POLITICA_ (39 articoli)

  • La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    “La zona di interesse” è un film storico del 2023 scritto e diretto da Jonathan Glazer, una co-produzione tra Regno Unito, Stati Uniti e Polonia. Liberamente ispirato al romanzo del 2014 di Martin Amis, il film si concentra sulla vita del comandante tedesco del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolf Höss, e di sua moglie Hedwig, che vivono con la famiglia in una casa situata nella “Zona di Interesse” accanto al campo. I protagonisti sono Christian Friedel nel ruolo di Rudolf Höss e Sandra Hüller in quello di Hedwig Höss.

    Lo sviluppo del film è iniziato nel 2014, in concomitanza con la pubblicazione del romanzo di Amis, che a sua volta trae parzialmente ispirazione da eventi reali. Jonathan Glazer ha scelto di raccontare la storia della famiglia Höss piuttosto che dei personaggi fittizi del libro, conducendo un’approfondita ricerca sulla famiglia per realizzare un’opera che demistificasse i perpetratori dell’Olocausto, presentandoli non come “mitologicamente malvagi”, ma come esseri umani reali. Il progetto è stato annunciato ufficialmente nel 2019, con A24 confermata come distributore. Le riprese principali si sono svolte intorno al campo di concentramento di Auschwitz nell’estate del 2021, con ulteriori riprese a Jelenia Góra nel gennaio 2022.

    “La zona di interesse” è stato presentato in anteprima al 76º Festival di Cannes il 19 maggio 2023 e distribuito nelle sale statunitensi il 15 dicembre 2023. Il film ha ricevuto il plauso della critica e incassato oltre 52 milioni di dollari. Tra i riconoscimenti, ha ottenuto cinque nomination ai 96º Premi Oscar, vincendone due: Miglior Film Internazionale (il primo per un film britannico non in lingua inglese) e Miglior Sonoro. Inoltre, ha conquistato il Grand Prix a Cannes, tre premi BAFTA, incluso quello per il Miglior Film in Lingua Straniera, e ricevuto tre nomination ai Golden Globe. La National Board of Review l’ha incluso tra i cinque migliori film internazionali del 2023.

    A Berlino, Rudolf Höss viene incaricato da Oswald Pohl di dirigere un’operazione che porta il suo nome. Questa operazione prevede il trasporto di 700.000 ebrei ungheresi nei campi di concentramento, destinati al lavoro forzato o all’eliminazione. Questo incarico gli permetterà di tornare ad Auschwitz e di ricongiungersi con la sua famiglia. Durante una festa organizzata dall’Ufficio Centrale Economico e Amministrativo delle SS, Höss partecipa con un atteggiamento apatico. Successivamente, al telefono con sua moglie Hedwig, confessa di aver passato il tempo alla festa riflettendo su quale fosse il modo più efficiente per gasare i presenti.

    Mentre lascia il suo ufficio a Berlino, Höss scende una scala e improvvisamente si ferma, conati di vomito lo travolgono mentre fissa nel buio dei corridoi del palazzo. Nel presente, l’Auschwitz-Birkenau State Museum viene pulito da un gruppo di inservienti, simbolo della memoria e della necessità di preservare i luoghi della tragedia. Tornando al 1944, Höss riprende la discesa lungo le scale, immergendosi sempre di più nell’oscurità.

    Il finale di The Zone of Interest è profondamente simbolico e suggerisce un contrasto tra il passato e il presente. La scena di Höss che scende le scale rappresenta metaforicamente la sua discesa nella disumanità e nella depravazione morale, un viaggio sempre più profondo nell’oscurità, che è sia fisica che spirituale. I conati di vomito potrebbero indicare un momento di rigetto fisico o emotivo, ma l’assenza di un reale pentimento mostra la natura automatizzata e spersonalizzata delle sue azioni.

    La presenza dei custodi nel museo di Auschwitz oggi sottolinea l’importanza della memoria e della riflessione su ciò che è accaduto. L’alternanza tra i due periodi rafforza l’idea che, nonostante il tempo passi, il peso di quegli eventi rimane tangibile, così come la responsabilità di ricordarli e di non dimenticare l’orrore causato da individui apparentemente “ordinari”.

  • M. Il figlio del secolo di Joe Wright è la miniserie sulla nascita del fascismo

    M. Il figlio del secolo di Joe Wright è la miniserie sulla nascita del fascismo

    La visione del regista Joe Wright per la sua miniserie su Mussolini si colloca in uno spazio estetico e narrativo audace, quasi sperimentale, evocando suggestioni che si intrecciano tra il passato e la cultura contemporanea. Wright stesso descrive la sua miniserie M (ispirata al celebre romanzo di Scurati) come un singolare «incrocio tra L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, Scarface e la cultura rave degli anni ’90». Da un lato, in effetti, il richiamo al capolavoro avanguardista di Vertov (in cui si narrava una storia destrutturata, come un lungo documentario privo di didascalie) suggerisce un approccio alla macchina da presa vivido e frammentario, in grado di catturare l’energia di un’epoca in transizione.

    I toni evocano quelli di Terry Gilliam, per certi versi, con un insolito e marcato gusto per il grottesco e la rappresentazione parodistica. La macchina da presa è onnipresente, alternandosi tra monologhi di Benito Mussolini che guarda la macchina da presa e fascisti che progressivamente prendono il sopravvento in Italia, in un clima di crescente violenza e sopraffazione. L’influenza del capolavoro di De Palma conferisce un tono in qualche modo epico alla narrazione, in cui la figura del futuro dittatore italiano assume la parvenza di un anti-politico puro, pronto a rinnegare la democrazia e il potere stesso delle elezioni, calcolatore ed utilitarista nella politica, nonchè personaggio al limite del tragico.

    E se la narrazione racconta la fascinazione del potere, la conquista del governo sfruttando modalità quasi tribali, lo dobbiamo alla possente colonna sonora di Tom Rowlands, uno dei The Chemical Brothers assieme a Ed Simons.Una musica carica di suggestione, evocazione, brutalità, in grado di assumere un tono spiazzante per via della evidente ucronia, e che in molti frangenti ha fatto quasi più discutere di per sè rispetto ai contenuti della miniserie. Con questa miscela unica, Wright sembra intenzionato a smantellare le tradizionali narrazioni storiche, rivelando invece la complessità, l’ambiguità e, soprattutto, la pericolosa attrattiva di un’ideologia che ha sedotto le masse. Una scelta che promette di sorprendere, dividere e, soprattutto, far riflettere.

    Contenuti che dovrebbero essere noti ai più: M. Il figlio del secolo di Joe Wright – disponibile su Sky e Sky Go – narra la storia dell’ascesa al potere di Benito Mussolini, dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento nel 1919 fino al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925.

    L’idea dell’opera nasce nel 2021 dopo l’incontro tra Joe Wright e il produttore Lorenzo Mieli, il quale propone una serie su Mussolini che il regista classe 1972 (noto in passato per un’altra notevole rielaborazione storica, quella su Winston Churchill ne L’ora più buia).

    «Sono stato molto attento a raccontare la verità senza essere didattico, ho cercato di capire senza simpatizzare, mantenendo una distanza critica […] A livello più personale è una serie sulla mascolinità tossica, che non è qualcosa di diverso da noi, ce l’abbiamo dentro.» (Joe Wright, Elle)

    Il tono di Wright è quantomeno insolito, ed evoca analogie con L’ora più buia: non si conferisce spessore tanto alla vicenda storica in sè, quanto ai singoli protagonisti (D’Annunzio, ad esempio) e ai movimenti culturali e militari che si muovono più o meno dietro le quinte all’epoca (futuristi, arditi). E poi naturalmente c’è Benito Mussolini, interpretato da un Luca Marinelli perfetto, cristallizzato nell’immagine del Duce a cui conferisce uno strano e insolito spessore, al limite del grottesco, in cui non sembrano mancare riferimenti più o meno impliciti addirittura al mondo della cultura pop (Mussolini aviatore evoca, in qualche modo, il personaggio di Marco all’interno di Porco Rosso, per il quale è difficile non pensare ad un tributo).

    A livello più personale è una serie sulla mascolinità tossica, che non è qualcosa di diverso da noi – ce l’abbiamo dentro. È proprio così (fonte): anche Deleuze sottolinea in Millepiani che il fascismo non è solo un fenomeno storico o politico ma una tendenza, una attitudine interiorizzata che si insinua nel quotidiano – anche al di là della politica, un “fascista cristallizzato” dentro ognuno di noi, a cominciare da certi gesti e desideri più comuni. Il fascismo non si manifesta solo attraverso burocrazie e strutture oppressive di stato, ma anche nelle micro-dinamiche personali, nei desideri che si conformano e nei sistemi di potere che perpetuiamo inconsciamente e che favoriscono indirettamente la diffusione delle prime.

    Wright sembra consapevole di questa complessità, cercando nella sua serie non solo di ritrarre Mussolini come figura storica, ma anche di esplorare il terreno fertile che permette l’emergere di tali figure: quel fascista che, per Deleuze, «si nasconde nei nostri cuori». Per questo assistiamo alla violenza insostenibile dei fascisti contro i socialisti, all’assalto della sede dell’Avanti!, alla opportunistica alleanza con D’Annunzio a Fiume, intervallata dalla figura di Mussolini aviatore che si reca al primo congresso dei fascisti a Firenze, osannato fin da subito.

    Una serie da non perdere.

  • I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    Quattro ragazzini trovano uno sconosciuto accasciato in spiaggia, si incuriosiscono e lo svegliano. Fuggendo via, vengono brutalmente colpiti a morte da un gruppo di militari, mentre l’uomo (che si scoprirà essere Tiresia, la cui lingua è incomprensibile alla maggioranza delgi uomini) rimane inebetito ad assistere alla scena.

    Tu ci vedi, ma pur vedendoci non vedi in che abisso sei caduto è la citazione, attribuita a Tiresia, dall’Antigone di Sofocle da cui trae ispirazione questo film, che ne da’ il via dopo un inizio traumatico (la morte di quattro bambini, idea di per sè in controtendenza rispetto alla maggioranza delle pellicole).

    A dirla tutta, si potrebbe assistere alla visione de I cannibali anche senza sapere nulla del classico di riferimento, tanto la regia di Liliana Cavani è concisa, sintetica ed efficace. Antigone è il personaggio a tutto tondo che esce volutamente fuori dalle righe, consapevole della carica etica e rivoluzionaria del suo gesto, un gesto che la società utilitaristica e narcotizzata non può capire e che, per questo, verrà martirizzata dal sistema. Simbolo della libertà di coscienza e derisa dal potere capitalistico (ci sono più sequenze nel film che esprimono questa metafora), nell’antica mitologia Antigone sfidò le autorità, a prezzo della sua stessa vita, pur di garantire una degna sepoltura al fratello Polinice, contrastata dal re di Tebe che, dal canto suo, voleva proibirla al fine di consolidare il proprio potere politico.

    Ne I cannibali (noto all’estero anche con il titolo The year of the cannibals, e distribuito in Italia da Raro Video) c’è anche spazio anche per una profonda considerazione sociologica: in un mondo militarizzato di soldati cinici e obbedienti al Super Io del Potere, i media sono talmente allineati al potere da fare le sue veci, catturando personalmente uno dei dissidenti, facendo un grottesco annuncio al telegiornale in pompa magna. Basti poi considerare la sequenza in cui Tiresia prova a scappare e, invece di provare a riprenderlo, il commentatore TV si lascia andare ad una surreale telecronaca dell’evento per capire come un film del genere, per quanto dall’andamento serioso, non manchino momenti di cupa, autentica ironia.

    Tu sei mio padre, e tu sei… il mio padrone. (Emone)

    Nel clima distopico imperante, i dissidenti vengono uccisi e usati come monito per i sopravvissuti, e nella migliore delle ipotesi sono rinchiusi in una sorta di carceri-manicomi, dove sono sottoposti a vessazioni di ogni genere. The Cannibals è anche il primo film di Cavani a fare affidamento (per garantirsi massima libertà espressiva, si presume) a una casa di produzione indipendente, il che lo rende ancora più diretto e interessante da reperire. Vedremo pertanto Antigone (giovane donna dei giorni nostri, intepretata da una efficace Britt Ekland, da bellezza enigmatica dalle motivazioni oscure a corpo sfigurato e martirizzato) che trafuga il cadavere del fratello (un contestatore ucciso dalla polizia) assieme a quelli di altri ragazzi che hanno subito la stessa sorte, trasgredendo così la repressiva legge vigente.

    Nel compiere l’impresa sarà proprio Tiresia (Pierre Clémenti), giovane altrettanto misterioso con cui sembra l’unica a riuscire a capirsi, a dargli una mano nel realizzare la propria idea. Il contrasto, pertanto, sembra perennemente giocato sulla contrapposizione tra adulti calcolatori e privi di scrupoli e giovani rivoluzionari vessati dal sistema nei modi più fantasiosi.

    Il mito del poeta tragico Sofocle (497-406) viene così traslietterato ai giorni nostri mediante una sostanziale modernizzazione: il re diventa il primo ministro, la protagonista una figlia di buona famiglia non allineata, mentre le relazioni tra i personaggi restano sostanzialmente intatte rispetto all’originale. Non c’è alcun sentimento didascalico nel farlo, soprattutto, e questo favorisce la fruibilità di un lavoro che, per l’epoca, deve certamente aver fatto discutere parecchio (anche chi non dovesse conoscere l’originale poteva capire appieno il senso dell’opera, anche solo per la scelta di rottura di ambientarlo nel centro di una Milano fin troppo riconoscibile).

    Il significato de I cannibali appare chiaro nella propria valenza puramente politica, anche per il periodo in cui uscì: 1970, a cavallo del Sessantotto, in un periodo in cui gli scontri per strada tra polizia e manifestanti erano all’ordine del giorno, oltre che motivo di acceso dibattito nell’opinione pubblica. Un film che si potrebbe quindi collocare nella costellazione dei film anni settanta di matrice socio-politica come, per intenderci, La proprietà non è più un furto oppure Dilinger è morto.

    Dal canto suo, il Potere – il vero “mostro” della storia – appare auto-indulgente all’ennesima potenza: messo davanti alla situazione estrema della sua stessa figlia ricoverata in gravi condizioni in ospedale e personificato dal Re / Primo ministro, rifiuta cinicamente di salvarla in nome dello Stato, dato che cedere ad una richiesta di pietà avrebbe avuto il peso politico dell’auto-delegittimazione.

    La trama del film parte da una spiaggia (dove, chissà come , è arrivato Tiresia), mentre la regia equilibrata e realistica della Cavani mostra un mondo distopico, colmo di indifferenza, spie, allegorie e delatori. La gente muore per le strade, senza che nessuno sposti i cadaveri, e nessuno se ne lamenta. Il quadro è chiaro fin dai primi fotogrammi, proprio mentre vediamo passanti aggirarsi tra i morti come se fossero semplici elementi del paesaggio.

    Peggio ancora: esiste una legge specifica che punisce duramente chiunque osi toccarli o spostarli. Il clima di indifferenza e conformismo generale è alimentato dalle leggi dello stato: è ammessa la benedizione dei morti, ma solo durante la pulizia delle strade. La realtà dell’epoca sembra binaria quanto serializzata nel senso stabilito da Baudrillard: o sei contro il sistema o sei complice, non ci sono viene di mezzo, i corpi delle vittime devono rimanere per strada perchè servano da monito ai vivi, mediante un raffinato meccanismo di serializzazione (il simulacro del corpo di Polinice si trasforma in centinaia di corpi di contestatori sparsi). Il reale è riprodotto in serie e sono i morti, letteralmente, ad essere al centro della narrazione, probabilmente perchè risulterebbe destabilizzante per il sistema farli seppellire.

    Negare il diritto di sepoltura è un modo per mantenere l’ordine costituito, con una sorta di legge marziale in cui è concesso sparare a vista sui dissidenti senza processo. Di fatto, è ormai normale aggirarsi per la strada con decine di morti distribuiti ovunque, ridotti a elementi scenografici del numerosi non-luoghi meneghini.

    I cannibali rimane un film moderno, sostanziale ed imperdibile ancora oggi, impreziosito da una performance poco nota (e notevolissima nella sostanza) di Thomas Milian.

    Una versione restaurata del film è stata rilasciata su DVD e Blu-ray da Kino Lorber nel 2014.

  • The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    Una giovane donna vive nella foresta senza aver mai avuto contatti con la società moderna; catturata da un padre di famiglia dall’aspetto mite verrà inserita nel nucleo familiare…

    In breve. Un film incentrato sulla violenza domestica e la contrapposizione tra la  feroce vitalità del “selvaggio” e l’ipocrisia della società civilizzata. Temi non originalissimi, regia non esaltante (ma non per questo sgradevole) e qualche problema di ritmo: come intreccio, probabilmente più da leggere nel romanzo da cui è tratto che da vedere.

    Una donna allo stato selvaggio, un padre autoritario e maschilista, un figlio adolescente candidato ad emularne i comportamenti, una figlia affetta da turbe depressive, una moglie remissiva e psicologicamente repressa e, per chiudere in bellezza, una bambina ancora non intaccata dall’atmosfera circostante: questi gli ingredienti basilari di “The woman“, la storia di una famiglia che decide di “adottare”, allo scopo di civilizzarla, una giovane selvaggia cresciuta nelle foreste della zona. È da tali presupposti quasi “fiabeschi”, in fondo, che si riesce a sviluppare un horror di discreta qualità, caratterizzato – per quanto il soggetto sia validissimo – da una notevole lentezza nella parte iniziale. Il film finisce per decollare soltanto negli ultimi venti minuti, perdendosi nel resto tra accenni, divagazioni e caratterizzazioni dei personaggi a volte neanche troppo funzionali. Il tutto è tale da rendere desiderabile quasi l’esclusiva visione dell’ultima parte del film, che riserva tra l’altro qualche sorpresa niente male (per quanto poco chiarita nella sua origine). Van den Houten non ama esplicitare i dettagli – come invece aveva fatto Gregory Wilson in The girl next door, con cui “The woman” condivide lo stesso autore del soggetto (lo scrittore horror Jack Ketchum), e preferisce far scorrere la storia come se si trattasse di un film da prima serata.

    Cosa che “The woman” non è, visto che si tratta di una pellicola di explotation che non lesina affatto in termini di violenza fisica e mentale, sempre da parte di individui di sesso maschile sul gentil sesso (le accuse di misoginia, in questo caso, lasciano veramente il tempo che trovano, visto che è proprio quello il focus che il film critica aspramente). Senza gli eccessi del cinema di genere il regista preferisce optare per un formato da serie TV, senza spettacolarizzare alcunchè (ed avrebbe dovuto farlo, in certi casi), senza esagerare nelle efferatezze (caricarle serve spesso a potenziare il potenziale catartico della pellicola) e con il rischio di risultare inferiore alle aspettative; questo nonostante il tema forte e molto “appetibile” per un film dell’orrore. Si sviluppa così una storia ambientata nella provincia americana, nella quale un nucleo familiare dall’aspetto ordinario nasconde degli orribili segreti: roba già vista, già sentita, dispiace ma è così. Per quanto l’intreccio sia comunque originale e di livello – merito esclusivo di Ketchum, quest’ultimo – il film soffre di un‘eccessiva diluizione dei dettagli: il tempo che intercorre tra la cattura della ragazza e la conclusione del tutto sembra interminabile, e questo è dovuto anche ad uno dei “cattivi” meno credibili mai comparsi su uno schermo.

    Per quanto gli sguardi di Sean Bridgers e Belle Cleek (gli insipidi coniugi, non certo i due folli del cult La casa nera) siano pressappoco azzeccati, e le loro caratterizzazioni incalzanti, Chris risulta a mio parere uno degli psicopatici meno adeguati mai visti su uno schermo. Non ci voleva un Hannibal Lecter riveduto e corretto nè un novello Henry (mammagari!): bastava considerare un’interprete più in grado di mostrare la natura ambigua del personaggio, sospeso tra battute di caccia, cene in famiglia e stupri perpetuati come se nulla fosse. Invece l’impeccabile professionista mantiene sempre la medesima espressione anonima, sia che si tratti di compiere efferatezze che quando debba lavorare in ufficio: questo finisce per nuocere alla forma del film e, con tutti i limiti del caso, anche per ridimensionarlo di diverse spanne. Decisamente pià credibile, per fortuna, la performance di Pollyanna McIntosh, eroina totalizzante della storia, molto capace di conferire l’adeguata natura selvaggia al proprio personaggio.

    Tratto dal romanzo omonimo di Jack Ketchum (l’autore del soggetto di The girl next door), “The woman” sembra esaltare l’istinto selvaggio, quello che buona parte della civiltà moderna tenta di reprimere anche a costo di segregarlo, incatenarlo e procurargli del male fisico: quest’ultima, in reazione, finisce per proporre un modello comportamentale – trasmesso di padre in figlio – paradossalmente peggiore di quello della giungla (una contrapposizione, quest’ultima, sviluppata nel celebre “Cannibal holocaust” di Deodato già nel 1979), di quelli che finiscono per mettere tutto orribilmente sullo stesso piano. Non ci sono dubbi, inoltre, che i presupposti da cui parte questa pellicola di Andrew van den Houten – la dinamica della segregazione di un individuo è in parte simile a quella di Paura dei Manetti Bros. – siano quelli di presentare e far discutere tematiche dichiaratamente spinose (patriarcato e sessismo su tutte), e questo – come illustrano casi simili quali A serbian film, Strange circus o Frontiers – risulta essere un autentico campo minato. Potenzialmente si tratta dei lavori a maggior potenziale artistico e qualitativo, ma questo rimane realistico solo quando si riescano a bilanciare forma e contenuti: il film di Gens, ad esempio, aveva mostrato quanto una pellicola in cui si vogliano forzare significati politici – ergo più contenuti che forma – possa risultare dispersiva e parzialmente fuori bersaglio. In questa specifica circostanza si può dire invece che la priorità del regista sia stata, più semplicemente, quella di raccontare una inquietante storia di orrore quotidiano, lasciando sottintese le letture (e scatenando le ire di chi invece si aspettava maggiori focalizzazioni). Questo, se vogliamo, è anche il modo giusto di approcciare quando non si disponga di idee e budget troppo dispendiosi/e: non basta pero’ a fare un buon film (cosa che secondo me “The woman” è solo al 70%), per quanto serva a realizzare un discreto prodotto low-budget da visionare più che altro per curiosità.

    “Cosa ne facciamo di lei? La addestreremo, la renderemo… civile.”

  • Sbatti il mostro in prima pagina: manipolare la realtà grazie ai giornali

    Sbatti il mostro in prima pagina: manipolare la realtà grazie ai giornali

    Se c’è una certezza radicata in qualsiasi film anni 70 è l’espressività del titolo, l’uso di frasi che sanno di sentenza e che esprimono l’essenza della trama. Sbatti il mostro in prima pagina, è proprio uno di questi, sulla falsariga de La classe operaia va in paradiso e Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Siamo nella Milano degli anni di piombo, e un inquietante fatto di cronaca viene innestato con i subbugli e le assemblee politiche del periodo.

    Il giornale è un quotidiano politico di destra (solo omonimo di quello che uscirà due anni dopo, fondato da Indro Montanelli), formalmente una voce pacata e concisa. È quello che sentiamo affermare a Bizanti, giornalista manipolatore del quotidiano interpretato dal camaleontico Gian Maria Volontè.

    Sono gli anni 70, e Milano è in subbuglio, incendiata dagli scontri tra gruppi extraparlamentari: uno di questi colpisce a molotov e sassate la sede del quotidiano. Il gesto viene immediatamente strumentalizzato dalla redazione, che si appella al questore per ottenere quella protezione che, si fa intuire, devono essersi meritati grazie alla propria linea editoriale.

    Nella sceneggiatura concepita da Sergio Donati e  Goffredo Fofi, zeppa di riferimenti a fatti di cronaca realmente avvenuti (come il caso Valpreda, le bombe dei terroristi e la morte di Giangiacomo Feltrinelli), alla base di tutto vi sono le imminenti elezioni che, senza mezzi termini, il direttore ed il principale finanziatore del quotidiano intendono pilotare. A contrapporsi a Bizanti vi sarà un giornalista integro quanto strumentalizzato, che scoprirà le trame ed i reali intenti della redazione: fomentare il populismo e l’odio del lettore verso un nemico comune, per evitare la vittoria delle forze di sinistra alle elezioni. Bizanti, come se non bastasse la sua carica reazionaria e priva di scrupoli, arriva anche ad ispirarsi e a citare Göbbels, il quale “diceva nei suoi diari che le masse sono molto più primitive di quanto possiamo immaginare. La propaganda quindi deve essere essenzialmente semplice, basata sulla tecnica della ripetizione, tecnica peraltro modernissima, mandata avanti dalle agenzie americane. Unique selling proposition: unica proposta di vendita“. In questo senso, Sbatti il mostro in prima pagina è, nonostante l’età, un film profondamente moderno ed ancora molto attuale.

    L’occasione è subito sul piatto: il caso di omicidio e stupro di una ragazza, per cui si trova immediatamente un imputato di comodo, Mario Boni (reso credibile mediante l’infiltrazione degli stessi giornalisti), militante nelle fila della sinistra extraparlamentare.

    “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all’informazione, ma mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici. Se poi me lo unisci alla parola “disoccupato”, “disperato disoccupato”, beh, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione. Scrivi:”Drammatico suicidio”. “Drammatico suicidio“, due parole. “Di…” Cos’è, un calabrese, il poveretto?Ecco, “…di un immigrato“. “Immigrato”, una parola sola, che contiene implicitamente il “disoccupato” e il “padre di cinque figli”, ma dà anche un’informazione in più.

    Nella sua interpretazione, Volontè è ancora una volta un convincente quanto terrificante protagonista, abile con le parole quanto subdolo, in grado di impersonificare il potere dell’informazione che oggi, soprattutto grazie ad internet, è esasperato all’ennesima potenza.

    La regia di Bellocchio è quasi quella di uno spy movie, abile a mostrare una società che stava cambiando e che è ricca di informatori in incognite, autorità repressive ed infiltrati. Il tutto intervallato dalle prime pagine del giornale, sempre più reazionarie ed inquisitrici nei confronti del movimento a cui Mario Boni apparteneva.

    L’autorevolezza di qualsiasi giornalista, da sempre in discussione fin dall’epoca dell’uscita del film, viene criticamente messa in discussione come la credibilità delle autorità: da un lato giornalisti caustici e conservatori, dall’altro forze dell’ordine dai metodi decisamente al di sopra della legge. La borghesia dell’epoca viene rappresentata come  un mostro globalizzato dalla parvenza mostruosa, pronto a fare appello al disordine morale ed alla decadenza dei costumi per provare ad imporre una società sempre più autoritaria. Si può, come sempre, essere d’accordo o meno con la sostanza espressa dal film, ma una regia impeccabile e ritmata, che eredita da più generi la propria essenza: spionaggio, giallo, neorealismo e via dicendo.