FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Quando Alice ruppe lo specchio: la black comedy a tinte splatter targata Fulci

    Quando Alice ruppe lo specchio: la black comedy a tinte splatter targata Fulci

    La macabra storia di una “vedova nera” al maschile, amante della buona cucina e del gioco d’azzardo, che adesca vedove e ruba loro il denaro dopo averle uccise e divorate. Nonostante l’uomo non lasci apparentemente tracce dei suoi crimini, la polizia sembra sulla sua strada…

    In breve. Un titolo dal nome suggestivo che riassembla lo stesso genere che aveva portato Fulci alla gloria negli anni precedenti, ovvero il thriller-gore a tinte oscure. Seppur con una discreta trama ed una dinamica coinvolgente in ballo (qualche momento umoristico è davvero sopra le righe), il film non riesce a convincere del tutto. Impressionante e crudissimo lo splatter da macelleria, visibile fin dalle prime scene, che lo rende molto distante dalle black-comedy garbate ed edulcorate a cui potremmo essere abituati.

    Si sono sprecate in questi anni le considerazioni su Fulci “terrorista dei generi“, ma secondo me pochi sanno (dato che questo film è poco discusso, a quanto leggo) che lo stravolgimento pioneristico dei generi venne effettuato anche sul suo stesso amatissimo horror-thriller. In effetti “Quando Alice ruppe lo specchio” visto oggi sembra un esperimento di fattura molto artigianale, tanto che paradossalmente (e senza nulla togliere) arriva a ricordare l’opera prima di una new entry horror.

    Sebbene l’idea di fondo non sia affatto male, il film si sviluppa con modalità non del tutto convincenti, a cominciare dalla caratterizzazione del protagonista Lester Parson a finire su uno stonato contrasto tra le premesse simil-parodiche e le lugubri conseguenze successive. Nonostante Brett Halsey abbia interpretato un discreto cannibale dalla duplice personalità, inoltre, trovo che la sua concretizzazione sia stata per l’appunto troppo oscillante tra due estremi, risultando così semplicemente ingarbugliata. E non credo neanche che sia questione di aver dovuto interpretare un duplice ruolo in voluto contrasto: mi pare invece che la sua doppiezza risulti alquanto spiazzante per lo spettatore, così come l’alternarsi – senza preavviso – di scene divertenti con altre che toccano realmente lo stomaco. Probabilmente guardando il film per intero, fino al brutalissimo finale (senza mezzi termini e con un tocco di poesia fulciana forse neanche malaccio) si riesce ad intuirne perfettamente la natura: se si riesce ad accettarla bene, altrimenti…

    Se state pensando ad una riedizione nostrana di Henry, pioggia di sangue siete sulla cattiva strada: piuttosto distanti dalla migliore produzione del regista, una buona sintesi del film è esprimibile come una bizzarra media tra il gore casereccio e violento alla Joe D’Amato (o alla Buttgereit, se avete presente) ed uno humor nero piuttosto semplice e funzionale, dichiaratamente e consapevolmente trash. Questo complessivamente fa di “Quando Alice ruppe lo specchio” un discreto lavoro dell’ultimo Fulci, forse addirittura da rivalutare contestualizzando la “morìa di vacche” che, all’epoca, aveva fatto bandire horror e derivati dai generi più popolari per il pubblico (siamo pur sempre alla fine degli anni 80).

    Per evitare di generare fraintendimenti, è bene comunque tenere presente che si tratta di un lavoro molto essenziale e con pochi mezzi (per questo, e solo per questo, mi sono permesso di scomodare un raffronto con l’opera di un esordiente), caratterizzato dalla tipica scarsità di spessore di alcuni personaggi, che vengono buttati nella mischia alla meno peggio e senza alcuna premessa. Tuttavia, analizzando la vicenda produttiva che portò alla sua realizzazione (film commissionato dalla TV e mai mandato in onda: quanto si sarebbe incazzato il protagonista di Ubaldo Terzani Horror Show…), e tenendo anche conto che si tratta di un lavoro anti-televisivo al massimo, sono piuttosto convinto che la Troma di Kaufman sarebbe stata orgogliosa di produrreQuando Alice ruppe lo specchio“: questa, dunque, è forse la recensione più efficace che si possa proporre per questo lavoro dimenticato dai più.

    Tra gli interpreti, segnalo il bravo Al Cliver, che qualcuno dovrebbe ricordare tra i protagonisti del capolavoro Zombi 2. Piccola nota sulla locandina AvoFilm: essa riporta il protagonista con un coltello insanguinato (e ci sta), una bella figliola (che manca) ed un morto vivente (che non esiste proprio). Così, tanto per mandarci fuori strada: è suggestivo pensare al buon Fulci ridere di quelli che si aspettavano vedove sexy e formose da film di Rocco Siffredi (sono tutte piuttosto brutte, quelle di “Quando Alice…“, e qualcuna ha pure barba e baffi!), mentre non possiamo fare a meno di constatare come fosse definitivamente – o quasi – tramontato il tempo dei morti viventi nei corridoi di un ospedale. Provocazioni contro il suo stesso pubblico o contro la soffocante produzione “volemose-bbene“?

    Alla fine chi se ne importa: abbasso l’apparenza, Lucio Fulci vive.

  • Nightmare 5 – Il mito: il seguito non indimenticabile di S. Hopkins

    Nightmare 5 – Il mito: il seguito non indimenticabile di S. Hopkins

    Alice Johnson è una studentessa tormentata da incubi ricorrenti, oltre che da un mondo che sembra non saperla ascoltare; le uniche figure amiche sembrano essere quella del padre e del fidanzato Dan. Nel frattempo si preparano i presupposti per la rinascita di Freddy Krueger…

    In breve. Quinto episodio di una saga horror longeva, incentrato stavolta sul tema della nascita e penalizzato, nonostante buoni presupposti, da una serie di tagli censori più efferati degli artigli di Freddy. Regia e fotografia decisamente suggestiva, nonostante il copione sia pressappoco quello di sempre. È uno dei Nightmare meno amati dal pubblico, per motivi giustificabili solo in parte.

    Questa volta la regia di Nightmare tocca all’australiano Stephen Hopkins, noto per aver diretto tra l’altro il buon Predator 2 l’anno dopo. Il quinto episodio della saga di Freddy Krueger non è, stando al “sentito dire“, tra i migliori mai comparsi sullo schermo: quantomeno è così per i fan e anche per buona parte della critica che non l’ha rivisto di recenti. I reali motivi di questa maldisposizione sono legati, come già per gli altri episodi, al “tradimento” dello spirito del personaggio principale, da ombra inquietante ed indefinita ad Elm Street (paragonabile in parte al Michael Myers di Halloween) a villain tanto grottesco da risultare parodistico – leggasi: poco spaventoso.

    Questo nonostante una regia alla prova dei fatti tutt’altro che dilettantesca, ed almeno una prima parte di film che evoca toni gotici ed atmosfere spettrali e che, insomma, promette bene dall’inizio.

    L’idea di focalizzare la storia sul concetto di nascita (e su annessi incubi), per inciso, sembra essere venuta al produttore esecutivo Sara Risher, sia perchè si rese conto che il “fan medio” di Freddy era nel frattempo cresciuto (potremmo mai credere a Nightmare come “film generazionale” anni 80?), sia perchè  – forse soprattutto – aveva avuto lei stessa un figlio da poco. A differenza degli altri capitoli, le vittime hanno appena finito il college (età media degli interpreti aumentata, come si diceva poc’anzi), rendendo l’ambientazione meno “adolescenziale” ed i personaggi alle prese con i problemi tipici di quell’età.

    Il film è, inoltre, certamente debitore di tanti classici del passato, incentrati sull’orrore irrazionale della procreazione e soprattutto sull’annuncio dell’arrivo dell’Anticristo (The Omen). In quest’ottica la figura del Freddy neonato visibile all’inizio sarà anche fuori luogo o cialtronesca ma, a ben vedere, rientra negli standard codificati, in eterno bilico tra cupo e grottesco. Inoltre, come in Nightmare 6 sapremo di più su moglie e figlia del mostro, in questo film conosceremo la figura di Amanda Krueger, la madre di Freddy, che comparirà in veste di suora durante gli incubi di Alice.

    Le tematiche di Nightmare 5 sono quelle di sempre (disagio giovanile, conflitto genitori-figli, ma anche culto dell’apparenza, bulimia e aborto), e con una suggestiva anticipazione di una cena modello Society l’horror diventa vettore di messaggi sociali: quello che resta impresso allo spettatore, pero’, è un susseguirsi prevedibile di premonizioni, morti mal riuscite (soprattutto a causa dei tagli) e dialoghi non sempre credibili e incisivi. Difficile dare più credito ad un film che tenta con ardore di dare il proprio contributo alla saga, ma che paga forse lo scotto di non essere uscito prima. Irresistibili ed iconici, per inciso, sia il Freddy-cuoco (che rimpinza la povera Greta fino a farla scoppiare) che quello che combatte in veste di Super Freddy contro Il Giustiziere Fantasma (Phantom Prowler, l’alter ego del nerd Mark), senza contare l’inquietante e giovanissimo Jacob (il futuro figlio di Alice), che avrà un ruolo chiave nella storia.

    Buona parte di A Nightmare on Elm Street 5: The Dream Child (titolo suggestivo, mutato in Nightmare 5 – Il mito nella versione italiana) vira su un freddo tono gotico di colore azzurro, che conferisce un che di surreale al film; le sequenze tra incubo e realtà abbondano, ma sono a volte scollegate e non immediate da comprendere. A questo, inoltre, si aggiungano i numerosi tagli censori che hanno deturpato, non solo in Italia, buona parte del film, privandolo delle sequenze più violente o splatter, anche a discapito della sequenzialità. Questo contribuisce in negativo al giudizio sul film, ed è inevitabile: ad esempio quando Freddy cerca di aggredire la prima vittima a letto, giocando sulla consueta ambiguità sogno-realtà, pronuncia una frase che è stata fatta fuori dalla versione definitiva (there’s no such thing as safe sex, cioè non esiste il sesso sicuro), il che fa perdere d’un colpo sia ritmo che senso. Bilanciando questo con trovate decisamente sopra le righe – su tutte, Freddy e Jacob che si muovono su scale che evocano le geometrie impossibile della Relatività di Escher – si capisce che, tutto sommato, il film un suo spessore prova a mantenerlo.

    Certo, stride parecchio che tutte  le sequenze dell’omicidio delle vittime siano state “alleggerite” delle parti più gore: ma è impreciso e superficiale, a questo punto, non pensarci prima di lanciarsi in un giudizio drasticamente negativo verso questo quinto episodio che, alla prova dei fatti, tanto male e “scandaloso” non è, anzi. Gli indispensabili episodi della saga sono stati Nightmare – Dal profondo della notte, Nightmare – La rivincita, Nightmare – I guerrieri del sogno, xNightmare – Il non risveglio, mentre il film è seguito da Nightmare 6 – La fine e da Nightmare – Nuovo incubo.

  • Scare campaign è l’horror splatter riuscito solo a metà

    Scare campaign è l’horror splatter riuscito solo a metà

    Scare Campaign è un programma TV basato su scherzi crudeli, a tinte horror-splatter. La produzione, pero’, ha deciso di non finanziarlo più, per via degli ascolti scarsi. Per giocarsi l’ultima carta, la troupe decide pertanto di girare un ultimo, incredibile episodio in un manicomio abbandonato.

    In breve. Horror australiano accattivante ed ambiguo, che sulla carta dovrebbe funzionare: al netto di un impianto visivo splatter molto efficace, il risultato sembra deludere un po’ le aspettative.

    Scare Campaign propone il consueto impianto in chiave mockumentary (le riprese alternate in soggettiva, da telecamere di sicurezza e da una regia TV) e lo rielabora in una serie di twist a sorpresa, innestati uno nell’altro. Per spezzare l’effettiva monotonia del genere, in sostanza, i registi si sono inventati una seconda storia nella storia principale. Alla base di tutto, ovviamente, vi è un pubblico da soddisfare, assetato di novità (per non dire di sangue), e questo ovviamente pone le basi per una riflessione (almeno in parte) interessante sul potere dei mass media e soprattutto di internet. Una riflessione, a dirla tutta, non certo inedita.

    Ce ne accorgiamo chiaramente quando la produzione deciderà di tagliare i fondi alla serie perché, guarda caso, ha scoperto un canale streaming di grande successo in cui è possibile vedere degli snuff movie. Sulla mitologia snuff, i filmati che riprendono morti ed omicidi realmente accaduti (e che sarebbero commissionati a pagamento), molto si è discusso negli anni; senza dilungarmi troppo sull’argomento, consiglio di leggere l’approfondimento della rivista SkepticalInquirer a riguardo, un articolo del 1999 che li considera una leggenda urbana dato che nessuno ne ha mai visto uno, e sottolinea la responsabilità dei media nel non aver mai effettuato un opportuno fact checking. Il punto pero’ è che, guardando questo film, accettiamo tacitamente il fatto che potrebbero esistere, e che ci sia gente che addirittura ami guardarli.

    Di per sè l’idea di Scare Campaign non sarebbe neanche malvagia: mettere di fronte una troupe che si diverte a registrare una candid camera a tinte horror a chi, invece, sta girando convintamente un vero e proprio snuff. Un conflitto massimo tra i personaggi, esasperato all’ennesima potenza (e facile preda di equivoci di ogni genere), che a livello di horror originale e ben realizzato funzionerebbe, nelle intenzioni. Il problema risiede, a mio avviso, in una sorta di dissonanza tra ciò che percepiamo in alcune fasi del film e ciò che, invece, ci arriva in altre.

    Fin dai tempi di [REC] – e senza scomodare Cannibal Holocaust, per una volta – è chiaro che il falso documentario continui a incuriosire il pubblico, ed abbia portato nuova linfa al genere (dai lidi più popolari di V/H/S a quelli più estremizzati di Snuff 102). Ed è anche evidente che è impossibile girare horror, oggi, limitandosi a considerare i mostri di sempre, le solite case abbandonate o le archetipiche famiglie di psicopatici. Il mockumentary va oltre, e spesso coglie nel segno: ma non sempre, come in questo caso, chi devia dalla norma riesce a dire qualcosa di nuovo.

    Sulla carta in Scare Campaign l’approccio è differente: Colin e Cameron Cairnes ribaltano l’assunto di tutte le precedenti storie, le quali si basano sull’idea preconcetta che ciò che vediamo sia autentico. Questo è alla base del meccanismo che rende spaventoso tutto quello che si vede sullo schermo, perchè non c’è drammatizzazione e (come idea, ovviamente) non c’è alcuna finzione di mezzo. In questa sede, invece, non sappiamo bene cosa stia succedendo: da un lato potrebbe essere una finzione dichiarata, dato che in più passaggi (anche durante gli omicidi più convincenti) vediamo una regia nascosta (un film nel film, insomma). Dall’altra, pero’, c’è il pubblico che potrebbe rimanere perplesso e chiedersi cosa, di preciso, stia guardando.

    Il dubbio viene iniettato fino allo sfinimento, insomma, ed il pubblico non riuscirà a capire se stia assistendo ad un “vero” omicidio (ovviamente nel senso della narrazione del film) o ad uno splatter che sta ingannando gli attori. Se è un fatto assodato, del resto, che molti registi siano soliti non raccontare interamente la trama agli attori (al fine di accentuarne la reazione spontanea e l’effetto sorpresa), questa è l’unica nota filologica pertinente: perchè Scare Campaign è, a ben vedere, un horror medio, non certo d’autore, in cui i continui stravolgimenti della storia finiscono per sfilacciare la tensione. E questo, ovviamente, non può contribuire ad un giudizio positivo.

    L’impressione generale, alla fine della visione, è (grottescamente, direi) proprio quella di aver appena visto un film. Un lavoro in cui, in altri termini, è impossibile provare qualsiasi forma di empatia nei confronti dei personaggi, di quello che pensavano o simboleggiavano, con buona pace di qualsiasi critica che possa provarci. E questo suggerisce un film che promette senza mantenere, rivelandosi vagamente deludente nella sostanza. Questo, ovviamente, spiace ammetterlo – perché Scare Campaign di pregi ne avrebbe pure: non tanto a livello recitativo (che è nella media) quanto a livello di aver saputo giocare con la trama. Ma senza riuscire a far capire al pubblico quale sia il punto non si potrà mai parlare pienamente in positivo del film. Peraltro, dopo l’ennesima rivelazione shockante, si potrebbe rimanere, a mio avviso, più confusi che spaventati.

    Non voglio pensare che un film del genere sia da prendere tanto sul serio da simboleggiare chissà cosa, eppure i presupposti sembravano proprio quelli. E forse la scena più emblematica è proprio sul finale, ovvero il trattamento che subisce il regista mentre blatera di come l’horror sia anche arte (essere didascalici non è mai una buona idea, secondo me).

    Oppure, magari, era solo un horror divertente, che si prende (spero bonariamente) gioco di chi, come il sottoscritto, tende a prenderlo troppo sul serio. E a voi potrebbe piacere lo stesso…

  • Antrum – Il film maledetto: l’horror criptico di Amazon Video

    Antrum – Il film maledetto: l’horror criptico di Amazon Video

    Un ragazzino e una giovane donna si recano nel bosco, al fine di scavare una fossa che possa condurli direttamente all’inferno: l’idea è far vedere per l’ultima volta al giovane Nathan il suo cane, Maxine, morto qualche tempo prima. Antrum rappresenta il mockumentary in questione, risalente a fine anni 70, il quale esamina amabilmente, ancora una volta, la potenza orrorifica della narrazione realistica.

    In breve. Mockumentary sulfureo e sinistro come pochi, costruisce un’atmosfera impagabilmente tesa, pur mostrando un impianto semplice e relativamente lineare. Cosa ancora più interessante, si muove su un duplice livello interpretativo (sovrannaturale vs. realistico).

    Lanciato da una tagline fulminante e a suo modo geniale (“c’è un motivo per cui non hai mai visto Antrum: se l’avessi fatto, saresti morto“), Antrum (un mockumentary del 2018 della Else Films) prefigura l’idea stessa del film maledetto, la classica fissazione da cinefili incalliti, alla perenne ricerca di pseudo-snuff introvabili, inediti o tanto cruenti da essere messi al bando.

    Scritto sapientemente dalla coppia di registi David Amito e Michael Laicini, Antrum ci introduce nella storia sfruttando un doppio livello narrativo: da un lato un horror low budget che racconta la storia di un ragazzino e della sorella a contatto con dei demoni, dall’altro dei ricercatori ed organizzatori di festival horror che ne riferiscono la minaccia per l’incolumità del pubblico. Se i presupposti sono sulla falsariga della strega di Blair, la sostanza cambia parecchio: Antrum è corposo, sostanziale e minaccioso, permeato come è da un’aura di tensione costante. Gli sguardi dei protagonisti, spesso persi nel vuoto e nell’indefinito, hanno un che di esoterico e “preoccupano” lo spettatore, che spesso non capisce realmente cosa stia succedendo. Un gioco di equilibri importante che rende l’opera a mio avviso superiore di qualità a quella dei numerosi film analoghi su questa falsariga.

    Prima di passare alla parte sostanziale dell’intreccio, vediamo una breve premessa: essa è atta a raccontarci le cose orribili accadute a quasi tutti coloro che hanno visto – o si sono interessati al film, per poi passare ad un avviso con la più classica delle declinazioni di responsabilità. Lo aveva già fatto Wes Craven con L’ultima casa a sinistra, peraltro già allora accarezzando il mood degli snuff (gli horror reali o realistici che mostrerebbero vere morti, pubbliche esecuzioni e via dicendo) pur senza scomodare i formalismi legali che introduccono Antrum. A testimonianza di un linguaggio che, per evidente fame di iperrealismo, ha finito per adeguarsi ai tempi che corrono, anche a scopo di sembrare francamente esagerato. Un film tanto maledetto da essere un “assassino di pubblico” è un’idea perfetta per un horror memorabile, anche se non certo una novità assoluta, dato che è stata già sviscerata da piccoli capolavori quali The last horror movie, ad esempio, ma anche – qualche anno prima – da Cigarette Burns di John Carpenter (in cui si narrava della pellicola dannata “La Fin Absolute du Monde“, proiettato una sola volta e seguìto da un raptus omicida che aveva colto gran parte del pubblico).

    Certo, non è un invito a continuare allegramente la visione ma, al tempo stesso, diventa un’operazione di accattivante narrativa degna del miglior scrittore horror.

    A conferma di un certo gusto esotico da parte dei registi David Amito e Michael Laicini, i titoli di testa sono parzialmente in carattere cirillico, quasi a voler disorientare il pubblico, o magari impedirgli di effettuare ricerche “di sgamo” su Google durante la visione del film stesso. Tutto sembra iniziare a fine anni 80, quando il film è stato proiettato per la prima volta a Budapest, provocando l’incendio del cinema e 56 morti. In seguito, molti produttori e promoter di festival del cinema che lo avevano visionato avrebbero subito la stessa sorte, senza contare una sorta di delirio collettivo (la spiegazione in questo caso è razionale: il proprietario del cinema avrebbe inspiegabilmente sciolto pasticche di LSD nel burro per friggere i popcorn, circostanza che non può che richiamare Climax di Gaspar Noè).

    Quando poi inizia il film vero e proprio – di cui abbiamo visto la cornice narrativa che ne fa da premessa – sembra di tuffarsi realmente nel cinema horror anni ’70: la grana della pellicola è consumata, sembra realmente un film di 30 o 40 anni fa ed è un espediente che richiama film underground come The last house on dead end street oppure, meglio ancora, il filone satanico dell’epoca che viene omaggiato, ad esempio, da The house of the devil. C’è anche da notare che, dopo aver visto il film per intero, possiamo considerare i demoni sia in senso letterale (e ciò rende Antrum un horror sovrannaturale di grandissimo livello) sia, volendo, in senso figurato (ed in questo caso abbiamo comunque visto un film che omaggia una tradizione exploitation simboleggiata dai due grotteschi cannibali e dai sacrifici umani che sono soliti perpetrare).

    La narrazione è complessa ed è in realtà strutturata in vari strati, che dovrebbero corrispondere con i gironi infernali di dantesca memoria, che i due protagonisti scoprono scavando una fossa sempre più profonda. A quel punto, come in un spettacolo di teatro sperimentale (o come in Dogville di Lars Von Trier) la foresta diventa un non-luogo privo di dimensioni e riferimenti temporali, in cui non esistono muri separatori o non sembra succedere mai nulla – quando invece, nella realtà, si tratta di un universo parallelo popolato di non morti, demoni ed altre creature non identificabili.

    Altri elementi della storia vivono di non sequitur, sono tutt’altro che ovvi oppure, ancora, probabilmente pregni di simbologia che i soliti fan, come spesso accade, potranno divertirsi a sviscerare o interpretare: ad esempio, quando nella foresta compare – un po’ dal nulla, apparentemente – un uomo dai tratti orientali, che sta per eseguire un suicidio rituale tipico dei samurai (un seppuku). Si gioca anche molto con le suggestioni, dato che molti personaggi sono ombre che si muovono nell’oscurità, e non sempre esiste un approfondimento in merito.

    Che cos’è Antrum?

    Seguendo la trama del film, “Antrum” è il nome di un presunto lungometraggio maledetto girato negli anni ’70, circostanza ovviamente inventata dai registi nonchè sulla falsariga della campagna viral che aveva lanciato il primo film sulla strega di Blair. Ma a differenza del cult dei primi anni duemila che, rivisto oggi, lascia poco più di una sensazione di camera traballante, in Antrum è tutto tremendamente ordinato, una sorta di caos calmo che non aspetta altro se non svelarsi in tutto il proprio orrore: nulla è casuale, dal cadavere inquadrato quasi accidentalmente alla comparsa di un demone in forma di scoiattolo.

    Le urban legend che circondano questo lavoro – che non sono troppo difformi da quelle che, ad esempio, sono legate alle disgrazie avvenute a chi aveva lavorato al film The Omen –  insistono ossessivamente sull’idea che si tratti di un film maledetto, e che chiunque abbia osato guardarlo sia destinato a morire (idea identica, peraltro, a quella della videocassetta della saga di The Ring).

    Cosa sono i fotogrammi in bianco e nero che si intravedono in alcuni momenti del film?

    Sempre nell’ambito delle leggende urbane resta da considerare l’inserimento di alcuni frame in bianco e nero che intervallano la visione del film: in uno, ad esempio, si intuisce la presenza di due persone che urlano mentre vengono torturate (a prima vista sembra che si trovino in una sorta di mattatoio), in un altro si vede il viso di un demone inespressivo, in primo piano, che muove gli occhi e sembra fissare il pubblico. Verso la fine del film, le due persone sembrano prima abbracciarsi, poi urlare esasperate forse in vista di una potenziale liberazione. In seguito, le vediamo sdraiate, e non vediamo mai il loro aguzzino (cosa che suggerisce possa trattarsi di uno snuff, cosa che pero’ sembrerebbe piuttosto scollegata con il resto della trama).

    Frammenti di un altro film? Allucinazioni? Fino a qualche anno fa si discuteva della presenza di fotogrammi occulti o satanici all’interno di vari film Disney, da Bianca e Bernie a Chi ha incastrato Roger Rabbit, e che plausibilmente furono quasi tutti Easter egg (sorprese fuori contesto, collocate non ufficialmente dai creativi al lavoro sul film). Riportare questa dimensione in un horror è un’idea molto funzionale, così come inframezzarlo con quello che potrebbero essere (tiriamo ad indovinare, visto che non ci sono risposte definitive) frammenti di un film snuff, anime dannate presenti all’interno dei vari gironi o semplici allucinazioni che vivono i protagonisti durante il proprio viaggio.

    Cosa c’è scritto nelle scritte che passano rapidamente in sovraimpressione?

    Oltre ai frammenti in bianco e nero, vediamo anche delle scritte scorrere rapidamente. Alcune di esse sono al contrario (come in uno specchio), altre nel verso corretto, ma passano troppo rapidamente perchè si possa vedere qualcosa. In alcuni casi, vediamo un simbolo del pentacolo, verso la fine un triangolo rovesciato: il primo è il simbolo del demone Astaroth, mentre il triangolo è molto più ambivalente e sembra chiara la sua natura occulta di “evocatore”.

    Si tratta di elementi che alimentano la suggestione del film, e dal carattere fortemente caratterizzante.

    La storia di Nathan e Oralee

    Nell’introduzione e nella conclusione del film vediamo riprese moderne, da documentario, che ci raccontano quello che dovremmo sapere sul film; si tratta di una sorta di meta-introduzione all’argomento. Nella storia vera e propria il registro visuale cambia del tutto e, da digitale, diventa quello di una pellicola da 35mm anni ’70. Un bambino rimane traumatizzato dalla morte del proprio cane, e la sorella (in seguito ai suoi frequenti incubi) decide di organizzargli una grottesca “gita all’inferno” per farglielo rivedere. Proprio questa disinvoltura di fondo, nonchè abile giustapposizione tra l’innocenza del piccolo Nathan e l’ambiguità della sorella Oralee, crea i presupposti per innalzare la tensione, soprattutto per l’ordinarietà con cui effettuano i rituali, con tanto di grimorio e di una conoscenza di quel mondo evidentemente regressa.

    Cosa ancora più inquietante, non si riesce subito a capire – anche se poi col tempo forse lo intuiremo – se Oralee stia agendo con effettiva convinzione, per aiutare il fratello ad esorcizzare il trauma o, al limite, per entrambi i motivi. Dalla colonna sonora in stile Goblin, poi, emerge un riferimento ben preciso all’epoca d’oro del cinema di Bava, Fulci ed Argento, mentre una certa dissonanza psichedelica sembra implicitamente fare riferimento al mondo del satanismo e della demonologia.

    Inquadrare il contesto di un film di genere, motivo per cui ho dovuto fare una infinita sfilza di premesse, è fondamentale per non banalizzarne l’atmosfera e godersene ogni singolo frame: perchè questo è uno di quegli horror che va dritto al cuore degli orrorofili più incalliti o disillusi, quelli convinti che gli horror di oggi non facciano più paura  – cosa falsa, peraltro, perchè per fortuna – anche grazie agli emergenti servizi di streaming – le distribuzioni horror sono sempre più online e sempre più capillari.

    Tutto questo, ovviamente, con tutte le rielaborazioni derivate dai precedenti dello stesso genere, che vanno da The Blair Witch Project a Cannibal Holocaust, passando per The war game, ovviamente in chiave satanica e con evidenti richiami ad un orrore che, in media, è più “di parola” che visuale. Una tradizione di falso-documentario che, anche in questo caso, ci tiene a rendersi credibile a ogni costo (e Antrum non fa eccezione), arrivando a “minacciare” virtualmente lo spettatore, pena che l’intero impianto risulti risibile.

    Per questo, e per un finale apertissimo e sopra le righe, Antrum è promosso a pieni voti.

    Spiegazione del finale

    Merita qualche parola il finale, che in realtà è un doppio (se non un triplo) finale, aperto ad innumerevoli interpretazioni, per quanto basti vederlo per trovare la risposta ad almeno una parte degli interrogativi. Seguendo la falsariga dell’analisi di un film come Il gabinetto del dottor Caligari e, direi soprattutto, Omen Il presagio, ho deciso di trarre un po’ di considerazioni secondo me importanti. Bisogna secondo me partire da qualche minuto prima, per entrare correttamente nel mood di queste considerazioni.

    Come nel capolavoro espressionista di Weine, secondo me ci sono almeno due livelli interpretativi: nel cult in questione c’erano una storia realmente accaduta, e poi i deliri immaginati da alcuni pazienti di un ospedale psichiatrico. Una cosa non esclude l’altra, questa è la cosa affascinante – ed è esattamente quello che succede in Antrum: Oralee sembra aver individuato un trauma che preoccupa il giovane fratello Nathan, e decide di applicare una sorta di “terapia d’urto” per fargli superare il dolore per la perdita del cane. Il viaggio, peraltro, è suggestivo e vorrebbe essere fonte di distrazione e svago per Nathan, ma le cose sembrano sfuggire di mano, istante dopo istante. Viene più volte il dubbio, in effetti, che il viaggio nell’aldilà infernale sia effettivo, e non semplicemente un gioco immaginato dai due protagonisti (il riferimento alla parola “gioco”, peraltro, è anche presente nello spiegone conclusivo). I due personaggi, peraltro, non sembrano poter più uscire dal bosco una volta entrati, dato che hanno preso una barca, poi hanno camminato a lungo verso casa – salvo ritrovarsi con orrore nel punto di partenza (situazione tipica di molti horror surrealisti e concettuali).

    Per tutto il film vediamo un’escursione in un territorio che, a giudicare dal comportamento di Oralee, dovrebbe conoscere bene: questa confidenza col bosco, unita ad una sostanziale destrezza nel campeggio e l’essere l’adulta della situazione, potrebbe anche suggerire una certa familiarità ambigua con i rituali satanici e con l’evocazione di demoni, tant’è che siamo in un non-luogo e lei stessa ammetterà che il grimorio lo aveva scritto ed illustrato da sola. Sembra quasi che i protagonisti giochino con il mondo occulto – fin quando è possibile farlo in modo relativamente sicuro, nelle loro intenzioni – anche se poi la protagonista diventa molto lucida quando avverte un pericolo reale (i due cannibali che li catturano).

    Nathan, dal canto suo, è un topos cinematografico ben noto: è infatti molto simile al pacato e sinistro Damien di The Omen, i suoi silenzi ed il suo guardarsi attorno sono quasi sovrapponibili e – soprattutto – poco prima della scritta The End lo vediamo sorridere alla camera, non sappiamo se rivolto alla sorella, agli spettatori, al proprio cane finalmente ritrovato o a qualche altra presenza oscura. Il finale del cult di Richard Donner era ambiguo, conteneva anch’esso un sorriso alla camera da parte del bambino e, probabilmente in modo incidentale, anche in quel caso era stato appena ucciso qualcuno con un colpo di pistola (l’ambasciatore nell’uno, il cannibale nell’altro). In entrambi i film, non abbiamo un’idea netta su chi sia davvero il bambino, se abbia natura umana o sovrannaturale e quali conseguenze ciò potrà avere.

    Il sorriso alla camera sarebbero stato il finale aperto perfetto – ed io stesso ero convinto, sulle prime, che fosse finita lì. Ma c’è di più, perchè Antrum contiene un duplice finale: vediamo ora la fine della storia questa volta dal punto di vista di Oralee, mentre corre nel bosco per raggiungere il fratello. Si rende conto, quindi, di essere circondata da vari demoni mimetizzati tra gli alberi, probabilmente infastiditi dal mancato sacrificio avvenuto poco prima.

    Non sembra esserci modo di scacciarli, tant’è che ha perso il cerchio magico che utilizzava per proteggersi (glielo hanno smantellato i due cannibali), e non le resta a questo punto che bruciare il grimorio. Questo non la preserva da una sorta di follia finale: si rintana nella tenda, in attesa dell’arrivo di Nathan. Non vediamo se lo sparerà o meno, ma sentiamo il colpo e poi finisce il film, questa volta sul serio. La necessità di un doppio finale, in effetti, sembra più dettata da un omaggio che ad altro (i doppi finali sono tipici del cinema horror classico a qualsiasi latitudine), anche se rimane suggestiva l’ipotesi che Nathan sia ormai controllato da uno dei demoni (a cui, a questo punto, avrebbe sorriso). Interessante anche pensare che si tratti di una sorta di extra che i registi stessi siano stati “spinti” a girare, in nome di un Male che tenderebbe nichilisticamente a sopraffarci (che è un po’ lo spirito con cui è stata girato, ad esempio, Morituris). È anche l’unica spiegazione al fatto che decida di compiere questo gesto, che stando alla stretta logica è inspiegabile mentre, nel vortice delle suggestioni di cui è avvolto il film, potrebbe avere più di una valenza.

    Le considerazioni conclusive sono meta-filmiche ancora una volta, e svelano alcuni simbolismi usati nella pellicola. Non viene detto nulla, curiosamente, dei frammenti pseudo-snuff (forse per accattivare il pubblico), ma si conclude il cerchio con una serie di riflessioni incentrate sui simboli, su alcuni dettagli del film e sul potere della ritualità e della credenza, autentico motore in grado di suscitare le più disparate emozioni umane, incluse quelle mortali.

  • Horror Hospital: il diario proibito di un collegio femminile

    Horror Hospital: il diario proibito di un collegio femminile

    Sintesi: un chirurgo pazzo sottomette alla propria volontà, con l’inganno di una vacanza rilassante, orde di hippy flaccidi. Ed un po’ rincoglioniti. E ricordate di lavare sempre i denti…

    In sintesi: mediocre prodotto settantiano, senza infamia e con pochissima lode. Questo è un film proveniente dagli anni ’70 che vede la partecipazione di Michael Gough nella parte del diabolico (?) Dottor Storm. E gli unici stormi che svolazzano in questo film sono i dubbi degli spettatori, che non potranno fare a meno di notare qualche incongruenza nel campo della medicina, della fisica e della logica. Se poi siete scazzati, senza pretese meta-filmiche e volete un’opera tutto fumo e pochissimo arrosto, giusto per soddisfare la vostra fame da cannibale di splatter, accomodatevi pure. In fondo è cosa buona e giusta anche questa, ogni tanto.

    Cosa succede in questo film? Un cantante rock sull’orlo di un esaurimento nervoso decide di andare in vacanza: cosa c’è di meglio di un castello sperduto in mezzo alla natura incontaminata? Sul treno incontra una giovane ragazza che si sta recando nello stesso luogo per avere notizie della zia: arrivati sul luogo trovano dei personaggi alquanto bizzarri, tra cui una signora nevrastenica, un nanetto ambiguo ed un folle chirurgo. Essi, si scoprirà a breve, non aspettano altro che di torturarli e di annichilire la loro volontà. Mentre i nuovi arrivati visitano la loro nuova residenza notano (epica l’espressione da ebeti con cui lo fanno) che in una stanza c’è un letto d’ospedale grondante sangue: invece di darsela a gambe, decidono di prenderla con nichilismo e rimangono beatamente dove sono. Il fatto è che ci sono delle priorità, e quella di tipo sessuale va in primo piano, al di là di qualsiasi istinto di sopravvivenza.

    Mettendo la parte la filosofia spicciola, la regia è abbastanza solida, e le riprese sono sempre all’altezza della situazione: peccato per gli interpreti non proprio brillanti (eccezion fatta per il mitico Dennis Price e per il succitato dottore) e per la trama molto, molto confusa. L’ambientazione non potrà non piacere agli amanti del cinema di genere degli anni ’70: colori forti (con predominanza del rosso), accenni di tensione ed oscurità. Il cast, invece, sembra uscito letteralmente fuori dal nulla, nel senso che si trova a recitare parti che probabilmente non erano nemmeno troppo chiare nella sceneggiatura: uno script che sembra improvvisato, tenuto insieme con lo sputo, e che presenta delle “pezze colorate” quasi sempre fuori luogo.

    Leggendari (da vero z-movie) alcuni dialoghi senza capo nè coda, tra cui ricordiamo il nanetto-custode dell’albergo che invita gli ospiti più volte di “ricordare di lavarsi di denti“, come se questa cosa dovesse far ridere o spaventare. Misteri. Non posso fare a meno di citare, poi, il sangue che esce dal rubinetto dell’hotel senza un contesto, una giustificazione o un riferimento che sia uno, e soprattutto che il diabolico Dottor Storm che è costretto da una sedia a rotelle durante tutto il film, tranne nel finale in cui saltella allegramente per il bosco con uno scatto degno de “Il maratoneta“.

    In sintesi: siamo molto lontani dal capolavoro, ma molto vicini al film divertente a basso costo che vuole dire tanto senza riuscire a dire granchè. Risparmio a tutti, prima che a me stesso, la trafila di retorica hippy sull’alienazione dell’individuo e sulla perdita di coscienza della generazione odierna. Film curioso, ma nulla più.