POLITICA_ (39 articoli)

  • Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

    Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

    Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

    Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

    La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

    L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

    L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

    Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).

  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.

  • La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    Secondo il regista Jean-Marie Straub, La classe operaia va in paradiso fu la “pellicola infame”, da mandare al rogo senza mezzi termini. Sui “Quaderni piacentini”, il film venne accusato di un imprecisabile revisionismo da Goffredo Fofi. Ad oggi, molta gente si interroga ancora su quel che rimane della classe operaia, sul suo significato, assimilandola spesso e volentieri al lavoro degli sfruttati di ogni ordine e grado – o peggio, declassando la questione come vetusta, utopistica o superata.

    Il film di Petri, come spesso accadde nella sua filmografia, provocò divisioni politico-sociali laceranti, facendo perno su un registro neorelista: i personaggi sono tipi comuni, che potremmo aver conosciuto nella nostra vita, e che si battono – disillusi – per un obiettivo più che per un ideale. Al centro del film c’è la figura di un operaio vittima di un incidente sul lavoro, interpretato da Gian Maria Volontè, che si ammazza di lavoro a cottimo “per queste quattro lire vigliacche“, come dirà lui stesso in seguito.

    L’individuo è uguale ad una fabbrica… de merda!

    Lulù Massa è, in altri termini, un operaio conformista e sostenitore del lavoro a cottimo (formula che prevede di essere pagati non in base al tempo, bensì alla produttività), il che gli permette di tenere uno stile di vita al di sopra delle proprie aspettative. Nel frattempo, i gruppi extra-parlamentari, all’ingresso della fabbrica in cui lavora, contestano le modalità di lavoro in fabbrica, evidenziando contraddizioni di forma e di modi con i sindacati.

    Come spesso avviene nei film di Petri, l’ambientazione è radicata in una città ed un dialetto specifico, che qui è Milano (anche se la fabbrica si trovava a Novara, in realtà) mentre in La proprietà non è più un furto era Roma. La fabbrica è rappresentata come un ambiente alienante e prevaricante, con alcune inquietanti figure di cronometristi addetti a misurare i tempi di lavorazione dei singoli operai, e mettere pressione a quelli che non si adeguano. Inutile sottolineare che Lulù viene preso come modello esemplare di produttività dalla dirigenza, attirandosi l’odio di tutti gli altri colleghi.

    Diretto da Elio Petri e scritto dallo stesso assieme ad Ugo Pirro, La classe operaia va in paradiso è il dramma di un uomo solo, spinto a lavorare a ritmi infernali per via della situazione difficile che vive in casa, con una donna divorziata ed il figlio che si trova, suo malgrado, costretto a mantenere. Un uomo che cadenza la propria vita sul lavoro senza badare a null’altro, perdendo interesse anche per il sesso per via dei ritmi produttivi della fabbrica che lo sfiniscono. Non è un caso, a tale riguardo, che l’unico all’appello all’”amore” per gli operai sia quello che ne accompagna l’ingresso in fabbrica: trattate la vostra macchina con amore.

    Fino a che un giorno, maneggiando i soliti macchinari, si taglia un dito: la circostanza viene presa come caso limite per indire finalmente uno sciopero. E prendere finalmente consapevolezza del proprio precariato, ma il film non si limita a cullarsi nell’assunto bensì, realisticamente, lo porta alle ulteriori conseguenze.

    Si affianca a Lulù la figura premonitrice di Militina (“io sono diventato matto in fabbrica“), un ex compagno di lavoro attualmente rinchiuso in manicomio, che evoca da vicino il compagno dell’anarchico Bonifacio, che ha seguito la stessa sorte in Chi lavora è perduto. Militina dice la verità, sia pur in pochi momenti di lucidità, sulla condizione alienante degli operai e sull’avidità dei padroni: ed è il punto di partenza del cambiamento di Lulù. Che improvvisamente, da stakanovista puro, diventa un operaio ribelle; e nel farlo risulterà paradossalmente inviso sia ai colleghi (che fondamentalmente non gli danno troppo credito) che gruppi extraparlamentari (che considerano il suo incidente sul lavoro solo opportunisticamente) che ai padroni, che usano il suo licenziamento come “arma” per intimidire tutti gli altri.

    Dopo aver passato in rassegna vari simboli del consumismo (tra cui un libretto di azioni, vari utensili da cucina ed un zio Paperone gonfiabile), Lulù si chiude in casa, finchè non vanno direttamente i sindacalisti a trovarlo: sono riusciti a farlo riassumere. Per quanto si senta tirato indebitamente in ballo e sfruttato ad ogni livello, accetta di tornare al suo vecchio impiego. Nella scena finale, durante il lavoro in catena di montaggio racconta un sogno, in cui ha visto il Militina sfondare un muro a testate, il che assume valenza evidentemente simbolica. Ma gran parte del discorso, tuttavia, viene travisato o mal percepito dai compagni di lavoro, perchè i macchinari producono troppo rumore e la maggioranza delle sue parole non è nemmeno udibile agli altri.

    Lulù è un personaggio fuori da ogni schema: se all’inizio nega la propria condizione precaria, in seguito presenta un risveglio di coscienza, che si rivela tragicamente quasi del tutto inutile. Il problema sollevato dal film, a questo punto, non è tanto sulla falsariga di chi non partecipa alla lotta, semmai risiede nell’indifferenza dei padroni e, per estensione, delle istituzioni. E c’è naturalmente il suo personaggio, sballottato tra un iniziale conformismo (suo e della compagna) nell’imitare i modelli consumistici che li stanno distruggendo, a finire con una rivolta confusa, rabbiosa quanto sostanzialmente strumentalizzata da tutti gli altri. Valeva per la condizione operaia dell’epoca, ma potrebbe valere – per estensione – in molti altri ambiti lavorativi di oggi: il problema, forse, è anche la presenza di numerosi epigoni del primo Lulù, per i quali non esiste alcun problema e si deve solo lavurà. Oggi, magari, li avremmo chiamati con un termine molto di moda come “negazionisti“.

    E adesso, adesso cosa sono diventato? Lo studente dice che siamo come le macchine. Ecco, io sono come una puleggia, come un bullone. Ecco, io sono una vite. Io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso! Io propongo subito di lasciare il lavoro. Tutti! E che non lascia il lavoro è un crumiro e un faccia de merda!

  • La città delle donne: una satira felliniana contro il femminismo acritico

    La città delle donne: una satira felliniana contro il femminismo acritico

    Durante un viaggio in treno, un uomo decide di seguire la sua compagna di viaggio, dal quale è rimasto stregato: finirà in un hotel dove ha luogo un convegno di femministe, e sarà solo l’inizio di un percorso surreale nel suo vissuto.

    In breve. Spettacolare visivamente quanto frammentato; per certi versi, del tutto disorientante. Probabilmente si guarda meglio senza porsi troppi interrogativi, per quanto sia lontano dall’essere “il” film perfetto.

    Scritto e sceneggiato da Fellini e Zapponi, La città delle donne rientra sostanzialmente nel genere surrealista: a poco servirebbe, in questo ambito, una ricostruzione dettagliata del suo intreccio, fedele esclusivamente al flusso di coscienza registico. A poco servono, allo stesso modo, le interpretazioni basate sulla psicoanalisi (vedere nel treno e nella galleria un simbolismo legato al coito è scontato quanto, probabilmente, riduttivo), e questo perchè basta vedere il film per lasciarsi addosso una sensazione spiazzante.

    In primo piano c’è il dramma di un bon vivant che, suo malgrado, vive il sogno erotico di andare in una città di sole donne, ma senza sfiorarne nemmeno una. Snaporaz viene ammaliato dalla donna in treno che lo trascina in un hotel, nel quale è in corso un congresso di femministe militanti: neanche a dirlo, viene guardato con sospetto, scambiato per un giornalista e poi deriso dalla donna che lo aveva attratto, la quale mostra pubblicamente le foto che gli aveva fatto di nascosto (non sarebbe difficile immaginare una situazione del genere oggi, del resto, nell’era dei social, del bullismo virtuale e del body shaming).

    Al tempo stesso, ne “La città delle donne” emerge una visione sul mondo femminile a tutto tondo, ovviamente dal punto di vista di un maschio etero (come specificherebbero in alcuni ambienti oggi, con il rischio concretissimo che il film li faccia ancora una volta inorridire). C’è la ragazza senza scrupoli, che usa la propria avvenenza per dettare le regole – facendo fantozzianamente soccombere uno Snaporaz che si credeva audace – c’è la giovane più semplicemente soubrette o superficiale, c’è quella apparentemente dolce quanto inacidita, ci sono varie gradazioni di femministe (da quelle più hippie a quelle, per così dire, che si limitano a strizzare l’occhio all’idea senza capirla troppo). Peraltro la rassegna di tipi, puramente grottesca o addirittura satirica, considera anche anziane miti e premurose, ragazze che fanno uso di droghe, popolane rustiche e affamate di sesso – e poi, naturalmente, una delle fantasie erotiche più comuni nell’uomo: le donne poliziotto.

    Nella casa del playboy Xavier Katzone (nomen omen, probabilmente) si svolge la seconda parte del film: qui appaiono una serie di complessi simbolismi. Una festa orgiastica completamente surreale, ma soprattutto Snaporaz che scopre la singolare collezione di orgasmi registrati: sono quelli delle sue innumerevoli amanti, che il padrone di casa ama riascoltare premendo dei pulsanti. Tali pulsanti sono disposti lungo una doppia parete ricoperta di marmo, la quale evoca, pure abbastanza chiaramente, i loculi di un cimitero: al netto di ciò, verrebbe quasi da pensare al decadente nichilismo de L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, con il protagonista che riascolta ossessivamente i propri ricordi.

    Certo è che La città delle donne, con la sua interminabile contrapposizione tra vari tipi di donne (e al netto di qualche lungaggine che potrebbe renderlo, alla lunga, vagamento indigesto), finisce per rimanere impresso per le esagerazioni erotiche (a tratti quasi le stesse del Tinto Brass più politico, per quanto meno esplicite). Ma quello che conta davvero è l’attitudine satirica portata al parossismo, con il povero protagonista in bilico tra un istinto da latin lover (la cui riuscita, peraltro, resta tutta da verificare) ed un’attitudine malcelata alla ricerca sincera di una donna che, finalmente, possa andare d’accordo con lui.

    La reazione della stampa e delle femministe dell’epoca non tardò ad arrivare: il regista volle coinvolgere nel cast autentiche militanti, le quali (neanche a dirlo) lo contestarono duramente durante le riprese, ed è abbastanza sicuro che un film del genere non sia stato apprezzato dagli ambienti più oltranzisti. Qualsiasi critica in tal senso, ancora oggi (al netto della rappresentazione di una militanza calato in ideali giusti, senz’altro, quanto drogati da slogan ed autocelebrazioni di dubbia efficacia) dovrebbe considerare che La città delle donne non è un film politico. Pensare che lo sia implica non averlo visto; piuttosto, si tratta di un lavoro dalla connotazione personalistica incentrato sul vissuto e sulle esperienze di vita del regista, nel disperato tentativo di trovare una quadra e proporre più una riflessione filosofica che una storia compiuta (un sogno di più di due ore, del resto, resta molto difficile da credere possibile).

    Al tempo stesso, parte della critica riconobbe apertamente la potenza visuale – più che narrativa – della storia, esaltandolo come film originale e significativo quando, per certi versi, troppo diluito in passaggi verbosi, sussurrati, in cui emerge esclusivamente la figura di Snaporaz come elemento quasi del tutto passivo, impotente nei confronti della realtà che lo circonda. Una realtà in cui convivono diverse facce, ed in cui troverà donne di ogni genere (questa è la buona notizia), per quanto (e qui arriva la cattiva notizia) si troverà a soffrirne gli inevitabili difetti.

  • L’Anti-Edipo di Deleuze-Guattari illustrato da un’intelligenza artificiale

    L’Anti-Edipo di Deleuze-Guattari illustrato da un’intelligenza artificiale

    Vedere l’Anti-Edipo: vedere un corpo senza organi. Guardalo sul serio, crearne uno. Meglio: chiedere ad una macchina digitale di creare una macchina desiderante. Sembra quella di Matrix. Ci abbiamo provato con Midjourney e questo è il (notevole) risultato. Illustrare Deleuze e Guattari mediante l’interpretazione di una macchina, letteralmente.

    L’Anti-Edipo è un’opera filosofica scritta da Gilles Deleuze e Félix Guattari che esplora le dinamiche del desiderio, del potere e dell’inconscio. È un testo complesso che critica le teorie psicoanalitiche di Freud e cerca di ridefinire la relazione tra individuo e società. Un’intelligenza artificiale può offrire una prospettiva interessante sull’Anti-Edipo, analizzando e sintetizzando i concetti chiave.

    Questo testo affronta la natura della soggettività, il funzionamento del desiderio e la struttura del potere. Un’intelligenza artificiale potrebbe esaminare come Deleuze e Guattari sfidano la psicoanalisi tradizionale, proponendo una visione del desiderio come forza sociale e individuale che va oltre le costrizioni culturali. Di suo, un’IA potrebbe utilizzare esempi e analogie per rendere più accessibili concetti complessi come la “macchina desiderante” o il concetto di “Corpo senza Organi” (CsO), facilitando così la comprensione per chiunque si avvicini per la prima volta a queste idee. La tecnologia può pertanto aiutare a scomporre concetti complessi e a offrire una panoramica degli argomenti trattati in Anti-Edipo.