita, che potrebbe (e forse dovrebbe) invece sovvertire l’ordine simbolico imposto.

    Tale dinamica – lungi dall’essere spenta, al giorno d’oggi – non è altro che la codificazione del controllo sociale e del dominio sistematico sull’individuo. La propaganda non è solo un mezzo, ma un fine: eliminare ogni possibilità di dissenso, sabotare alla radice l’autonomia di pensiero, che è il primo motore del cambiamento radicale. L’anarchismo, che rifiuta ogni forma di autorità imposta, si oppone alla cristallizzazione descritta da Ellul proprio perché ne riconosce l‘essenza mortifera: cementare l’immaginazione, ridurre l’umano a ingranaggio, spogliare l’esistenza della sua componente più ribelle, il pensiero critico. Nel mondo descritto dalla propaganda, non c’è spazio per l’utopia, per il sogno di una società senza gerarchie e confini. La propaganda costruisce una gabbia invisibile in cui il potere si autoalimenta, soffocando la voce dell’individuo e relegandolo al ruolo di spettatore passivo di una realtà predeterminata.

    Di Jan van Boeckel, ReRun Productions - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44342274
    Di Jan van Boeckel, ReRun Productions – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44342274