FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • La mente che cancella: “Eraserhead”

    La mente che cancella: “Eraserhead”

    Henry Spencer è un tipografo che vive in una periferia industriale squallida e povera: invitato a cena dai suoceri scoprirà che la fidanzata ha appena partorito un mutante…

    In breve. Forse la più cupa espressione della complessa poetica di David Lynch: un passo obbligato per la conoscenza del cinema weird da parte di fan e coraggiosi pionieri, tutti gli altri spettatori possono (devono?) fare a meno.

    Eraserhead, fin dal delirante e lungo incipit con la testa reclinata di Jack Nance proiettata nello spazio, delinea l’esordio del regista statunitense in un indimenticabile bianco e nero e ne traccia, seppur in modo sconnesso, tematiche, preferenze e attenzione per le tematiche oscure. “Un sogno di avvenimenti oscuri e pericolosi“, un film che diventa quasi impossibile da raccontare, se non partendo dal fatto che – quantomeno nel cinema caratterizzato da elementi sci-fi o di terrore – è stato enormemente tributato nel seguito: basti pensare anche solo a due titoli, ovvero Tetsuo e Begotten, e chi li conosce capirà l’importanza di una pellicola datata 1977 di questo tipo. Gli elementi comuni con questi due non sono pochi: anzitutto la caratterizzazione fuori dalle righe dei personaggi, ma anche le ambientazioni decadenti e le tematiche, per quanto estremizzate, sostanzialmente da horror “puro” (la dimensione dell’incubo valorizzata all’ennesima potenza). Se nel lavoro di Tsukamoto il focus è pero’ incentrato sulla contaminazione uomo-macchina, mentre in quello di Merhige si narra di una sorta di mito biblico in chiave macabra, in questa circostanza si parte da una situazione apparentemente banale, di tutti i giorni. È il suo sviluppo, lentamente mediato tra incubo e realtà, a risultare del tutto disorientante per lo spettatore (ed è per questo motivo, di fatto, che ho preferito mettere in chiaro all’inizio della recensione che non è un film per tutti, anzi si tratta del più celebre rappresentante dei film weird). Al di là poi dei riferimenti, e del rischio che in queste circostanze lo stesso “non capire il film” possa risultare ingenuamente appagante (con il regista che finisce per mettere simbolicamente “sotto i piedi” il pubblico che lo osanna), Eraserhead è catalogabile come la Pellicola B-izarra per eccellenza. Non è poco, se si considerano le decine di tentativi di realizzare lavori di questo tipo in seguito, che troppo spesso sfoceranno in un linguaggio troppo autoreferenziale e “traumatico” per chiunque (con piccole eccezioni in positivo come Seguendo il sangue di Alberto Antonini). L’elemento sconnesso, irrazionale, carico di simbolismi poco ovvi o, nella peggiore delle ipotesi, un po’ vuotamente art-house – si consolida in questa sede, e non tutti gli spettatori avranno voglia e mezzi per saperlo leggere: tanto che si presentano richiami stilistici all’arte surrealista. Come se non bastasse, si ha spesso la sensazione che “Eraserhead” sia stato girato al rallentatore, imponendo lunghe pause, silenzi assurdi, pianti infantili nella notte e rallentamenti nella trama che conferiscono al tutto un ritmo che, a dirla tutta, a volte vacilla. Il film, immerso in una insostenibile scarsità di dialoghi ed intervallato da lunghissimi momenti “morti”, racconta la storia del mite tipografo Henry Spencer (il “capellone” che vediamo all’inizio). L’uomo vive in una desolata area industriale e, in uno scenario da teatro dell’assurdo (il pollo che stanno mangiando a tavola inizierà a sanguinare), i genitori della fidanzata gli annunceranno la nascita di un figlio.

    Ad esprimere il messaggio principale della pellicola vi è il fatto centrale dell’opera stessa, ovvero che il nuovo arrivato è un mostruoso mutante e questo, senza eccedere in voli pindarici ed associazioni di idee troppo azzardate, sembra voler esprimere l’ansia insostenibile di Lynch per la paternità. Un concetto piuttosto profondo che in definitiva, se veicolato in questi termini, rischia di rimanere confinato in un mondo da “addetti ai lavori”: del resto ci vorranno diversi anni perchè Lynch riesca ad esprimere al massimo grado la propria arte con Strade perdute, e per l’età del film e considerando la carriera del regista ci può anche stare. Il titolo “la mente che cancella”, per la cronaca, fa riferimento all’allucinazione di Henry che sprofonda in un letto, incontra una bizzarra cantante, vediamo la sua testa staccarsi dal suo corpo – su un pavimento a quadretti – ed un bambino che la porta in una fabbrica: qui sarà presto trasformata in una gomma per cancellare, e questo è quanto. La declinazione successiva dell’intreccio, con la scoperta che il piccolo mutante è malato, delinea uno stacco e trasmette la sensazione di aver vissuto solo un incubo che si risolve, tuttavia, in quello che sembra il reale omicidio del figlio del protagonista (da tempo malato). Se nel frattempo non avete perso i sensi per la lettura di alcuni dettagli di questa recensione, sappiate che – come ogni pellicola lynchiana – esistono molti altri dettagli e richiami ad “altro” di cui la pellicola è cosparsa, e solo una visione integrale potrà soddisfare una vostra eventuale curiosità: nel frattempo mi preme aggiungere che non si tratta certamente del miglior Lynch mai visto sullo schermo per quanto, ovviamente, per l’età ed i mezzi i gioco (sempre curati e mai poveristici) “Eraserhead” meriti senza esitazione una visione. I “coraggiosi” del cinema sono stati avvisati…

  • Cube Zero: due cose interessanti, lo splatter e il titolo

    Cube Zero: due cose interessanti, lo splatter e il titolo

    Una donna si risveglia all’interno di un cubo iper-tecnologico cosparso di trappole: dall’esterno due “addetti ai lavori” stanno monitorando la situazione…

    In due parole. Concettualmente vorrebbe riprendere (ed estendere) il capolavoro low-budget di Vincenzo Natali: ma il tentativo è riuscito in parte, ed il film è salvato dal baratro dell’anonimato da qualche effetto splatter sopra le righe. Coinvolge fino ad un certo punto, non dice granchè narrativamente e non c’è traccia, soprattutto, dell’atmosfera asfittica e tenebrosa del capitolo originale.

    Da un punto di vista prettamente narrativo Cube Zero (nonostante le vaghe suggestioni del titolo, ed un inizio promettente) conferma una regoletta molto semplice, ovvero che i prequel riescono ad essere più inutili dei sequel, visto che – come accade in questo caso – rimpinzano un pubblico già sazio cercando di fornire spiegazioni ai limiti della forzatura. Dietro il cubo, in pratica, vi è il solito complotto dei militari, che avrebbero costruito una struttura cubica per intrappolarvi le persone e spiarle mediante avanzatissime telecamere (erano più “simpatici” quando fabbricavano zombi in laboratorio, verrebbe da dire). Un qualcosa di cui – e qui vengono i problemi – si fatica a comprendere lo scopo nonostante le spiegazioni in corso, e che fa quasi rimpiangere le violenze gratuite (tanto per capirci) dei più infimi torture porn (il livello di graphic violence di Cube Zero è elevato, ma quantomeno in quei controversi horror c’è uno psicopatico dichiarato come fautore dei crimini).

    Se la sceneggiatura di questa pellicola del 2004 è piuttosto caotica e rimpinzata di dettagli inutili (quando non confusionari: a che serve aver”firmato il consenso” da potenziale prigioniero, se tanto ti cancellano la memoria?), si potrebbe dire qualcosa di meglio sulle interpretazioni, per quanto i personaggi sembrino un mero riciclo di quelli visti nel primo episodio. Credo quindi, nonostante qualche suggestione gore e qualche dettaglio tutto sommato non malaccio, che in questo capitolo il Cube devastante e nichilista del 1997 sia diventato un concentrato di aria fritta, strutturalmente più inutile e controproducente dell’abusivismo edilizio nel deserto. E anche ragionando nell’ottica utilitarista dei cattivi, del resto, non si vede la ragione per cui si dovrebbe tenere intrappolata gente all’interno di una struttura complicatissima, per testarne chissà quali capacità o reazioni, a maggior ragione del fatto che nessuno – o quasi – sembra essere riuscito ad uscirne vivo. Tanto valeva farli fuori direttamente, oppure confinarli nel solito ospedale come avveniva in film decisamente più riusciti (e molto meno pretenziosi) quali The experiment, Asylum Blackout o Il corridoio della paura. Tanto valeva, in alternativa, spingere sugli aspetti poco noti e misteriosi del Cube, piuttosto che ammettere – come fa uno dei personaggi – che quella struttura sia stata costruita coi “soldi dei contribuenti” (sic).

    Vedere l’impiegato nerd ribellarsi e calcolare mentalmente i percorsi del cubo (con tanto di animazione tridimensionale) è un innesto più da film per adolescenti che altro, e non sembra tanto cònsono allo spirito originario, cinico e simbolista della pellicola originale, della quale qui restano solo vaghi, e zoppicanti, accenni. Guardare poi i militari incappucciati che narcotizzano altre povere vittime, in quest’ottica, rischia di produrre lo stesso effetto sul povero spettatore, che più o meno dalla metà del film in poi si accorge di qualche aspetto visuale e narrativo un po’ troppo “commerciale”, e questo fa crollare quasi tutto l’impianto, troppo proteso – in altri termini – a strizzare l’occhio al grande pubblico cercando di valorizzare più la pancia che la testa (macchinazioni governative, soldati controllati mediante chip, impiegatucci che obbediscono agli ordini come bravi cagnolini ed una strategia di boicottaggio ai limiti del ridicolo).

    In definitiva un film che potrebbe deludere anche il fan “cubistico” più incallito, e che rientra probabilmente nei gusti di un settore di pubblico piuttosto ristretto: quelli che guardano tutto a prescindere, che sono intimamente masochisti o che magari scrivono spesso recensioni di film.

  • Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    La definizione dell’autorevole urban dictionary a riguardo della parola Pulp, difficile da tradurre in italiano, non lascia adito a dubbi: un film, un libro o una pubblicazione di altro tipo di argomento lurido e oscuro, come ad esempio un crimine. In molti casi gli argomenti di natura shockante sono affrontati come se fossero ordinari.

    Lìessenza di Pulp fiction è forse tutta qui, in quelle due frasi così incisive, a patto però che non diventi uno dei tanti film più discussi che visti, come tradizione cinefila imporrebbe subdolamente. Pulp fiction va visto, rivisto e assimilato per poterne apprezzare la bellezza antica, novantiana ed ovviamente pulp.

    Capolavoro di Quentin Tarantino del 1994, e non per modo di dire: diventato oggetto di cult per la fluidità fuori norma, per gli omaggi cinematografici e la molteplicità di riferimenti (Rocky Horror Picture Show e I guerrieri della notte, tanto per citare i più noti). Un film costruito su riferimenti da veri cinefili, capace di stordire, appassionare, spaventare e divertire: certamente l’opera “di cassetta” forse meglio riuscita di ogni tempo da parte del regista. Un regista che all’epoca era saldamente ancorato sulla rielaborazione del cinema di genere anni 70, prima della svolta pop recente che lo avrebbe consacrato al famigerato “grande pubblico”.

    La storia è sostanzialmente divisa in tre parti, e il regista ha deciso di spezzattarla e rimontarla in modo anti-casuale, stravolgendo l’ordine cronologico e riuscendo comunque a chiudere il cerchio in modo anticonvenzionale.

    In fondo non ha alcuna importanza che il regista ritagli per sè una parte minima (neanche troppo rilevante per la trama), e non importa neanche troppo che ci sia un cast di tutto rispetto (John Travolta, Samuel L. Jackson, Uma Thurman, Harvey Keitel il “risolvi-problemi” e Bruce Willis): il vero protagonista del film è il cinema amato dal regista, e declinato in decine di “salse” diverse, fatto di riferimenti – per la verità non sempre ovvi e spesso molto di nicchia.

    In ordine cronologico i fatti sono i seguenti: Vince (Travolta) si procura dell’eroina da uno spacciatore (Lance), e successivamente deve accompagnare la moglie cocainomane del suo capo (Mia, Uma Thurman) a trascorrere una serata in un caratteristico locale (Jack Rabbit Slim’s). La serata si conclude drammaticamente: la donna va in overdose per aver sniffato la dose appena procurata, e Vince la riporta al suo spacciatore al fine di praticarle in’iniezione di adrenalina al cuore. La donna si risveglia e concorda di non raccontare l’accaduto al marito.

    In questa fase viene fuori il “pulp” del film: dialoghi surreali, sarcastici, sul filo del rasoio ed estremizzati come da tradizione del cinema di genere. Il dialogo tra Mia e Vince, fatto di allusioni, imbarazzi ed nevrosi dei due personaggi è quasi l’archetipo dell’appuntamento tra due persone che sanno di non poter “spingersi oltre” pur essendo attratte l’uno/a dall’altra/o. Visivamente la scena più forte è quella della siringa al cuore, un capolavoro di tensione degno di Dario Argento, che Tarantino fece eseguire al contrario per rimontarla all’inverso.

    Successivamente Vince, assieme al suo collega Jules (S.L. Jackson), si reca in macchina da alcuni spacciatori, i quali possiedono una valigetta appartenente al loro capo (Wallace) dal contenuto misterioso (mai chiarito dal film). Nessuno sa cosa ci fosse nella valigetta: diamanti, soldi, quello che penso che sia (cit.), Sto cazzo™️… Che importa. Ha importanza solo che ne dibattiamo ancora oggi, forse. Dopo aver discusso (e dopo essere scampati miracolosamente all’aggressione da parte di un quarto spacciatore fino ad allora nascosto), i due uccidono senza pietà tutti i presenti nell’appartamento tranne uno, che porteranno con sè: poco dopo Vince gli sparerà a morte per errore all’interno della macchina. Jules si rivolge a Jimmie Dimmick (Tarantino) per avere un luogo dove fermarsi, e contatta mediante il loro capo il celebre sig. Wolf, il risolvi-problemi, il quale riuscirà a far ripulire l’auto senza lasciare traccia.

    In questa fase del film la violenza visiva (ed estetizzata) raggiunge il proprio apice, e si esaspera particolarmente l’uso del torpiloquio e del non politically-correct. Rimane nella storia la scena dell’omicidio in macchina ed il versetto biblico –  inventato – recitato a memoria da Jules.

    Poco dopo i due gangster vanno a fare colazione in un vicino fast-food, nel quale Zucchino e Coniglietta (coppia nevrotica di rapinatori alla Bonnie e Clyde) organizzano sul momento una rapina nel locale, facendosi consegnare tutti i soldi dai presenti. Il rapinatore (Tim Roth) incontra Jules, il quale dopo averlo affrontato a muso duro lo disarma. Alla fine decide di lasciarlo in vita, poichè l’essere sopravvissuto all’aggressione di poco prima lo ha fatto entrare in una fase mistica, che gli impedirà di proseguire a fare il gangster. Alla fine dona il contenuto del proprio portafoglio – quello con su scritto “Bad MotherFucker” – al rapinatore, che riesce ad fuggire con la compagna.

    Condotto quasi sulla falsariga del celebre “Un giorno di ordinaria follia” (durante la scena della finta-rapina al fast food dell’impiegato), questa fase del film caratterizza in modo eccellente altri due personaggi, e mostra l’ inatteso spessore dei personaggi di Vince e Jules.

    L’ex pugile Butch (Willis) tratta con Wallace di disputare un incontro truccato a pagamento: i suoi piani pero’ prevedono di incassare subito la somma pattuita, puntando poi su se stesso presso vari bookmaker e vincendo l’incontro, venendo meno ai patti. Nel frattempo riesce a rientrare nel motel dove lo attende la fidanzata: il giorno dopo si rende conto di aver dimenticato l’orologio appartenuto a suo padre e a suo nonno, e ritorna nel proprio appartamento a recuperarlo. Lì, pur trovando Vince ad attenderlo, riesce fortuitamente ad avere la meglio su di lui uccidendolo con l’arma che il gangster aveva lasciato sul tavolo proprio mentre usciva dal bagno.

    Mentre Butch è in fuga con la macchina, fermo ad un semaforo incontra casualmente Wallace in persona, e decide di andargli addosso con la macchina ferendolo (e ferendosi) gravemente. Da qui nasce un inseguimento a piedi che culmina all’interno di un negozio, gestito dal sadico Maynard che tramortisce i due e li porta nello scantinato per stuprarli. Mentre l’amico del proprietario, il poliziotto Zed, sta esercitando violenza sessuale sull’immobilizzato Wallace, Butch riesce a liberarsi e fa fuori lo “storpio” (lo schiavetto della coppia in tenuta sadomaso). Convinto inizialmente a darsela a gambe ritorna invece sui suoi passi, scegliendo accuratamente un’arma adatta a liberare Wallace (un martello, una mazza da baseball, una motosega ed infine una katana). Trafigge così Maynard, mentre lascia la vendetta per Wallace, che si preannuncia particolarmente lenta e dolorosa, estinguendo per riconoscenza verso l’ex antagonista il suo debito precedente. Butch ritorna al motel a bordo di un chopper e fugge da Los Angeles con la fidanzata.

    La parte conclusiva di “Pulp fiction” merita un posto d’onore all’interno della storia del cinema, non tanto per le citazioni sparse – tra cui evidentemente “Poliziotto sadico“, e quasi certamente qualche exploitation di nicchia di argomento sadomaso – quanto per il ritmo e lo svolgersi dell’intreccio. Probabilmente la parte migliore del film, recitata con grande spirito da Bruce Willis, e ricca di personaggi aggiuntivi e di micro-storie annesse (lo schiavetto, la tassista, la fidanzata del pugile).

    Alcuni dettagli del film potrebbero globalmente spiazzare il pubblico, che potrebbe non comprendere certi riferimenti o infastidirsi per l’autoreferenzialità del regista, senza contare la miriade di dettagli – che non riporto per brevità – che arricchiscono un film di quasi tre ore (!). In realtà sono proprio questi ultimi a costituirne la base della grandezza che si è tramandata fino ad oggi, offrendoci un’opera che riesce a non far sbadigliare neanche per un attimo.

    Un film che dice molto più di quanto possa raccontare una recensione, e che dipinge lo stile del primo Tarantino assieme a Le iene e Jackie Brown.

  • Snuff 102 è l’horror che non vorresti mai guardare

    Snuff 102 è l’horror che non vorresti mai guardare

    Ne hanno parlato malissimo, è stato stroncato dai siti generalisti di cinema e non è stato neanche doppiato in italiano: ce n’è abbastanza, insomma, perchè me ne possa interessare in questo blog. Produzione argentina piuttosto infame in Italia, narra in stile shockumentary di un malatissimo serial killer che riprende le proprie vittime, e ne esce fuori un film incrociato con l’inchiesta di una giornalista…

    In breve. Un horror molto estremo, non esente da difetti nel suo impianto realizzativo, violento all’ennesima potenza e quasi compiaciuto di ciò che mostra. Eufemisticamente parlando non è roba che si vede tutti i giorni sugli schermi, e sarà anche tacciabile di una certa misoginìa di fondo – ma guardando la pellicola per intero l’opinione cambierà radicalmente. Uno dei film più spaventosi del nuovo millennio.

    C’è un fatto fondamentale da premettere: questo film non è davvero uno snuff, anche se il regista ha fatto davvero di tutto per farcelo credere. Del resto quando guardiamo un horror generico siamo sempre tentati – per una sorta di meccanismo auto-difensivo – a premettere (e a ripeterci) che “sia tutta finzione”. Questo rafforza le nostre certezze, le stesse che il regista vorrebbe far vacillare, spingendo i più convinti di noi a bollare come stronzata tantissime produzioni orrorifiche che si sono susseguite negli anni. E poi figuriamoci se esistono gli snuff: una fonte autorevole come Snopes ne parla, a ragion veduta, come di una bufala. Non voglio pensare al pubblico del fantastico e dell’horror come ad un gruppo di bambinoni che guardano film violenti solo perchè i genitori glielo hanno vietato: pero’ a volte temo che ce ne siano davvero tanti in giro, altrimenti nessuno (s)parlerebbe di “Snuff 102” o dei vari “Faces of death”.

    C’è fin troppo da vedere per gli amanti del gore in salsa semi-amatoriale (per quanto ne so il feeling è simile a quello dei film di Fred Vogel), e c’è anche un finale a mio parere sopra le righe. È anche importante, in questa sede, qualche precisazione collaterale, che quasi nessuno ha ritenuto di dover fare, preso com’era dal fare considerazioni emotive sul “capolavoro di qua, grande indecenza di là” e via delirando. Ma questo film vi addosserà un forte senso di ribrezzo, vi farà sentire totalmente coinvolti nella vicenda e, in altri termini, lascerà un pesante segno su qualsiasi essere umano che lo veda. La domanda da porsi è ben precisa: per quale motivo la ripresa con una videocamera di un atto violento che porta ad una morte reale finisce per farci più orrore dell’omicidio stesso? Perché, in altri termini, ci poniamo il problema solo quando ci mostrano un qualcosa che forse esisterebbe comunque, invisibile ai nostri sguardi? Forse per il fatto che, un po’ cinicamente, va sempre a finire che “occhio non vede, cuore non duole”?

    Snuff 102 pone questi interrogativi, ma solo per chi riuscirà a coglierli: tutti gli altri vedranno una stronzata inutilmente violenta, se non addirittura un film antitetico al genere femminile. Cospargendo di citazioni la pellicola – alcune delle quali sopra le righe, come “Perchè essere morali quando si può essere anonimi?” che fa riferimento dall’uso falsamente anonimizzante di internet – “Tutte le scene di tortura documentate nel film sono reali”, ci dicono i sottotitoli. Sì, buonasera: sappiamo com’è nata la strega di Blair, la cosa puzza ovviamente di bufala anche se il primo impatto col film è davvero molto realistico. Sembra di stare per assistere a qualcosa di malato, reale e folle: e la seconda citazione del film riguarda giusto la perversione, esplicata dall’usare il corpo altrui come se fosse un vuoto involucro.

    E poi, naturalmente, lo spiegone scientifico sulla misoginìa, un dato di fatto maledettamente confermato dalla storia. A Peralta piacciono le citazioni, evidentemente, visto quante ne ha cosparse nell’intera pellicola. Quando compare la sequenza di uccisione di un maiale, con la scritta che è tratta dal video illegale dell’uccisione di una persona, mentre nel video si vede “solo” lo sgozzamento dell’animale, e a quel punto qualche sopracciglio inizia a sollevarsi: l’approccio scelto dal regista appare sostanzialmente disonesto, guidato forse da logiche di marketing piuttosto logore. Dopo aver assistito a qualche scena macabra che mostra le vittime di un serial killer dedito sia agli omicidi ultra-gore che alla necrofilia, l’intreccio si incrocia con l’inchiesta di una giovane giornalista, e la considerazione più interessante arriva dopo una ventina di minuti: impossibile che esistano gruppi dediti al culto degli snuff, visto che qualche adepto finirebbe per denuciare gli altri, presto o tardi. È più probabile, invece, che un sociopàtico solitario possa voler riprendere i propri crimini in diretta, visto che non dovrebbe davvero rendere conto a nessuno delle follie che commette. Inquietante, e purtroppo abbastanza realistico: esattamente come l’andamento del film stesso, caratterizzato da una parvenza dichiaratamente immorale. Alcune scene a cui assisteremo di lì  a breve sono esageratamente violente, e sembrano ispirate ai testi più crudeli dei Cannibal Corpse (se state pensando a Fucked with a knife siete sulla strada giusta). Colonna sonora elettronica, se importa qualcosa, secondo me azzeccata, anche se – per i toni con cui è stato girato il tutto – a quel puntosarebbe stato preferibile un po’ di (in)sano goregrind.

    Tornando al film c’è molto non quadra: iniziare un film con un preavviso esplicito che si tratta di uno snuff (Avviso: nel DVD porno che avete comprato si vedono un sacco di tette e culi pornissimi), fa scattare – in parallelo al senso di disgusto – uno scetticismo di fondo, che ci spinge a bollare film del genere come spazzatura alla pari di “Casalingue amatoriali Vol. 102/b”. Hai voglia che riporti citazioni o mi fornisci spunti di riflessione filosofico-sociali: pseudo-snuff masturbatori che, per una strana ragione, siamo comunque invogliati a seguire fino alla fine nonostante gli inquietanti presupposti, e non ci sono prediche o moralismi che possano farci chiudere il televisore. Questo meccanismo di disgusto-fascino, vagamente ipocrita a ben vedere, è stato splendidamente descritto nell’ottimo Tesìs già undici anni prima del 2007: sarebbe forse il caso, quindi, oltre a guardare la pellicola appena citata, di scollarci di dosso definitivamente l’etichetta di “spettatori verginelli” , fermo restando che questo non è esattamente Horror o meglio, finisce per esserlo al 70% solo per via dei gusti bizzarri (per non dire insani) di parte del suo pubblico. Anche perchè chi vede “Snuff 102” sa tipicamente a cosa andrà incontro, per cui c’è davvero poco da discutere in merito. Pratiche alimentari a parte (visto che i maiali, ad esempio, molti li mangiano a prescindere da quante volte muoiano in “Snuff 102”), la crudeltà è stata purtroppo sdoganata a ben altri livelli; una violenza che  – nell’epoca dell’esibizionismo assoluto su internet, annesso alla sfera sessuale e non solo – conosciamo fin troppo bene. Insomma: sappiamo a cosa stiamo andando incontro, molti di noi hanno presente cosa propongano certi siti per incrementare le visite , e in un prodotto cinematografico regolarmente distribuito deve  ovviamente permanere la certezza, fino a prova contraria, che sia stata solo finzione.

    Evitiamo pero’ il razzismo culturale che ci fa considerare queste cose infinitamente distanti da noi, e inquadriamo il problema sempre nel contesto in cui si trova (esempio facile: l’ispirazione di Hostel per la dinamica degli omicidi, che avvenivano di comune accordo mediante un sito web all’interno di una rituale poi “risarcito” economicamente ai parenti della vittima). Non voglio fare di Peralta un eroe del nuovo millennio, ma resta indiscutibile che film così finiscono per diventare testimonianza indiretta di quanto sia diventata spocchiosa, insoddisfatta, maleducata – nel senso di “non abituata” al cinema di qualità – e indisponente una buona fetta del pubblico dell’orrore, e di cosa siano “costretti” ad inventarsi certi registi per andare loro incontro. Un regista che, in definitiva, realizza un discreto film, non esente da difetti e con un tasso di tensione sopra la media, che si sofferma pero’ troppo su aspetti violentemente voyeuristici, senza contare che un’ora e quaranta di durata è troppo, è una martellata sulla nuca che diluisce l’effetto globale della pellicola stessa. Un assolo interminabile senza una sola pausa: allora possiamo criticare modalità, regia, interpretazione e profanazione di corpi femminili (quello della donna incinta è ovviamente uno dei più sgradevoli), ma attenzione a certe considerazioni troppo “di pancia” che finirebbero per incrementare viralmente le persone che lo vedranno, facendoci passare per moralisti “a singhiozzo”. Teniamo ben presente quello che ho scritto all’inizio: per estensione, le scene di guerra dei TG ci farebbero convincere che i cameraman vadano lapidati perchè più colpevoli degli esecutori dei delitti.

  • Nosferatu 1979: il principe della notte secondo Herzog

    Nosferatu 1979: il principe della notte secondo Herzog

    Recensione di Nosferatu – Il principe della notte

    Regia: Werner Herzog
    Cast: Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Walter Ladengast

    Al sole non attribuisco più nessuna importanza, né alle scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto. Io adoro solo l’oscurità e le ombre, dove posso essere solo coi miei pensieri. Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti, i secoli vengono e vanno. Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose.

    Nosferatu di Werner Herzog si apre su una inquietante sequenza di mummie all’interno di una cripta (si scoprirà o meno dove?): uomini, donne, bambini. Il gusto del dettaglio mostra le loro espressioni di orrore, gli stivali che indossano, la degradazione del corpo dovuta al tempo. Poco dopo un pipistrello fa la sua comparsa nel cielo più scuro di sempre, e un urlo di Lucy fa sobbalzare lo spettatore: ha avuto un incubo, ne parla al marito Jonathan, e sembra che non sia la prima volta che le capita.

    Nel frattempo Jonathan dovrà partire per lavoro e recarsi al castello del conte Dracula, sui monti Carpazi. Il presentimento di Lucy è la principale chiave di lettura sottesa al film: se in questa sede Herzog sembra insistere sull’aspetto mistico della sensazione, nella riedizione di Eggers il male viene ricondotto ad un problema di salute mentale da parte della donna. Messe a confronto, le due edizioni del film – che hanno 45 anni di differenza – sono simili ma sostanzialmente diverse: Eggers realizza una sorta di studio d’atmosfera sulla trama, mentre Herzog favorisce il ritmo, la sequenza degli avvenimenti, l’incedere della maledizione del vampiro sull’uomo. Non solo: Herzog rappresenta i personaggi secondari (gli zingari, il taberniere, …) come miti e collaborativi nei confronti di Jonathan, il quale si reca ostinatamente al castello di Dracula spinto dalla prospettiva di guadagnare denaro. Eggers, dal canto suo, sembra focalizzare un personaggio solitario, solo contro tutti, immerso in un mondo estraneo e ostile, che non vuole neanche che stia lì – peggio che peggio che vada dal conte Orlok.

    Werner Herzog reinventa il mito di Dracula in Nosferatu – Il principe della notte, che diventa un omaggio e al contempo una reinterpretazione dell’iconico capolavoro di F.W. Murnau del 1922. Con la fine dei vincoli del copyright del romanzo di Bram Stoker, il regista decide di ripristinare i nomi originali dei personaggi, infondendo al film un’aura di autenticità e gotico puro. La dimensione onirica non è peraltro solo figurata: Jonathan scrive alla moglie di aver fatto un brutto sogno, e di cercare di dimenticarlo. I personaggi sono condotti alla rovina, in qualche modo, anche da questa incapacità congenita di introspezione, di scoprire ciò che Freud avrebbe chiamato interpretazione dei sogni (1899), immersa indefinitamente tra contenuto manifesto e contenuto latente. L’horror di Nosferatu è ancora una volta raffinato quanto inquietante, prettamente letterario, raramente esplicito, quasi sempre fatto di accenni, riferimenti, simboli, riconoscimenti dall’immenso potere di suggestione. Basta anche solo analizzare una singola, emblematica scena per capacitarsene: quando il conte penetra furtivamente nella stanza da letto di Jonathan è una sublimazione assoluta dell’orrore. Sulle prime, infatti, la vittima resta immobile, come se fosse incerta di sognare o essere sveglia. Il minimo movimento del conte Dracula lo fa sobbalzare, capiamo che si tratta di realtà e poco dopo vediamo il conte avventarsi su Jonathan. A questo punto, il montaggio non ci fa vedere cosa succede, ma riusciamo ad immaginarlo. Vediamo la reazione a distanza della moglie, in preda a febbre e allucinazione, e subito dopo il conte che ha appena morso Jonathan sul collo.

    La parola Nosferatu – per la cronaca – presenta un’origine etimologica incerta: la sua diffusione si deve principalmente al romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) e al film espressionista tedesco Nosferatu (1922) di Morneau. Stoker attribuì l’origine del termine alla scrittrice Emily Gerard, che lo avrebbe menzionato nel saggio Transylvanian Superstitions (1885) e nel suo libro di viaggio The Land Beyond the Forest. Lo studioso Gerard aveva descritto Nosferatu come una parola rumena sinonimo proprio di “vampiro“.  Tuttavia, il termine era già apparso in un articolo del 1865 di Wilhelm Schmidt, che lo identificava come un termine folkloristico risalente alla regione della Transilvania. Altre ipotesi collegano l’etimologia del termine al greco nosophoros (“portatore di malattia”), un’idea che potrebbe aver ispirato la rappresentazione del vampiro come diffusore di pestilenze già a partire dal film del 1922. Altre teorie suggeriscono una connessione con il latino spirare (“respirare”) o con termini rumeni come necurat (“impuro”), nesuferit (“insopportabile”) o nefârtat (“nemico”). Come se non bastasse, si ipotizza che Nosferatu possa essere una variante dialettale o una trascrizione imprecisa di un termine rumeno dell’epoca, in un contesto in cui la standardizzazione della lingua era ancora in corso nel XIX secolo. L’ambiguità e la ricchezza delle interpretazioni riflettono la complessità culturale e linguistica del termine. Al netto delle varie possibilità, nessuna di esse sembra confermata da fonti linguistiche certe.

    Klaus Kinski regala un’interpretazione memorabile nei panni di un Dracula inquietante, dall’aria innocua, quasi malinconica. Siamo al cospetto di una delle migliori interpretazioni di sempre del ruolo del vampiro, per un film che è diventato iconico e che è calato nel contesto del folk horror ante-litteram: l’orrore è letterario, tradizionale, affidato alla storia o all’antropologia, è quasi parte di un rituale che sembra ripetersi da sempre.  L’atmosfera del film è avvolgente, spesso onirica, molte sequenze non hanno consequenzialità – soprattutto quando Jonathan rimane intrappolato nel castello, trovandosi in un luogo e risvegliandosi in un’altro senza rendersi conto. Il castello di Dracula descritto è qui una dimensione a metà tra sogno e realtà, che sembra voler comunicare a distanza con Hellen, qui interpretata dall’icona del cinema e della musica Isabelle Adjani. Tutto o quasi è nebbia, nel Nosferatu di Herzog: perchè non è mai solo un aspetto materiale o puramente estetico, ma rappresenta la confusione dei personaggi nella lotta disperata contro un vampiro portatore di peste. Un vampiro dai modi apparentemente affabili e signorili, come nella sequenza dell’accoglienza di Jonathan – l’arrivo al castello del personaggio è dettagliatissimo, interminabile, attraversando asperità e paesaggi ostili all’interno dei Carpazi. Un vampiro che si scompone esclusivamente alla vista del sangue, come nella celebre sequenza in cui – a pranzo col Conte – Jonathan si ferisce a un dito mentre cerca di tagliare il pane.

    Nosferatu – Il principe della notte è in definitiva un’opera che unisce l’attenzione ai dettagli estetici a un profondo rispetto per le radici del mito. Un capolavoro del cinema gotico che non solo rende omaggio al passato, ma lo reinventa con uno stile unico e visionario.