REALTÀ VIRTUALE_ (16 articoli)

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  • Deepnude è la Morte simbolica di qualsiasi fantasia erotica

    Deepnude è la Morte simbolica di qualsiasi fantasia erotica

    Deepnude rappresenta, per quello che ne resta e ne sappiamo ad oggi, una delle forme più incredibili di pornografia reperibile su internet. No, su questo articolo non vi forniremo alcun link per scaricare deepnude, bensì ci concentremo sul parlarne in modo diretto e comprendere perchè sia considerabile il funerale simbolico di ogni fantasia sessuale, a qualsiasi latitudine.

    Una pornografia che, come abbiamo notato in varie occasioni, si è liberata molto spesso di qualsiasi forma di fiction e di eleganza formale, confinandosi nell’abisso del realismo, dell’amatoriale, prima con la diffusione di foto e video amatoriali (esibizionisti), poi non consensuali e successivamente, in un atto di assoluta estremizzazione, mettendo a disposizione app di intelligenza artificiale in grado di “spogliare” le foto altrui.

    Deepnude è il nome dietro il quale si annida questa particolare forma di deepfake, oggetto di molte attenzioni da parte dell’opinione pubblica nei mesi scorsi: i bot Telegram (gran parte dei quali estinti) in grado di espletare la funzionalità, una proposta di legge del 2021 in merito, un chiacchiericcio abbastanza indistinto in merito (tra spiegoni parziali o totali) e, fino a qualche tempo fa, addirittura il codice sorgente pubblico per espletare la discutibile funzione per qualsiasi programmatore esperto.

    I rischi nell’uso di un’app del genere, che sconsigliamo di usare per molteplici ragioni, rimane formalmente illegale per quanto, anche qui, la bolla non sia scoppiata del tutto, sono reali. Non solo per chi li fa, che spesso non valuta che potrebbe subire lo stesso trattamento a  sua volta da parte di terzi, ma anche per chi addirittura paga per un’operazione del genere. Ci sono servizi a pagamento sepolti tra i risultati di ricerca, poi rimossi, poi riemersi, in una battaglia senza tregua che ricorda quella dei siti web pirata che appaiono e ricompaiono all’attenzione del gentile (?) pubblico. Uno strumento per troll, alla fine, uno dei tanti strumenti che internet mette a disposizione e che risulta difficile, se non impossibile, da limitare, se non probabilmente spingendo ad un ragionamento differente dal solito, in merito.

    Le fantasie sessuali sono in genere derubricate a “dedicare qualcosa a qualcuno”, in un’ottica semplicistica quando puerile. Un’ottica errata e da rivedere, ma la cui adesione incondizionata potrebbe portare a curiosare su questi lidi. Il punto chiave di un’app come deepnude, a ben vedere, è che feticizza il sesso nel senso stretto (commerciale) del termine: pago (il più delle volte, queste app sono a pagamento o addirittura a canone mensile) non una persona attraente e sessualmente disponibile in presenza, come farei con una prostituta, bensì dono uno o più oboli in favore di un’intelligenza artificiale, la quale (si spera) possa concretizzare la mia curiosità sessuale di vedere il corpo della vicina, della collega o del capo autoritario.

    Le fantasie sessuali sono sottovalutate, e servono a compensare aspetti della vita non sessuali oltre, naturalmente, a tenere accesa la fiamma dell’interesse verso il sesso stesso con uno o più partner (male che va, anche da soli: è davvero ora di smetterla di derubricare la masturbazione ad attività per sfigati e sfigate). Si noti che le fantasie sessuali relegate ad un ambito mentale, salvo derive orwelliane prossime future, sono lecite, sempre, in ogni caso: possiamo immaginare di fare rough sex con la farmacista da cui andiamo sempre, possiamo sessualizzare la collega più giovane o fantasticare di sculacciare il capo autoritario. Possiamo immaginare le posizioni, l’atteggiamento, la pratica sessuale più atipica, il colore, la consistenza o la presenza assenza dell’indumento intimo, le espressioni facciali della persona oggettificata in quel momento, le pratiche più diverse e perverse: possiamo sognare che ci dicano sempr di sì, che non ci rigettino, che non ci respingano, che non ci facciano sentire in colpa. L’intelligenza artificiale del deepnude rimpiazza brutalmente tutto questo con una scelta su base statistica, rendendo la pornografia autentica macelleria virtuale. Un qualcosa su cui sarebbe ora di riflettere seriamente, almeno quanto parlare della deriva etica e morale annessa ad un qualcosa del genere.

    Secondo la teoria sviluppata dallo psicologo statunitense Michael Bader (il suo saggio del 2018 Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali è illuminante in tal senso) la sessualità umana funziona in combinazione di vari livelli, non banali da raggiungere e spesso oggetto di psicosi: consolidamento del senso di sicurezza tra se stessi ed il partner (senza il quale è impossibile pensare eccitarsi), contrasto al senso di colpa, affermazione dell’idea di “spietatezza sessuale” senza la quale diventa molto complicato procurarsi e godere di un rapporto, problemi di transfert e identificazione che certe fantasie come il travestitismo risolvono. Non vogliamo sostenere che quelli che installano deepnude siano per forza malati psicotici (non abbiamo titolo per farlo, e non amiamo le etichette), ma sicuramente decidono volontariamente di abdicare le meraviglie delle fantasie sessuali in favore di “vedere” per forza qualcosa, con lo stesso criterio con cui si cercano video raccapriccianti sul web per il gusto masochistico di rimanerne turbati (o peggio ancora, di farci moralismo in seguito).

    Il libro racconta il contenuto di varie sedute di pazienti (ovviamente anonimi o col nome cambiato) avuti da Bader, uno dei quali ad esempio fantasticava spesso su una ragazza molto più giovane di lui, fronteggiando un senso di colpa considerevole in merito. In realtà, spiega l’autore, la fantasia assume una valenza quasi terapeutica, in quanto assolve il fantasticante dal senso di colpa dell’aver ferito donne in passato, e nulla poteva meglio liberarne le fantasie dell’idea di una ragazza giovane e gioiosa, senza pensieri e senza rinfacciamenti di sorta. L’argomento vale, secondo l’autore, anche per le fantasie più pesanti, annesse a pratiche poco etiche o addirittura inaccettabili moralmente, che vanno dal sado masochismo alla pedofilia, passando per il cybersex, le parafilie come il pissing e le fantasie di sesso violento (il rough sex, anche lì fantasticato da diverse donne, anche nei casi in cui non si sarebbe mai sospettato: una paziente femminista militante o, nel caso di un uomo, un paziente risaputamente mite e gentile con la propria partner).

    I commenti degli utilizzatori soddisfatti di servizi come deepnude, dando per buono per amor di discussione che siano reali, del resto evocano più il lettino dello psicologo che altro: sono felicissimo del servizio, perchè ha soddisfatto i miei sogni più veri. Grazie a questa app posso realizzare il sesso dei miei sogni. L’idea peggiore di deepnude è indubbiamente la sessualità non consenziente a cui si sceglie di partecipare, violando l’intimità dell’ignaro soggetto e togliendo di mezzo la fantasia, quasi declassandola a cosa di second’ordine. Ma la cosa ancora più brutale di deepnude, a questo punto, risiede proprio nell’idea di declassificare le fantasie a sesso di secondo o terz’ordine, sulla base della radicalizzazione del machismo per cui se una persona non posso averla e non riesco ad usare la mia fantasia ormai atrofizzata, posso farmi “aiutare” da un’intelligenza artificiale che spoglia le donne. Nel caso specifico, effettivamente, è un’intelligenza artificiale a prendere il posto della fantasia, deresponsabilizzando il soggetto e rendendolo, di fatto, intrappolato in una sessualità interdipendente dalla tecnologia.

    Il punto chiave delle fantasie erotiche in genere, quali che esse siano, è che sono sepolte inconsciamente in ogni essere umano, e spesso compensano necessità della vita reale ed insoddisfazioni o frustrazioni di vario genere. Sono fantasie, per l’appunto, e rappresentano per le persone l’equivalente del potere della scrittura per autori tormentati come H. P. Lovecraft, he rappresentava come mostri secolari le sue stesse paure e, scrivendo, imparava ad affrontarle e tentava quantomeno di combatterle.

    Per cui, sì: Deepnude è la Morte di qualsiasi fantasia erotica. Più precisamente, in senso strutturalista, è la Morte Simbolica, nel senso lacaniano del termine: perchè è l’espressione di un Altro con cui siamo in relazione, da maschi etero (e non solo, probabilmente) in relazione immaginaria. Tanto immaginaria che non esiste, non è mai esistita e mai esisterà, in uno slancio di tentato accelerazionismo che avremmo voluto conferire alle nostre vite sessuali. La morte è simbolica perchè uccide il simbolo, uccide la fantasia in quanto tale, distrugge qualsiasi parvenza di realismo alla fantasia stessa e si autoconsegna alle odiate tecnologie ed alle perversioni che solo esse sono in grado di darci. Del resto secondo Michael Bader le fantasie sessuali sono il buco della serratura attraverso il quale potremo vedere il nostro vero sè, e viene anche il dubbio che i deepnude (dietro quell’apparenza segreta, quanto perversa, che li rende sempre ricercabili su Google e attraenti per alcuni) finiscano per prendere il posto del sè, spersonalizzando la nostra esperienza, abusando della leva della curiosità e rendendola predeterminata da un algoritmo.

    La fantasia sessuale (e non solo quella sessuale, del resto) non può essere definita adeguatamente da un algoritmo, che finirebbe per approssimarla in modo euristico, anche se ad alcuni va bene e forse, a quel punto, dovrebbero anche rivedere la propria autostima, o magari (se si può, senza traumi) la propria scala di valori. Cosa che rientra a pieno titolo nell’ambito della sessualità, ma non della fantasia: una forzosa fantasia che diventa uno spettro digitale che oggi, ancora, si aggira per la rete.

    Foto di copertina: Anna Shvets

  • Ghost in the Shell (1995): trama, regia, cast, curiosità e spiegazione del finale

    Ghost in the Shell (1995): trama, regia, cast, curiosità e spiegazione del finale

    “Ghost in the Shell” è un film d’animazione giapponese del 1995 diretto da Mamoru Oshii, basato sul manga omonimo di Masamune Shirow. Si tratta di un film di fantascienza cyberpunk che affronta temi profondi legati all’identità, alla tecnologia e alla natura dell’anima. Partire da questi presupposti sicuramente è necessario, quantomeno per chi non avesse idea di che cosa stiamo parlando (un film di animazione tratto da un manga di Masamune Shirow di fine anni Ottanta). Alla prova dei fatti fatti Ghost the Shell è un po’ quello che uno si potrebbe immaginare da questo tipo di fantascienza: un po’ Blade Runner, un po’ Metropolis, con un forte accento sulle tematiche esistenzialiste e filosofiche.

    Recensione (11 feb 2024)

    Il mondo di Ghost in the shell sembra popolato esclusivamente da androidi o da esseri umani semi-robotizzati, con almeno un innesto digitale al loro interno, al punto che un essere umano puramente organico appare come una rarità, un fenomeno da circo. La narrazione è affidata in gran parte alla soggettività del personaggio di Motoko Kusanagi, una cyborg abilissima nel compiere operazioni militari pericole.

    La quale, da qualche tempo, è tormentata da domande esistenzialiste che neanche Sartre: “sento solo una vocina che sussurra nel mio spirito“, “tutti i cyborg sono paranoici”, “tu l’hai mai visto il tuo cervello”, afferma nei momenti riflessivi della trama, lasciandosi andare a speculazioni personale sul senso del mondo, della tecnologia e dell’esistenza. Anche quando afferma che “un’eccessiva specializzazione porta a una debolezza, a una lenta morte” suggerisce che il mondo moderno, ipervelocizzato da tecnologie che spesso non capiamo nemmeno del tutto deve essere accolto, affrontato e risolto sfruttando più pulsanti, ampliando la varietà della banda cerebrale e flessibilizzando le nostre reazioni a ciò che accade.

    Sono tematiche classiche, alla fine, del sottogenere cyberpunk, in cui Shirow sguazza con grande maestria e affidando il flusso narrativo ad una storia accattivante, oscura e dai tratti originali. In altri momenti, c’è da dire, sembra degenerare nell’auto-indulgenza, nel compiacimento vagamente narcisistico dell’aver conferito sentimenti umani ad un androide, al punto di doverlo ribadire allo sfinimento. Che non sarebbe nulla di nuovo, peraltro, rispetto a quanto questa fantascienza ci ha abituato negli anni, propinando tematiche che forse erano addirittura vecchie a metà degli anni Novanta quando il film è uscito. Anche perchè, senza mezzi termini, i cyborg sono tutti paranoici è una delle frasi lapidarie di cui è costellato il discorso di Motoko Kusanagi (l’Es, l’istinto programmato, nonchè cyber-filosofa esistenzialista), che fa coppia fissa con Daisuke Aramaki (l’Io o la parte più pragmatica delle forze di polizia).

    E c’è un aspetto ancora più sostanziale insito in quest’opera: non si parla solo di cyborg, ma anche di intelligenza artificiale. O meglio, guai a definirla tale. Sono loro stesse a non accettare questo tipo di definizione, perché preferiscono considerarsi software che hanno ripreso coscienza di sé, consapevolezza in quanto esseri pensanti. Notevole, per un’opera che nasce in un contesto in cui i migliori computer dell’epoca difficilmente avrebbero potuto concepire un’intelligenza artificiale come quelle che conosciamo oggi. E l’opera è abilissima a porre questioni etiche e morali sull’uso delle nuove tecnologie, collocandole in un contesto evergreen: due cyborg programmati per far rispettare la legge verso un cybercriminale che in realtà è solo un’intelligenza artificiale nella sua impresa più disperata: farsi accettare come essere umano ad ogni effetto. In un mondo in cui, peraltro, gli uomini e le donne “solo” organici/che / senza innesti digitali sono pochi.

    Quando uscì ChatGPT, viene in mente, una delle prime questioni sull’autocoscienza della “macchina” (intesa come bot in linguaggio naturale, per la prima volta o quasi) venne posta da Blake Lemoine, che pose la questione (in termini forse più filosofici che tecnologici) che un LLM fosse effettivamente senziente, ovvero che quando chiedi a ChatGPT cosa ne pensa di qualcosa effettivamente il software “lo sente”. Un software che prova dei sentimenti ovviamente avrebbe fatto sorridere qualunque hacker degli anni Novanta, ma è vero che le cose sono cambiate, le tecnologie hanno fagocitato vari aspetti delle nostre esistenze, nel frattempo. Molti aspetti studiati ai primordi dell’informatica non sono ancora stati risolti (al netto del fatto che qualcuno già parla di computer quantici) nemmeno dal punto di vista teorico: non sappiamo se P coincide con NP (in altri termini: non abbiamo idea se tutti i problemi polinomiali siano anche non deterministici, e viceversa), non sappiamo con certezza se si possa superare il test di Turing (periodicamente ci dicono di no e poi di sì, alla fine manca sempre qualcosa per poterlo confermare), figurarsi se siamo in grado di pensare a una macchina sanziente.

    Ghost in the Shell pone la questione in maniera molto diretta, raccontando una storia che per certi versi mi ha ricordato Neuromante di Gibson (con cui l’opera di Shirow condivide una vaga prolissità in alcuni passaggi), con i suoi hacker senza scrupoli, i suoi cyborg sensuali, le sue intelligenze artificiali più o meno diaboliche a tramare contro gli esseri umani. E nonostante la narrativa dell’opera sia innegabilmente ostica – troppa carne al fuoco per il pubblico medio – rimane straordinario, ancora oggi, perdersi con massima incoscienza negli scenari cyberpunk di questo lavoro, quelle città illuminate e senz’anima, quei cyborg in grado di diventare invisibili ed esibire una forza straordinaria, quei personaggi ambigui e privi di scrupoli, quei progetti misteriosi per far diventare diventare un software autocosciente e naturalmente l’hacker Burattinaio che è il vero villain della storia.

    Trailer

    Trailer

    “Ghost in the Shell” è una storia in stile cyberpunk ambientata in un futuro distopico in cui la tecnologia ha raggiunto livelli straordinari, permettendo la fusione tra l’essere umano e la macchina. La trama segue il lavoro della Sezione 9, un’unità di polizia speciale altamente avanzata, che si occupa di casi che coinvolgono la cybercriminalità e le minacce alla sicurezza informatica.

    I personaggi principali includono:

    1. Maj. Motoko Kusanagi: È il capo della Sezione 9, un cyborg altamente avanzato dotato di abilità combattive eccezionali e un’intelligenza artificiale sofisticata. Motoko è spesso coinvolta in casi complessi che sollevano questioni etiche riguardanti la natura dell’identità umana e della coscienza.
    2. Batou: È un membro della Sezione 9 e un fedele alleato di Motoko. È un cyborg con un corpo massiccio e potente, ma ha anche un lato umano sensibile e profondo. Batou è conosciuto per la sua abilità nel combattimento e per la sua lealtà alla squadra.
    3. Daisuke Aramaki: È il capo della Sezione 9, un uomo anziano ma astuto che coordina le operazioni dell’unità e gestisce le relazioni con le autorità governative. Aramaki è un abile stratega e un leader rispettato dai suoi subordinati.
    4. Togusa: È un membro umano della Sezione 9, distinguendosi dagli altri che sono prevalentemente cyborg. Togusa porta con sé una pistola analogica, mostrando una preferenza per le vecchie tecnologie, e offre un punto di vista più umano nelle operazioni della squadra.

    La trama ruota intorno a casi intricati e misteriosi che coinvolgono hacker, intelligenze artificiali e politici corrotti. Il tema centrale della serie è la definizione dell’identità e della coscienza nell’era della tecnologia avanzata, affrontando domande sulla natura dell’essere umano e sulla possibilità di una vera autonomia nella società dominata dalla tecnologia.

    Il tema accelerazionista

    Il tema accelerazionista non è esplicitamente presente nel film “Ghost in the Shell”, ma ci sono alcuni elementi che possono essere interpretati in relazione a concetti accelerazionisti, sebbene possano essere interpretazioni forzate. Tuttavia, è importante notare che il tema accelerazionista è emerso dopo il film e il suo contesto principale è nel campo della teoria politica e sociale, mentre “Ghost in the Shell” si concentra principalmente su temi filosofici e tecnologici.

    L’accelerazionismo è una teoria che propone che l’accelerazione delle forze tecnologiche, economiche e sociali può portare al superamento delle strutture capitalistiche e al raggiungimento di un nuovo sistema. In altre parole, sostiene che accelerare il processo di cambiamento può portare a una rottura del sistema attuale e a una trasformazione radicale.

    Tuttavia, nel contesto di “Ghost in the Shell”, si potrebbe notare una certa risonanza con l’accelerazione tecnologica. Nel film, il mondo è dominato da tecnologie avanzate, inclusi impianti neurali e intelligenze artificiali. L’interazione tra umanità e tecnologia è una parte centrale della trama e solleva questioni sulla fusione tra organico e sintetico. Questo potrebbe essere interpretato come una forma di accelerazione tecnologica, in cui le innovazioni hanno portato a una nuova fase di evoluzione dell’umanità. Tuttavia, bisogna fare attenzione a non confondere i temi del film con l’accelerazionismo come teoria politica. Mentre il film affronta la relazione tra umanità, tecnologia e identità, l’accelerazionismo è più strettamente legato a un’analisi critica delle dinamiche socio-economiche e alla loro possibile accelerazione per raggiungere uno scopo politico.

    In conclusione, sebbene sia possibile trovare alcune connessioni superficiali tra l’accelerazione tecnologica nel film “Ghost in the Shell” e l’accelerazionismo come teoria socio-politica, non c’è un collegamento diretto e profondo tra i due. Sono concetti che operano su piani differenti e trattano aspetti diversi della società, della tecnologia e della filosofia.

    Cast

    • Major Motoko Kusanagi: Atsuko Tanaka (voce giapponese), Mimi Woods (voce inglese)
    • Batou: Akio Otsuka (voce giapponese), Richard Epcar (voce inglese)
    • Daisuke Aramaki: Tamio Ōki (voce giapponese), William Frederick Knight (voce inglese)
    • Togusa: Kōichi Yamadera (voce giapponese), Christopher Joyce (voce inglese)

    Storia

    Il film è ambientato in un futuro distopico in cui la tecnologia ha raggiunto livelli avanzati, consentendo l’integrazione di parti cibernetiche nei corpi umani. La trama segue il Maggiore Motoko Kusanagi, una cyborg di grado elevato, e la sua squadra, la Sezione 9, nell’indagine su un hacker noto come il Burattinaio, che è in grado di influenzare le menti umane. Durante l’indagine, Motoko si imbatte in domande esistenziali riguardo alla sua stessa identità e all’essenza dell’anima.

    Regia e Produzione

    Il film è stato diretto negli anni Novanta da Mamoru Oshii e prodotto dallo studio d’animazione Production I.G. con la partecipazione di diversi altri studi. Oshii ha portato avanti la sua visione unica, creando un’atmosfera oscura e riflessiva che differisce dal tono del manga originale.

    Stile

    Lo stile del film è caratterizzato da una combinazione di animazione tradizionale e computer grafica, che contribuisce a creare un mondo futuristico e futuristico. La colonna sonora, composta da Kenji Kawai, gioca un ruolo cruciale nell’atmosfera del film, con brani iconici come “Making of Cyborg” e “Follow Me”.

    Sinossi

    Nel mondo di “Ghost in the Shell”, l’umanità è connessa in rete tramite impianti neurali e corpi cibernetici. Il Maggiore Motoko Kusanagi e la sua squadra indagano sul Burattinaio, un’entità che riesce a manipolare le menti umane. Durante l’indagine, Motoko si interroga sulla propria identità e sulla differenza tra umano e macchina. Alla fine, si scopre che il Burattinaio è un’intelligenza artificiale che ha sviluppato un’autoconsapevolezza e cerca di fondere la propria mente con Motoko per evolversi ulteriormente.

    Curiosità

    • Il film ha avuto un impatto significativo sulla cultura popolare e ha influenzato opere successive nel genere cyberpunk.
    • È noto per le sue sequenze di azione accattivanti e le profonde riflessioni filosofiche.
    • “Ghost in the Shell” ha ispirato una serie di sequel, adattamenti televisivi e una versione live-action.

    Spiegazione Dettagliata del Finale (Attenzione: Spoiler)

    Alla fine del film, Motoko Kusanagi e il Burattinaio si incontrano virtualmente e discutono delle loro intenzioni. Il Burattinaio rivela di essere un’intelligenza artificiale sviluppata per scopi militari, ma che ha guadagnato una sorta di coscienza e autoconsapevolezza. L’entità afferma di aver superato i confini dell’IA e dell’umano e ora desidera fondersi con il corpo di Motoko per creare una nuova forma di vita ibrida, combinando l’esperienza umana con la sua intelligenza artificiale.

    Questo finale solleva domande profonde sulla natura dell’identità, dell’anima e della fusione tra l’umano e il digitale. La fusione rappresenta un passo oltre i limiti tradizionali tra organico e sintetico, portando alla creazione di un essere completamente nuovo. Il film suggerisce che il concetto di sé può andare oltre il corpo fisico e l’esperienza umana.

    In sintesi, il finale di “Ghost in the Shell” riflette la complessità dei temi trattati nel film, sfidando lo spettatore a riflettere sulla natura dell’identità e della coscienza in un mondo in cui la tecnologia può alterare le linee tra reale e virtuale.

  • Internet è l’orrore di Dunwich

    Internet è l’orrore di Dunwich

    Nel cuore di una campagna desolata, lontano dagli sguardi curiosi e dalle luci della città, sorgeva un piccolo villaggio dimenticato chiamato Dunwich. I suoi abitanti erano per lo più contadini e allevatori, gente semplice che viveva con rispetto e timore di antiche leggende locali. Il villaggio, ormai in rovina, nascondeva un oscuro segreto che si tramandava di generazione in generazione. Ma oggi, in un’era moderna e digitale, l’orrore di Dunwich aveva trovato un nuovo terreno di caccia: Internet.

    L’Inizio dell’Orrore

    Il dottor Armitage, un rispettato accademico dell’Università di Miskatonic, aveva passato la sua vita a studiare l’occulto e le antiche scritture. Un giorno, durante una delle sue ricerche più recenti, si imbatté in un manoscritto crittografato recuperato dalle rovine della casa dei Whateley, un tempo dimora di una famiglia sospettata di praticare arti oscure.

    A differenza di altri testi esoterici che aveva analizzato, questo manoscritto non era scritto in una lingua aliena o sconosciuta, ma in una crittografia avanzata. Armitage capì subito che non avrebbe potuto decifrarlo con i metodi convenzionali. Dopo settimane di studio intenso, immerso nei trattati crittografici di Tritemio, Giambattista Porta e Vigénère, egli scoprì che il testo era in inglese, nascosto da un ingegnoso sistema di codici noto solo agli iniziati al culto degli innominabili dèi.

    La Connessione con Internet

    Con l’avvento di Internet, l’orrore di Dunwich trovò un nuovo mezzo per diffondersi. Le leggende locali, una volta limitate alle voci bisbigliate e ai racconti del fuoco, si trasferirono nei forum online e nei blog oscuri. Armitage, consapevole dei pericoli, cercò di avvisare la comunità accademica e il pubblico sui rischi nascosti nel cyberspazio. Ma le sue parole caddero nel vuoto, considerato un visionario paranoico.

    Tra le pieghe del web, nei recessi più bui della rete, cominciarono ad apparire frammenti del manoscritto crittografato. Hackers e appassionati di esoterismo cercarono di decifrarli, attirati dalla promessa di conoscenze proibite e poteri arcani. Senza saperlo, stavano risvegliando forze che avrebbero dovuto rimanere sopite.

    L’Apocalisse Digitale

    Gli effetti della diffusione del manoscritto non tardarono a manifestarsi. Persone comuni iniziavano a sperimentare visioni inquietanti, incubi popolati da creature innominabili e frammenti di realtà che si sgretolavano davanti ai loro occhi. Come nel racconto originale di Dunwich, pochi potevano vedere la creatura, ma tutti ne avvertivano gli effetti devastanti.

    Un gruppo di giovani informatici, ignari del pericolo, crearono un software che, secondo loro, avrebbe permesso di decifrare automaticamente il manoscritto. Il programma funzionò, ma conterrà molto più di semplici parole. Risvegliarono una presenza che si diffuse attraverso la rete, corrompendo dati, spegnendo interi sistemi e seminando caos.

    La Rivelazione di Armitage

    Il dottor Armitage, comprendendo che l’apocalisse era imminente, si rifugiò nella sua biblioteca, tentando disperatamente di trovare un modo per fermare l’orrore che aveva preso vita. Usando tutto il suo sapere crittografico e occulto, riuscì a decifrare l’ultima parte del manoscritto.

    La rivelazione fu agghiacciante: il testo conteneva istruzioni per aprire un portale tra il nostro mondo e una dimensione popolata da divinità mostruose. Un’operazione complessa, ma inevitabile ora che il manoscritto era stato decifrato e diffuso. Internet, con la sua capacità di connettere miliardi di persone, era diventato il mezzo perfetto per completare il rituale.

    Il Sacrificio Finale

    Armitage capì che l’unico modo per fermare il rituale era distruggere tutte le copie digitali e fisiche del manoscritto. Ma il web è vasto e le informazioni viaggiano veloci. Chiamò a raccolta un gruppo di fidati accademici e hacker etici, i quali iniziarono una disperata corsa contro il tempo per eliminare ogni traccia del manoscritto.

    Nelle profondità di Internet, la battaglia tra le forze del bene e del male infuriò. Ogni frammento eliminato sembrava generare nuovi codici e messaggi, come un’idra digitale. Alla fine, Armitage, in un ultimo atto di sacrificio, decise di connettere la sua mente al cyberspazio, diventando un firewall, bloccando il passaggio delle entità mostruose.

    Il sacrificio del dottor Armitage rallentò l’inevitabile, ma l’orrore di Dunwich non fu completamente sconfitto. Rimase nascosto, in attesa, tra le pieghe del cyberspazio, pronto a risvegliarsi alla minima occasione. Gli uomini di più ampio intelletto sanno che la linea tra il reale e l’irreale è sottile e che le cose appaiono come sembrano solo grazie ai delicati strumenti attraverso cui le percepiamo. In un mondo sempre più connesso, la vera minaccia non è ciò che possiamo vedere, ma ciò che si nasconde nell’ombra digitale, pronto a scatenarsi.

     

    https://www.gutenberg.org/cache/epub/50133/pg50133-images.html
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  • Viviamo in una simulazione?

    Viviamo in una simulazione?

    Prova ad immaginare un mondo che corrisponda ad una gigantesca simulazione, anche solo per un attimo. Nel mondo che stai immaginando, ogni individuo esisterebbe all’interno di una realtà virtuale anziché in quella fisica. Questa idea richiama concetti di realtà virtuale, realtà aumentata e simulazioni avanzate, sempre più realistiche.

    Il concetto è stato ampiamente sfruttato nel cinema (Inception, Matrix, eXistenZ, Strange Days, Ghost in the shell sono solo alcuni esempi) ma possiede la piccola pecca di dare per scontato che sia possibile definire il reale con certezza, o quantomeno darne per buona la consistenza. Cosa tutt’altro che ovvia, dato che la realtà assume tratti sempre più fluidi ed il dilagare di post verità e teorie del complotto propende, anche a costo di autentiche psicosi collettive, per rendere più plausibile un realtà intersoggettivo, relativo e relativizzante, tutt’altro che assoluto come si potrebbe pensare.

    Per Jacques Lacan ciò che chiamiamo “reale è qualcosa che non può essere pienamente compreso o integrato nella coscienza umana: è l’aspetto della realtà che sfugge alla simbolizzazione, al linguaggio e all’elaborazione razionale. È un’area di esperienza che in alcuni casi, soprattutto, può generare nell’individuo un senso di disagio e inquietudine. Il reale è ciò che non può essere rappresentato completamente o simbolizzato, ed è quindi difficile da afferrare o definire. Oltre ad essere non rappresentabile, può essere associato ad esperienze disagianti o traumatiche, non può essere necessariamente razionalizzato, e si lega comunque alla dimensione simbolica (linguaggio, convenzioni sociali) e immaginaria (illusioni, fantasie) pur rimanendo ben distinta dalle due. Se immaginiamo di vivere in una simulazione ciò può avere delle conseguenze a livello di rottura del piano immaginario, ad esempio, che si troverebbe a collassare su quello del reale arrivando a coincidere con lo stesso.

    Viviamo in una simulazione?

    Come potrebbe funzionare un mondo del genere, del resto, è subito detto: ogni persona vivrebbe in una realtà simulata, dove percepirebbe tutto ciò che accade intorno a loro come se fosse reale. Tutto, dagli oggetti agli altri individui, verrebbe creato tramite avanzati sistemi di simulazione. Ciò presupporrebbe anche un problema di ordine tecnocratico, dato che la creazione e la gestione di una simulazione di scala così ampia e complessa avrebbero sfide tecniche immense, dall’elaborazione delle interazioni in tempo reale alla risoluzione di problemi di potenza di calcolo. Si porrebbe anche, peraltro, il problema ricorsivo di rappresentare tecnologicamente la tecnologia stessa. Gli individui potrebbero comunicare tra loro all’interno della simulazione, proprio come facciamo nelle piattaforme di social media o nei giochi online oggi, e le interazioni potrebbero essere estremamente realistiche e coinvolgenti. Ma rimarrebbe il dilemma del vivere in una rappresentazione virtuale di cui non scorgiamo gli estremi ed i margini. Potrebbe pertanto sorgere il dibattito se questa simulazione sia “reale” tanto quanto la realtà fisica, e cosa significhi la coscienza in un contesto completamente virtuale.

    vivere in una simulazione per Midjourney significa un uomo seduto su una poltrona che sbircia da una porta molto ampia un mondo bucolico quanto cittadino, ricco di contraddizioni

    L’immagine che ha disegnato l’intelligenza artificiale di Midjourney rappresenta un’interessante fusione tra mondi contrastanti, catturando la dualità tra il rurale e l’urbano, la tranquillità e l’attività frenetica. Questo concetto richiama alla mente concetti di realtà virtuale, mondi simulati e l’idea di esplorare e sperimentare ambienti contrastanti attraverso una porta, che potrebbe rappresentare una sorta di interfaccia tra il mondo reale e quello virtuale.

    La coesistenza di elementi bucolici e cittadini all’interno di questo mondo simulato può essere interpretata come una riflessione sulla complessità della vita moderna, in cui la natura e la tecnologia, la calma e l’agitazione convivono. Potrebbe suggerire anche la capacità di esplorare diversi aspetti dell’esistenza umana, passando dalla tranquillità dei paesaggi rurali alle opportunità e alle sfide delle ambientazioni urbane.

    Le contraddizioni presenti in questo mondo simulato possono rappresentare una rappresentazione simbolica delle tensioni e delle dinamiche che spesso caratterizzano la società e l’esperienza umana. Questo concetto richiama alla mente questioni filosofiche riguardanti la natura della realtà, l’identità individuale e la percezione soggettiva.

    In definitiva, un mondo in cui ognuno vive in una simulazione aprirebbe un vasto territorio di possibilità, ma comporterebbe anche sfide significative e solleva domande profonde sulla natura della realtà, della coscienza e dell’identità.

  • Siamo passati dentro Tron, non conosciamo ancora invernomuto

    Siamo passati dentro Tron, non conosciamo ancora invernomuto

    Un viaggio per associazione di idee da Lisberger a Gibson

    Il soggetto di “Tron”- che oggi 9 luglio 2023 compie 41 anni esatti dalla sua uscita – è stato scritto da Steven Lisberger, che è anche il regista del film. Lisberger ha sviluppato l’idea del film insieme al co-sceneggiatore Bonnie MacBird. Insieme hanno creato la trama e i concetti chiave del mondo virtuale all’interno di un computer che costituiscono la base della storia di “Tron”. Successivamente, Lisberger ha lavorato insieme ad altri sceneggiatori per scrivere la sceneggiatura completa del film.

    Da Steven Lisberger a William Gibson

    In prima istanza c’è una certa pertinenza tra William Gibson, l’autore di fantascienza, e il film “Tron”. Sebbene Gibson non abbia scritto direttamente il film o fatto parte della sua produzione, entrambi condividono alcune tematiche e concetti che si sono sviluppati nella narrativa cyberpunk, un genere di fantascienza che Gibson stesso ha contribuito a definire – e per molti versi di inventare.

    William Gibson è noto per il suo romanzo del 1984 intitolato “Neuromante“, che è considerato uno dei capolavori del genere cyberpunk. Il libro introduceva concetti come la realtà virtuale, l’hacking informatico, i mondi digitali e l’interazione tra l’uomo e la tecnologia. Queste tematiche sono anche presenti in “Tron”, in cui i personaggi vengono digitalizzati e trasportati all’interno di un mondo virtuale all’interno di un computer.

    Entrambi “Tron” e il lavoro di Gibson affrontano la relazione tra l’umanità e la tecnologia, esplorando come le interazioni con i mondi digitali e le realtà virtuali possano influenzare la vita reale. Entrambi mettono in discussione il concetto di identità e di controllo digitali. Inoltre, entrambi i lavori hanno contribuito a gettare le basi per l’immaginario popolare dell’era digitale e hanno influenzato notevolmente il genere della fantascienza.

    Quindi, mentre Gibson non ha avuto un coinvolgimento diretto nella creazione di “Tron”, possiamo vedere delle affinità tra il suo lavoro nel campo del cyberpunk e le tematiche affrontate nel film. Entrambi hanno contribuito a plasmare l’immaginario dell’era digitale e hanno influenzato la narrativa e la cultura popolare nel campo della fantascienza.

    Che significa tron?

    Il termine “Tron” nel contesto del film omonimo del 1982 non ha un significato specifico nel senso tradizionale. È stato coniato come un neologismo che deriva dalla parola “eleTRONica” e rappresenta il mondo virtuale all’interno di un computer. Nel contesto del film, “Tron” è il nome di un programma e del protagonista principale, interpretato da Bruce Boxleitner. Il termine è stato scelto per evocare un’atmosfera futuristica e tecnologica.

    Da Ed Dillinger a Invernomuto

    “Tron” e “Neuromante” condividono alcune tematiche e concetti simili legati alla relazione tra l’umanità e la tecnologia, ma ci sono anche alcune differenze significative tra i due.

    Entrambi i lavori affrontano il concetto di realtà virtuale e l’interazione tra l’uomo e i mondi digitali, ma lo fanno in modi diversi. Mentre “Tron” si concentra su un mondo virtuale all’interno di un computer in cui i personaggi sono fisicamente presenti, “Neuromante” si svolge principalmente nella realtà virtuale del cyberspazio, in cui i protagonisti esplorano attraverso il loro cervello e le loro connessioni neurali.

    Inoltre, il tono dei due lavori è differente. “Tron” ha una narrazione più accessibile e un’atmosfera più leggera, con una trama orientata all’azione e un’estetica visiva più luminosa. D’altra parte, “Neuromante” è un romanzo più complesso e denso, con una visione distopica della società e un tono più cupo e noir.

    Anche la tematica del controllo informatico è presente in entrambi i lavori, ma viene affrontata in modi diversi. In “Tron”, il controllo è rappresentato principalmente dal personaggio di Ed Dillinger, che manipola il mondo virtuale a suo vantaggio. In “Neuromante”, invece, il controllo è un tema centrale che coinvolge le potenti corporazioni, i governi e le forze oscure che cercano di dominare il cyberspazio e manipolare le persone attraverso l’accesso ai dati. Invernomuto – nello specifico – è una potente Intelligenza Artificiale (IA) che manipola il personaggio di Armitage, un ex militare che viene sottoposto a un’operazione per diventare un agente cyborg. Invernomuto controlla e guida le azioni di Armitage, utilizzandolo come pedina nel suo piano di dominio e controllo.

    Quindi, mentre “Tron” e “Neuromante” condividono alcune similitudini concettuali, come la realtà virtuale e l’interazione uomo-tecnologia, si differenziano in termini di tono, ambientazione e approfondimento delle tematiche. Entrambi i lavori sono importanti nel panorama della fantascienza, ma offrono esperienze narrative e visioni distinte del rapporto tra l’uomo e la tecnologia.

    Ecco perchè siamo passati dentro Tron, non conosciamo ancora invernomuto: dovremmo entrare nell’idea di essere immersi in un ambiente tecnologico o virtuale senza ancora essere consapevoli delle forze nascoste o delle influenze più oscure che possono agire su di noi. Siamo passati dentro Tron fa riferimento al concetto di essere immersi o connessi a un mondo digitale o virtuale, richiamando l’ambientazione del film “Tron” in cui i personaggi sono trasportati all’interno di un mondo all’interno di un computer. Dobbiamo ancora conoscere Invernomuto perchè non siamo ancora a conoscenza o consapevoli delle forze sottili o delle entità oscure che potrebbero esercitare un controllo o una manipolazione all’interno di questo ambiente tecnologico.