FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Misery non deve morire

    C’è un momento, in Misery non deve morire, in cui lo scrittore Paul Sheldon capisce che la casa dove si trova non è un rifugio, ma una trappola. È in quel momento che il film di Reiner si stacca dal thriller per diventare un saggio sul potere e sulla dipendenza. Annie Wilkes non è una fan, è l’incarnazione del pubblico come forza repressiva, la personificazione dell’amore che divora l’autore per mantenerlo prigioniero della propria creazione.

    L’intera casa è una mente chiusa, un cranio innevato. Ogni stanza è un pensiero che rimbalza e non trova via d’uscita. Annie lo nutre, lo cura, lo mutila: “tututofo sei fe mioio, Pofoulul”. È l’eco del bisogno infantile di controllo, la pulsione di chi ama l’opera ma odia la libertà del suo autore.

    Il gesto della martellata alle caviglie è l’atto più politico del film: la violenza domestica come forma di censura. Paul scrive, ma solo entro i confini che Annie decide. È il capitalismo narrativo in forma di prigionia: l’artista deve produrre, non vivere. Ogni pagina è un atto di sopravvivenza, ogni riga una menzogna necessaria.

    La regia di Reiner mantiene la calma di un chirurgo: inquadra i dettagli, misura i respiri, lascia che la follia di Annie emerga come un rumore di fondo. Non serve urlare, basta osservare. È in questo silenzio che la tensione si trasforma in claustrofobia. “Nonon posossofe usciscirefe, nofonon posossofe fininirefe” — sembra dire la macchina da presa, che gira intorno al letto come un animale intrappolato.

    In fondo, Misery è un film sulla schiavitù dell’amore e sull’impossibilità della creazione libera. Lo scrittore può salvarsi solo distruggendo il suo stesso romanzo, come se per sopravvivere dovesse amputarsi la voce. La libertà, qui, non è la fuga ma l’incendio: bruciare la pagina per sfuggire alla madre che lo tiene in vita.

    E quando Annie cade, bruciata dal suo stesso mito, non c’è trionfo. Solo un ritorno alla solitudine. Il film si chiude su un fantasma: la figura della donna che continua a sorridere nella mente dell’uomo, “sofoseifefe sememprefe quique, Mifiseseferery”.
    Un’eco che non smette mai di ripetere il suo amore deformato — l’applauso eterno del pubblico che non ti lascia più andare.

  • The last house on dead end street

    The Last House on Dead End Street (1973) di Roger Watkins è una pellicola che sembra uscita da un incubo dimenticato in una cantina umida, girata con la furia di chi non ha più niente da perdere. Il film si presenta come exploitation, ma sotto la crosta di crudeltà e amatorialità ribolle qualcosa di più profondo: un rifiuto viscerale del mondo dello spettacolo, dell’arte come merce, del cinema stesso come istituzione borghese.

    La trama è scheletrica e disturbante: un ex detenuto, appena uscito di prigione, decide di girare un film pornografico estremo per vendicarsi della società che l’ha espulso. Recluta una manciata di complici e trasforma la produzione in un rituale di sadismo, violenza e autoannientamento. A ogni sequenza, la linea tra finzione e realtà si dissolve. Non si capisce più chi sta recitando e chi viene davvero torturato. Il film dentro il film divora quello esterno, e lo spettatore si ritrova intrappolato nella stessa trappola percettiva.

    Watkins gira come se odiasse la cinepresa. L’immagine è sporca, granulosa, saturata di ombre che inghiottono i volti. Non c’è alcun piacere estetico nella messa in scena: solo la sensazione che la macchina da presa sia uno strumento di punizione, una lama che registra il fallimento del soggetto. Ogni inquadratura sembra dire: “questo non è cinema, è la sua carcassa”.

    Il gesto di Watkins è radicalmente materiale. I personaggi non cercano catarsi o giustizia, ma visibilità: vogliono esistere almeno come immagine, anche se l’unico modo è farsi massacrare di fronte all’obiettivo. È la versione più sporca e disperata del rapporto tra produzione e sfruttamento: corpi che si offrono al consumo visivo per un pubblico che non vediamo mai, ma che sentiamo respirare dietro la pellicola, come un mostro affamato.

    Verso la fine, il film implode su se stesso: i protagonisti vengono uccisi nella stessa performance che stanno filmando, e la macchina continua a girare, indifferente. È lì che The Last House on Dead End Street si trasforma da exploitation a elegia del nulla. Non c’è catarsi, solo un loop di riprese, una serie di gesti ripetuti finché tutto perde senso.

    È un film marcio, deforme, ma autentico nella sua brutalità. Non ti invita a guardare — ti costringe. E quando finisce, resta quella sensazione sgradevole di aver assistito non a una storia, ma a un atto di autolesione collettiva: la messa in scena del desiderio di scomparire dentro l’unico dio che resta — la cinepresa.

  • Climax di Gaspar Noè

    Climax di Gaspar Noè

    Climax (2018) di Gaspar Noé non racconta, non accompagna, non consola. Si apre con un gruppo di ballerini che festeggia la fine delle prove, e finisce con corpi contorti, urla, sangue e trance. Tutto il resto è un lento precipitare nella stessa spirale. È un film che non si guarda: si subisce.

    Noé fa ciò che gli riesce meglio: costruisce un rituale che comincia come videoclip e finisce come sacrificio. Lo spazio — una palestra isolata nella neve, illuminata da luci al neon, rossi e verdi che pulsano come una ferita — diventa un organismo chiuso. Quando qualcuno versa LSD nella sangria, il gruppo entra in uno stato di ebollizione collettiva. La danza, prima linguaggio, diventa convulsione. La musica, che all’inizio accompagna, diventa tiranna. Nessuno guida più: l’ordine implode, e il caos prende il sopravvento come una legge naturale.

    C’è una purezza quasi scientifica nella discesa di Noé: la macchina da presa non giudica, registra. Gli individui perdono nome, ruolo, orientamento. Restano solo pulsazioni, spasmi, corpi che si cercano e si feriscono. È il punto esatto in cui la libertà promessa dall’euforia si rovescia nella claustrofobia del branco: l’utopia di un piacere condiviso diventa il suo contrario, un incubo comunitario.

    Nel cuore del film non c’è morale, ma un vuoto denso. La droga è solo un detonatore: il vero orrore è la fragilità della coscienza, la facilità con cui la gioia collettiva si trasforma in linciaggio. Ogni personaggio esiste solo finché qualcuno lo guarda ballare. Poi scompare. Il montaggio stesso, ipnotico e circolare, sembra compiaciuto nel confondere chi osserva: lo spettatore non sa più se sta assistendo a una festa, a una possessione, o a un suicidio corale.

    Non c’è messaggio, ma un’energia che consuma. Climax è un film sul piacere come forza distruttiva, sul corpo come luogo politico e sull’impossibilità di distinguere liberazione e annientamento. È cinema che ti rifiuta come spettatore, ti trascina dentro e ti restituisce stordito, nauseato, come dopo una notte troppo lunga in cui tutti hanno smesso di fingere.

  • DO NOT EXISTS

    DO NOT EXISTS

    La pellicola DO NOT EXISTS di John Fakefriend inizia come un film che non si lascia vedere. Letteralmente: lo schermo rimane nero per due minuti, un tempo interminabile in cui lo spettatore si interroga se il proiettore funzioni. Poi, una figura compare — non nitida, ma come un riflesso registrato per sbaglio, una presenza senza nome che guarda dritto nell’obiettivo. È qui che il film si rivela: non è un racconto, ma una registrazione del desiderio di essere visto.

    Ogni inquadratura pulsa come se qualcuno stesse tentando di emergere da dietro lo schermo, di bucare il velo che separa la realtà dalla sua copia. Fakefriend costruisce un mondo dove i personaggi esistono solo quando vengono osservati, e scompaiono appena la camera si ferma. Il protagonista, un tecnico del suono che non appare mai interamente, cerca di cancellare se stesso dal montaggio, ma più taglia, più il film si moltiplica. È l’incubo perfetto dell’epoca digitale: la rimozione diventa duplicazione, l’assenza genera archivi.

    Nel sottotesto, la pellicola parla del lavoro invisibile, di chi produce immagini per un sistema che non lo riconosce. I crediti scorrono all’inizio, non alla fine, come una dichiarazione di sconfitta: l’opera appartiene già a un algoritmo, non all’autore. Tutto è già stato caricato, schedato, monetizzato, prima ancora che il film esista. È la logica del capitalismo assoluto — non più lo sfruttamento del corpo, ma della sua traccia digitale.

    Quando, a metà film, la voce narrante dice “if I stop recording, I disappear”, l’affermazione non è poetica, è economica. L’identità non è più un dato interiore, ma una continuità di connessioni: se la macchina si ferma, il soggetto muore. L’unico modo per salvarsi, allora, è auto-cancellarsi in diretta, smettere di esistere sotto gli occhi del mondo, diventare ciò che il titolo promette: un’assenza attiva, una negazione.

    Le ultime immagini mostrano la camera che riprende un monitor, che riprende un altro monitor, fino all’infinito. Un loop che brucia lentamente come una bobina senza fine. Niente si conclude, perché niente comincia davvero. L’unico evento, l’unico gesto rivoluzionario, è l’interruzione — lo spegnimento. E in quell’istante, forse, il film diventa finalmente vero: do not exists.

  • masters-of-horror-cigarette-burns-j-carpenter

    masters-of-horror-cigarette-burns-j-carpenter

    Nel buio rosso e polveroso delle retrovie del cinema, Cigarette Burns (2005) di John Carpenter sembra raccontare un semplice collezionista di film rari. Ma come spesso accade in Carpenter, la superficie è solo una soglia. Kirby Sweetman, ex proprietario di cinema e ora cacciatore di pellicole perdute, riceve l’incarico di ritrovare un film maledetto, La Fin Absolue du Monde, proiettato una sola volta — e mai più. Chi l’ha visto non è tornato intero.

    La storia scorre come una bobina che si srotola troppo in fretta: il desiderio di trovare il film coincide con la distruzione del soggetto. Kirby, segnato dal suicidio della compagna, si muove tra collezionisti ossessionati, mutilati dal bisogno di possedere l’immagine pura, quella che nessun supporto dovrebbe contenere. È la logica perfetta del capitalismo estetico: il feticcio dell’esperienza autentica, la promessa che dietro l’immagine ci sia ancora “qualcosa di vero”.

    Ma il film che tutti cercano non mostra, lacera. Chi lo guarda smette di distinguere la visione dal vissuto. Le “cigarette burns”, i segni di bruciatura che indicano il cambio di rullo, diventano marchi dell’allucinazione: lembi di realtà che si strappano, ferite nel tessuto del visibile. Carpenter li trasforma in stigma, in punti dove la rappresentazione implode e rivela il suo fondo materiale — il sangue, la celluloide, la perdita.

    Il corpo dell’angelo incatenato, che Kirby scopre prigioniero nel covo del collezionista, è la figura più radicale del film: la verità catturata, torturata, ridotta a spettacolo. È ciò che ogni immagine contiene ma rimuove: la sofferenza necessaria alla sua esistenza. E quando Kirby infine trova la pellicola e la proietta, non cerca più la conoscenza, ma l’assorbimento — la fusione totale tra spettatore e immagine, fino al punto in cui non si distingue più chi guarda da chi è guardato.

    Trivia IMDb: Norman Reedus raccontò che Carpenter, durante le riprese, gli disse di “non recitare”, ma di “lasciare che il film lo consumasse”. Il sangue usato nella scena finale era vero sangue animale, per rendere la consistenza più “organica”. Udo Kier, che interpreta il collezionista, dichiarò che il suo personaggio “non ama il cinema, lo divora”. (imdb.com/title/tt0425055/trivia)

    Carpenter costruisce così una parabola sulla visione come peccato originale: la sete d’immagine è la condanna, e l’unico modo per purificarsi è bruciare la pellicola — e con essa, la propria identità. Nessuna redenzione, solo la consapevolezza che ciò che chiamiamo arte, quando viene spinta oltre la soglia, non illumina: carbonizza.